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VANGELO DI LUCA

Ultimo Aggiornamento: 23/11/2008 16:21
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Luca è il solo evangelista che premette al suo scritto un prologo nel quale dichiara, nei primi due versetti, le fonti a cui attinge: “Coloro che furono testimoni e divennero ministri della parola” (gli apostoli) e nei due versetti successivi, lo scopo e le caratteristiche del lavoro che intraprende: “Ho deciso di fare ricerche accurate  e di scriverne un resoconto ordinato … perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti”.

In questo prologo, Luca adotta un classico stile greco e un vocabolario che si ritrova identico in trattati ellenistici dell'epoca, in cui si dichiarano le finalità per cui si scrive un libro e il metodo che si è seguito.

In questo modo, egli rivela chiaramente che il suo libro è un'opera di attualità, destinata ai suoi contemporanei non giudei. Fin dall'inizio, Luca si pone in relazione con alcuni precursori che hanno redatto un racconto scritto[5]. Essi erano privi, secondo lui, sia delle qualità che lui spera di mettere in opera e sia delle fonti a cui attingerà: il vangelo di Marco, che non riporta né la nascita di Gesù né le apparizioni pasquali, e una raccolta di parole del Maestro ("fonte Q"), che non conteneva quasi nessuna narrazione.

Questi precursori (Marco e fonte Q), per comporre i loro scritti, avevano attinto alla "Tradizione"[6], cioè alla trasmissione orale del vangelo da parte degli Apostoli, che sono stati prima testimoni oculari delle parole e delle opere di Cristo (è il contenuto del primo volume) e ministri poi della parola (secondo volume: Atti degli Apostoli).

Luca precisa allora, che si è preoccupato di porsi scrupolosamente in ascolto della tradizione ecclesiale e di scriverne un resoconto ordinato.  Quest'ultima annotazione non indica in primo luogo un ordine cronologico: intende piuttosto precisare che l'opera illumina il modo in cui Dio guida, avvenimento dopo avvenimento, il suo disegno di salvezza nella storia. Luca ha indubbiamente una preoccupazione di storicità, ma conoscendo le opere degli storici greci e latini suoi contemporanei, cerchiamo di non proiettare sul progetto di Luca la concezione moderna della ricerca storica.

L'opera è dedicata all' "egregio Teofilo", un convertito di origine pagana, che forse occupava un posto importante nell'amministrazione romana. Lo scopo a cui mira Luca è quello di "convincere Teofilo della solidità degli insegnamenti ricevuti".

Due annotazioni per concludere.

La prima è che la trasmissione degli avvenimenti di Gesù avvenne in una comunità di credenti: questo è il senso fondamentale dell’espressione “servi della Parola”, che Luca applica direttamente ai primi testimoni, ma anche ai successivi testimoni. Servitore della Parola dice l’atteggiamento di chi si assoggetta alla Parola e cerca con ogni cura di non tradirla, indica anche che i testimoni si lasciano coinvolgere dalla Parola che trasmettono: sono discepoli del Signore, non persone neutrali.

La seconda annotazione è che non basta affermare che gli avvenimenti di Gesù esigono di essere trasmessi in una comunità credente. Occorre andare oltre e precisare che la vita della comunità fa intimamente parte degli avvenimenti stessi: infatti occorre annunciare un Cristo vivo, che opera attualmente, non un semplice ricordo del passato.

La comunità è il luogo in cui gli avvenimenti di Gesù tornano ad essere vivi, attuali e salvifici, tornano ad essere “vangelo oggi”, cioè storia di salvezza che accade “fra noi”. E’ in forza di questa intuizione che Luca può parlare, con molta profondità, di avvenimenti accaduti fra noi, cioè nella comunità cristiana, pur essendo in realtà accaduti nel passato. Ed è per lo stesso motivo che egli sente il bisogno di scrivere, in continuità con la storia di Gesù, la storia della chiesa (Atti degli Apostoli).


TORNA ALL'INDICEII.  I RACCONTI DELL'INFANZIA (1,5-2,52)


Matteo, Luca e Giovanni aggiungono una specie di "vangelo dell'infanzia" alla loro opera principale. Quello di Giovanni potrebbe essere descritto come un inno arcaico cristiano nel quale viene proclamata la preesistenza di Gesù e il suo divenire carne, il racconto di Matteo è composto sotto forma di annuncio ufficiale, catechetico; la narrazione di Luca, invece,  combina insieme lo stile dottrinale e meditativo.

Che questi "racconti dell'infanzia" non facessero parte della predicazione apostolica originale può essere stabilito non soltanto dal fatto che il ministero pubblico di Gesù ebbe inizio solo con il suo battesimo amministratogli da Giovanni ma anche dal fatto che il ministero degli apostoli si poggiava unicamente su ciò di cui essi stessi erano stati, cioè testimoni oculari.

A partire dalla Pentecoste gli apostoli nella loro predicazione, si rifacevano alla risurrezione, alla passione e morte, al ministero pubblico di Gesù e infine alla sua "vita nascosta". I racconti dell'infanzia emersero solo più tardi come risultato dello sforzo di impartire una istruzione sempre più completa sull'opera e le parole redentrici di Gesù.

Anche Luca, quindi, esprime nei "Vangeli dell'infanzia" il massimo della sua teologia, ed è per questo che forse dovremmo leggerli alla fine, perché per ultimi sono stati scritti, così come per ultimo è stato redatto il "Vangelo dell'infanzia" di Matteo.

Questi "Vangeli dell'infanzia" sono altamente teologici ed esprimono l'esigenza che la comunità primitiva (la comunità dei credenti sotto la guida degli Apostoli) avverte di penetrare il "mistero" del Cristo morto e risorto e tutto ciò che vi era all'origine. Si tratta di un "ritornare indietro", un interrogarsi, su questo "inizio" della vita di Gesù, anche alla luce di citazioni della Sacra Scrittura.

E' chiaro, a questo punto, che l'esigenza teologica ha il sopravvento sulla realtà storica, per cui c'è un tipo di storia nei "Vangeli dell'infanzia" completamente diverso dal resto del Vangelo.

E' risaputo che gli studiosi parlano di racconto "midrashico", cioè di dati storici non sempre facilmente ricostruibili, nei quali prevale l'interpretazione teologica e spirituale. Per esempio: chi sono i Magi? Chi mai saprà dirci qualcosa di questi personaggi? Certamente nessuno. E siccome Matteo, che ci descrive l'episodio  di questi personaggi, non sa dirci che pochissime cose; nessuno, quindi, è autorizzato a fantasticare su di loro, perché il nucleo storico che pure doveva esserci, è difficilmente ricostruibile.

Di qui l'interesse che hanno gli evangelisti Matteo e Luca nel riproporci alcuni episodi dell'infanzia, in cui il nucleo storico si riduce a ben piccola cosa, ma il più è interpretazione e meditazione.

In conclusione i racconti dell'infanzia di Gesù di Luca sono un insieme di testi dell'AT. Possiamo citare alcuni esempi: Lc. 1,12 (Dan. 10,7.12); Lc. 1,16ss (Mal. 3,1.4ss); Lc. 1,19 (Dan. 9, 20-23); Lc. 1,28.32 (Zc. 3, 14-17); Lc. 1,35 (Es. 40,35); Lc. 1, 40-46.55 (2 Sm. 6); Lc. 1,42 (Giud. 5,24); Lc. 1,64ss. (Dan. 10,16ss); Lc, 1,76 (Mal. 3,1).

TORNA ALL'INDICEA   -   IL DITTICO DELL'ANNUNCIAZIONE (1, 5-56)

Questi due "annunci" qualificano il Vangelo, che è appunto un "lieto annuncio", ed è precisamente in questi due racconti che ricorre per la prima volta in Luca il termine "Vangelo", "lieto annuncio" (2,10). L'angelo dà l'annuncio a Zaccaria, a Maria, ai pastori.

Luca nel presentare l'avvenimento reale dell'annunciazione, ha voluto offrire un insegnamento teologico e la sua abilità sta nel mettere a confronto questi due episodi come se fossero due dittici, meglio due parti di un solo quadro: l'annuncio a Zaccaria e l'annuncio a Maria: la descrizione della nascita di Giovanni e di quella di Gesù: il cantico di Zaccaria e quello di Maria.

TORNA ALL'INDICE1.     L'annuncio della nascita di Giovanni Battista (1, 5-25)

Luca decide di iniziare tutta la sua opera ponendo in scena, nel tempio, il sacerdote Zaccaria. Avrebbe potuto benissimo cominciare, ad esempio, presentando Maria in preghiera con tutte le donne di Nazaret, poi dire che sua cugina Elisabetta (cfr. 1,36) era vecchia e sterile… Invece egli punta volutamente il riflettore su Gerusalemme e il suo tempio, sull'attesa di tutto il popolo. Che cosa significa questo?

Molti particolari della scena si riferiscono al passato, ai racconti dell'AT in cui sono narrati annunci di nascite straordinarie: l'apparizione dell'angelo del Signore e il timore dell'uomo di fronte a questa manifestazione del divino, il messaggio celeste seguito da un'obiezione o dalla richiesta di un segno, che tutto avverrà come annunciato.

Un modello letterario come questo si incontra già nel caso del concepimento di Ismaele (Gn. 16, 7-13), di Isacco (Gn. 17-18) e di Sansone (Giudici 13); sarà ripreso, nella scena che segue, per l'annuncio fatto a Maria. Notiamo che, sia in questi racconti dell'AT sia nelle due annunciazioni narrate da Luca, si tratta soprattutto di dialoghi, il cui elemento centrale è una rivelazione.

Inoltre, il racconto fa chiaramente allusione ad Abramo e a sua moglie Sara: l'età viene ad aggiungersi alla sterilità (Gn. 16-17). Come Abramo (Gn. 15,8), il vecchio sacerdote chiede un segno: "In che modo potrò conoscere questo?". Ma per quale motivo l'angelo ritiene che Zaccaria, ponendo la stessa domanda di Abramo, si dimostra incredulo? Secondo alcuni perché egli sa già dalle Scritture, che sterilità e vecchiaia non rappresentano ostacoli per Dio, che in passato, appunto, ha concesso dei figli ai patriarchi. Per altri, come vedremo nel commento alle singole espressioni, qui si parla di una visione estatica.

“Nei giorni di Erode”: si tratta di Erode il Grande, che regnò poco meno di 40 anni e morì nel 4 a.C. Perciò l’anno zero della nostra èra cristiana non coincide con la nascita di Gesù, che invece va collocata, anno più anno meno, verso il 5 a.C. Luca non era in grado di fornirci una data più accurata, o forse non aveva interesse a farlo. E’ però pienamente consapevole di raccontarci un fatto reale, che si colloca in un tempo e in un luogo.

"Zaccaria": il nome significa: "Jahwé si è ricordato". Egli appartiene all'ottava classe dei sacerdoti, quelli che discendevano da Abia, uno dei ventiquattro nipoti del primo sommo sacerdote, Aronne (1 Cron. 24,10).[7]

"Elisabetta": il suo nome significa "Dio ha giurato (di proteggerci)". Essa era una parente di Maria, benché non si conosca il grado esatto di parentela (1,36). La coppia non aveva figli. Questo versetto di apertura si richiama alle numerose donne illustri d'Israele che erano rimaste sterili per lungo tempo: Sara (Gen. 15,3; 16,1); Rebecca (Gen. 25,21); Rachele (Gen. 29,31); Anna (1 Sam.1,2).

"Erano tutti e due giusti": diversamente dai farisei (Lc. 16,15), essi erano costantemente fiduciosi in Dio per il compimento delle sue promesse ed erano sempre disposti a essere guidati dalla sua volontà (At. 3,14; 7,25).

"Una grande moltitudine": ciò è un'indicazione che si trattava dell'offerta vespertina dell'incenso più che di quella mattutina.

"L'angelo del Signore": è una figura veterotestamentaria di messaggero (Gen. 16,10; 22,11.15.16; Es.3,2; Sam. 24,16). Il racconto dell’Annunciazione ricalca i motivi più comuni delle annunciazioni dell’AT: l’angelo del Signore, il turbamento e il timore dell’uomo di fronte al messaggio di Dio, l’assicurazione della presenza divina, la richiesta di un segno. Sono tratti che secondo l’AT accompagnano il manifestarsi abituale di Dio all’uomo, e che troveremo anche nel successivo racconto dell’annuncio a Maria. Questo parallelo con la letteratura veterotestamentaria rende estremamente difficile individuare e fissare il nucleo storico del documento teologico lucano.

"Non temere": queste parole introducono frequentemente una grande azione redentrice di Dio (Gen. 15,1; Gs. 1,9; Is. 41,1.4). Le parole dell'angelo ripetono una formula per la nascita assai comune nella Bibbia: Gen. 6,11; Giud. 13,3; Is. 7,14.

"Giovanni": il suo nome significa. "Jahwé ha mostrato il suo favore", un nome che simboleggia il ruolo di Giovanni nell'economia salvifica di Dio.

"Gioia e allegrezza": segni indicativi dell'era messianica: Sal. 96,11ss; 97,1.8; 126,2.5; Is. 12,6; 25,9.

"Davanti al Signore": questa preposizione ricorre 22 volte in Luca e 13 volte in Atti e in nessun altro passo nei vangeli (salvo in Gv. 20,30): un'indicazione che Luca ha rielaborato il vangelo dell'infanzia.

"Né vino né bevanda inebriante": il fanciullo sarà consacrato come un nazireo prima della nascita (Num. 6, 1-21). Una caratteristica ancora più importante del nazireo era la disposizione che non si tagliasse i capelli (1 Sam. 1,11, At. 18,18; 21, 23-26), ciò che non viene menzionato nel caso di Giovanni Battista. E' possibile che Luca abbia adattato qui il linguaggio di un brano più antico del racconto di Sansone (Giudici 13,14) come può darsi che il voto di nazireato - piuttosto imprecisato nella storia - potesse assumere forme differenti, come la vita ascetica praticata a Qumran.

"Fin dal seno di sua madre": come un secondo Geremia (Ger. 1,3). Questa immagine proclama che ogni azione del Battista era iniziata e sostenuta da Dio; nessun altro, perciò, era meglio adatto al ruolo di precursore di Gesù.

"Pieno di Spirito Santo": il riferimento non è alla terza persona della Trinità ma a Dio in quanto esercita un potere salvifico straordinario.

"Ricondurrà": il riferimento potrebbe essere o al ruolo sacerdotale di riconciliazione oppure al tema dell'Esodo, del ritorno alla terra promessa (Is. 40,3ss.; Mal. 2,6; 3,1.24).

"Lo spirito e la potenza di Elia": l'attribuzione dello spirito di Elia al Battista è evitata in maniera singolare da Luca, eccetto nei racconti dell'infanzia: un'altra indicazione che l'autore originale di questi ultimi non fu Luca. Secondo la tradizione giudaica (Mal. 3,23) il ritorno di Elia doveva precedere e preparare l'era messianica. Giovanni Battista sarà "Elia che deve venire" (Mt. 17, 10-23; Lc. 9,30). Sembra che il concetto qui espresso sia che i membri del popolo non si comporteranno più come "padri" fieri e indipendenti, ma come "figli" devoti e obbedienti. Il parallelo qui è tra padri (i disobbedienti) e figli (la saggezza dei giusti).

"Come posso conoscere questo?": la domanda di Zaccaria è simile al quesito di Abramo (Gen. 15, 3-5). Chiedere un segno si accorda perfettamente con la prassi biblica (Gen. 15,8, Giud. 6,36ss.; 2 Re 20,8), a volte è Dio stesso che offre un segno (Es. 3,12, Is. 7,11). Il conseguente castigo inflitto a Zaccaria, pertanto, sorprende alquanto. Il castigo, comunque, era solo temporaneo e mitigato dalla gioiosa attesa di un figlio. Abbiamo anche la sensazione che qui si alluda a qualcosa di simile a una gioia estatica, troppo intensa per poter essere esternata con parole: Dan. 10,15ss., Lc. 24,41. Questa è l'impressione lasciata nel popolo nel v. 22.

"Questo lieto annunzio": il greco "euaggelizo" allude a Is. 40,9; 52,7 e al ruolo del Battista nella salvezza messianica.

"Se ne tornò a casa sua":  la conclusione è simile a quella del racconto di Anna (1 Sam. 1,19ss.). Zaccaria viveva nella regione della tribù di Giuda (v. 39); una tradizione antica localizza la sua casa a "Ain Karim", a circa 6,5 Km. da Gerusalemme.

"Si tenne nascosta": forse Elisabetta si è appartata per lo stesso motivo per cui suo marito rimase senza parola, sopraffatta dalla gioia per un evento così incredibile.

"Cinque mesi": è lo stile di Luca di rivolgere l'attenzione al prossimo evento ancor più meraviglioso.

"La vergogna": cfr. Gen. 30,23; 1 Sam. 1,.8.11. Secondo la mentalità del tempo, l’assenza di figli appariva come una vergogna, una sorta di castigo.

TORNA ALL'INDICE2.     L'annuncio della nascita di Gesù (1,26-38)

Questo annuncio è parallelo a quello precedente. Non è dalla Bibbia - dove non se ne parla mai - che Luca ha attinto un tale procedimento, ma dalla letteratura ellenistica[8]. Il genere letterario adottato da Luca ci fa andare alla ricerca non tanto delle somiglianze quanto delle differenze, lo scopo è quello di far scoprire quale dei due bambini è superiore all'altro. Lo schema degli annunci permette di costatare la distanza che c'è tra Gesù e Giovanni.

Certo la scena non si svolge nello scenario prestigioso dl tempio, ma più modestamente "in una città della Galilea", in una casa privata. Che la rivelazione sia fatta alla futura madre e non più al padre costituisce una differenza poco rilevante: i modelli dell 'AT possono infatti mettere in scena una donna. Molto più significativa è la verginità di Maria. Per dono di Dio, Elisabetta ha concepito un figlio da suo marito; Maria è soltanto sposa promessa, non ha ancora potuto condurre vita comune con Giuseppe e concepirà senza unione sessuale. Se la nascita di Giovanni è straordinaria, quella di Gesù lo è ancora di più.

La verginità di Maria spiega anche un'importante differenza nello schema dell'annuncio. La giovane donna muove un'obiezione al messaggio celeste ponendo una domanda analoga a quella del sacerdote Zaccaria: "Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo ( = non ho rapporti sessuali")? (v. 34). Ora, questa volta, l'angelo non la riterrà assolutamente una mancanza di fede; egli risponde alla domanda senza farvi obiezione e dà a Maria un segno che, al contrario di quello ricevuto da Zaccaria, non costituisce un castigo: la sua parente è incinta.

Il fatto è che Maria si trova di fronte a una situazione radicalmente nuova nella Bibbia la quale non parla di concepimento senza unione sessuale, mentre il marito di Elisabetta conosceva perfettamente la storia di Abramo, identica alla sua.

Le due annunciazioni parallele divergono, quindi, su questo punto, e al silenzio forzato del sacerdote si oppone la docile accettazione della "serva del Signore" che si sottomette alla "parola"; in questo modo, la "parola" è adempiuta. Maria si definirà di nuovo col nome di "serva" in 1,48: una parola che Luca adopera altrove per designare i membri della Chiesa (At. 2,18, 4,29; 16,17).

Nel gioco delle uguaglianze e delle differenze il racconto dell’annuncio a Maria assume toni e colori che altrimenti non avremmo notato.

Il primo quadro è sostanzialmente celebrativo. Zaccaria ed Elisabetta sono descritti come “giusti davanti a Dio” e osservanti rigorosi di tutte le leggi del Signore. Nulla di celebrativo, invece, nel secondo quadro. Nessun cenno alle virtù di Maria, né alla sua preghiera, né alla sua attesa. Tutto è dalla parte di Dio, pura grazia.

Nel primo quadro è l’osservanza della legge che viene premiata, nel secondo è la grazia che viene proclamata. La legge e la grazia: due parole che già dicono la differenza fra l’antico e il nuovo. Lo scenario del primo quadro è grandioso e solenne: nel tempio, durante una liturgia, un sacerdote nell’esercizio della sua funzione, sullo sfondo il popolo in attesa. Il secondo quadro è privo di ogni scenario, come già si è avuto modo di notare.

Il confronto mostra, dunque, un continuo alternarsi di grandezza e piccolezza, solennità e semplicità, che già lascia intravedere i tratti nuovi e inconfondibili del volto di Dio che si è manifestato in Gesù di Nazaret. Da una parte il divino si mostra con tratti di grandiosità e solennità, dall’altra si mostra nella più assoluta semplicità, e proprio per questo svela un volto inatteso e sorprendente. Da una parte l’osservanza della legge, dall’altra la grazia. Da una parte l’uomo che entra nella casa di Dio, dall’altra Dio che entra nella casa dell’uomo.

"Sesto mese": dal concepimento, cioè, del Battista.

"Nazaret": una città insignificante, mai menzionata nell'A.T. disprezzata dagli stessi palestinesi del tempo di Gesù (Gv. 1,46) e abitata da gente gelosa e materialista (Lc. 4, 23-30).

"Vergine": Luca pone due volte l'accento sulla verginità di Maria.

"Maria": "Mirjam" significa "esaltata". Giuseppe, fidanzato di Maria, sembra essere stato di origine giudaica, forse un abitante di Betlemme. Attraverso Giuseppe, pertanto, in quanto suo padre legale, e non attraverso Maria, Gesù eredita una rivendicazione al trono di Davide.

"Ti saluto": (chaire), sullo sfondo di Sof. 3,14-17;  Zc. 9,9; Gl 2,21 questo saluto assume il significato di un invito alla gioia: “gioisci”. Nei passi citati è invitata a gioire la figlia di Sion. Prima di chiamare a una missione, Dio invita alla gioia. La “lieta notizia” precede sempre ogni missione. Il contenuto della lieta notizia è detto subito dopo: la certezza della presenza del Signore (“il Signore è con te”) e il suo amore gratuito e fedele.

"Piena di grazia": (kecharitomene) il verbo dice fondamentalmente l’amore gratuito. La forma passiva suggerisce che il soggetto è Dio, il tempo perfetto che si tratta di un’azione stabile. Si può perciò tradurre con “amata gratuitamente e stabilmente”.

"Il Signore è con te": vedi Es. 3, 11-12 (Mosè), Gdc. 6, 11-16 (Gedeone), Ger 1. Affidando una missione, Dio assicura sempre la sua presenza, che tuttavia non sottrae alle difficoltà né alle debolezze. Alcuni manoscritti greci secondari (il Codice Alessandrino, un manoscritto di Sant' Efrem, ecc…) aggiungono: "Tu sei benedetta fra le donne".

"Concepirai un figlio e lo chiamerai Gesù": Maria comprese che l'angelo le stava annunziando che suo figlio sarebbe stato divino, la seconda persona della santissima Trinità? Andrebbe ricordato quanto segue: innanzitutto Luca non sta scrivendo il diario del giorno dell'annunciazione, ma un vangelo di salvezza. In secondo luogo, Maria in quanto "donna del popolo" non era certo abituata a pensare nei termini filosofici più tardivi di persona e natura (Gesù è una persona, ma ha due nature: divina e umana) e sarà stata invece impressionata dalla potenza e dall'infinità bontà divina nelle parole e nelle opere di Gesù. Il racconto dell'infanzia, composto in un periodo post-pentecostale suggerisce abbastanza chiaramente la divinità di Gesù. Il testo lucano si ispira a Zc. 3, 14-17 e Gioe 2, 21-27 nel descrivere l'era messianica e la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. L'AT non afferma la presenza di Dio in una persona umano-divina, ciò che invece fa Luca applicando molto accuratamente i testi a Gesù.

"Non conosco uomo": il fidanzamento di Maria con Giuseppe indica che essa pensava a una vita matrimoniale normale. Gli studiosi, circa quest'obiezione di Maria, danno varie soluzioni:

1)     Maria, pensando che l'angelo parlasse di una concezione immediata, obiettò che i rapporti matrimoniali non erano permessi fino al termine dell'anno del fidanzamento.

2)     Un'opinione comunemente sostenuta da esegeti cattolici ritiene che Maria aveva fatto un voto di verginità perpetua già prima del suo fidanzamento con Giuseppe; Giuseppe avrebbe accettato il matrimonio a questa insolita condizione.

3)     Altri pensano che Maria decise di fare il voto di perpetua verginità al momento dell'annunciazione o a motivo del segno richiesto in Is. 7,14 oppure a causa dell'impellente necessità del mistero della divina maternità.

"Ti coprirà della sua ombra": l'ombra dello Spirito che copre Maria richiama la nube che riempì il tempio di Gerusalemme ((Es. 40,35; 1 Re 8,10). La discesa dello Spirito Santo di Dio (usato senza articolo) e la proclamazione del Figlio di Dio danno al versetto un tono apocalittico. Sia il tema del tempio che lo spirito escatologico esigono la verginità o la continenza, virtù richiesta dalla Bibbia nei fedeli e nei guerrieri (Lv 15, 16-18; 1 Sm 21,4; 2 sm 11,11). La verginità di Maria è in tal modo un richiamo alla lotta apocalittica della croce e all'ambiente liturgico della Chiesa primitiva.

"Nulla è impossibile a Dio": la verginità di Maria rivela una nuova dimensione e nuovo e profondo significato: quello della fiducia e dell'obbedienza totale a Dio, così come Osea raffigura Israele nel suo ruolo di vergine sposa di Dio (Is. 2,21).

“Eccomi!”: dice la prontezza dell’obbedienza. Secondo la Bibbia è questo “eccomi” che dice l’identità dell’uomo davanti a Dio. Il nome di Dio è: “Io sono colui che è qui con te”. Il nome dell’uomo è “Eccomi”.

“La serva del Signore”: è questo il terzo nome di Maria che compare nel racconto. Il narratore l’ha chiamata “Maria”, l’angelo “amata gratuitamente per sempre”, Maria chiama se stessa “serva”. Il primo è il nome dell’anagrafe: serve a distinguere Maria dalle altre donne. Il secondo è invece il nome davanti a Dio che svela la profonda identità (amata). Il terzo (serva) è il nome che dice la missione di Maria, il suo modo di stare davanti a Dio e agli uomini.


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Gesù dodicenne nel tempio (2, 41-52)

Quest'ultimo racconto di Lc 1-2 è estraneo al parallelo Gesù-Giovanni. Gesù ha dodici anni, l'età in cui, secondo tradizioni giudaiche che risalgono al primo secolo, Samuele cominciò a profetizzare (1 Sm 3) e Daniele pronunciò una sentenza molto saggia (Dan 13). Un'età tuttavia in cui questi giovinetti non sono ancora maggiorenni: la loro sapienza viene quindi posta in maggiore risalto. E' dunque, in senso stretto, l'unico racconto dell' "infanzia" che segna il passaggio tra il racconto delle origini e quello dell'inizio del ministero.

La scena è collegata alla precedente: per la seconda volta, Gesù è nel tempio e, là dove si era manifestato grazie al cantico e all'oracolo profetico di Simeone, rivela ora la sua sapienza ai dottori della legge e la sua relazione con il suo Padre celeste ai suoi genitori.  Allo stesso tempo questa prima salita di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua annuncia il grande viaggio (9,51 ss.) e l'ultimo insegnamento nel tempio (19,47; 20,1).

La legge ebraica prescriveva il pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione delle tre feste più importanti: Pasqua, Pentecoste (o Festa delle Settimane) e Festa delle Capanne (Es 23,14; Dt 16,16), ma l'usanza dispensava coloro che vivevano molto distanti dalla città, fatta eccezione della festa di Pasqua, che aveva un'ottava (22,1).

Il centro della scena (vv. 46-49) è costituito da due quadri di differente portata. Il primo mostra la sapienza di Gesù, che è la capacità di conoscere la volontà di Dio rivelata nelle Scritture e di conformarsi ad essa. La manifestazione di questa sapienza provoca, nel pubblico, uno stupore identico a quello che provocheranno più avanti alcuni avvenimenti miracolosi (5,26; 9,36; At 3,10) e, nei genitori di Gesù, una meraviglia che ritroveremo in coloro che ascolteranno il su insegnamento nella sinagoga di Cafarnao (4,32).

Il secondo quadro costituisce il culmine del racconto. Al rammarico di Maria, Gesù risponde con una duplice domanda che è allo stesso tempo un rimprovero. E' la madre che parla (Giuseppe tace sempre in Lc 1-2) e Luca non prova nessun imbarazzo a farle indicare il suo sposo chiamandolo "tuo padre", perché nella replica Gesù parlerà di un altro Padre, quello celeste. A Maria che parlava dei "doveri filiali" pensando al quinto comandamento (Es 20,12), Gesù risponde rimandando al primo: il dovere verso Dio (Es 20, 3-6), egli è il figlio obbediente del suo Padre celeste. Così sia le prime che le ultime parole di Gesù prima di spirare (23,46) ricordano suo Padre.

In questa risposta di Gesù, risuona il verbo "devo", che lo troveremo in altri nove casi, ciò dimostra che la missione di Gesù (Lc 4,43) e soprattutto la sua passione-resurrezione (Lc 9,22; 24,26) rientrano nel piano divino della salvezza che egli si assume. Di fronte all'espressione "devo", non vi è da stupirsi che Maria e Giuseppe "non compresero ciò che aveva detto loro"; entrambi prefigurano i discepoli che, ad esempio dopo il terzo annuncio della passione "non capirono" (18,34). Ma si obietterà: come può Luca mettere in scena una Maria che non comprende nulla di quanto Gesù dice, mentre essa ha ricevuto tante rivelazioni - da Gabriele, dai pastori, da Simeone -  sulla condizione eccezionale del suo bambino e le ha meditate "nel suo cuore " (2,19)? Maria ha sentito dire che egli è Messia e Figlio di Dio: ma comprende veramente che cosa significa ciò? Lei certamente ignora in che modo questi titoli si realizzeranno.

Una duplice conclusione e due ritornelli (vv. 50-52) chiudono l'episodio. Luca rileva anzitutto l'incapacità di comprendere dei genitori, poi mostra Gesù, rientrato a Nazaret, che torna a una scrupolosa osservanza della pietà filiale in conformità alla legge. Segue allora il ritornello del “ricordare” di Maria: ella continua la sua riflessione nel mistero (2,19) che si concluderà, come per i  discepoli, solo dopo la luce pasquale (At 1,14).

Quanto al ritornello della crescita, Luca pone l'accento sulla sua condizione connaturale: egli crebbe come un qualsiasi altro ragazzo naturale: di età e grazia. Grazia indica amabilità nei confronti di Dio e degli uomini che include non soltanto la santità ma anche la gentilezza, il tatto, il fascino. Gesù crebbe sotto ogni aspetto - fisico, intellettuale, emotivo, spirituale - per la grande opera che l'aspettava.

Un ultimo rilievo: la menzione del ritorno a Nazaret impedisce che il "ciclo dell'infanzia" si chiuda nel tempio, dov'era iniziato. Infatti dopo un percorso assai lungo (Lc 3-19) Gesù tornerà di nuovo a Gerusalemme.

CONCLUSIONE

TORNA ALL'INDICE

Al momento di chiudere questo "vangelo dell'infanzia" ci poniamo due domande:

1)    Di quali fonti ha potuto disporre Luca nella redazione di questi due capitoli?

Il racconto di Matteo 1-2 non può assolutamente essere posto in parallelo con quello di Luca. Le differenze sono numerose. A titolo di esempio, ricordiamo che Mt 2 non racconta la nascita di Gesù, narra invece episodi sconosciuti a Luca (ad esempio: i Magi, la strage degli innocenti, ecc…); è a Giuseppe che viene rivelato il destino di Gesù… Insomma, i due racconti non hanno origine comune.

Si trovano però molti elementi comuni ai due vangeli: la personalità dei genitori, i fidanzati che non hanno ancora avuto rapporti sessuali; l'annuncio da parte di un angelo del concepimento verginale grazie all'azione dello Spirito Santo e la nascita di Gesù a Betlemme; la sua infanzia a Nazaret. Matteo e Luca concordano anche sulla messianicità di Gesù che ha una relazione speciale con Dio, ma anche su un tema che essi trattano in modo assai differente: il rifiuto di Israele e l'appello ai pagani. Così, all'atteggiamento omicida di Erode e all'adorazione dei Magi in Matteo, corrisponde la profezia di Simeone in Lc 2, 31-35.

 Questi dati comuni permettono di concludere che prima di Luca e di Matteo circolavano in alcune chiese prima dell'anno 70, delle tradizioni che avevano anzitutto lo scopo di rafforzare e chiarire la fede in Gesù, il Cristo Signore, e che presero forme assai diverse. In maniera più immediata, Luca ebbe a disposizione diverse fonti, probabilmente scritte in greco: una "leggenda"[16] sulla nascita di Giovanni Battista, un racconto di annuncio a Maria, i cantici di Maria e di Zaccaria e forse una relazione dell'incontro tra Maria e Elisabetta. Nel testo, nulla viene a suffragare l'ipotesi secondo cui Luca avrebbe avuto a disposizione confidenze di Maria, madre di Gesù.

Proprio basandosi su questi dati e attingendo all'AT, Luca ha composto i primi due capitoli della sua opera con grande libertà: una libertà simile a quella che si prenderà negli Atti, ma molto più grande di quella di cui si avvale, di fronte alla tradizione, per descrivere il ministero di Gesù.

2)    Qual è il livello di storicità di Lc 1-2?

Si impone un'osservazione. Sono numerosi i personaggi di questo vangelo dell'infanzia - quindi non solo Maria - che ricevono una rivelazione sul ruolo futuro di Gesù. I pastori "riferirono quello che del bambino era stato detto loro" a molte persone. Anna "parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la liberazione di Gerusalemme". Molti dottori della legge sono testimoni, nel tempio, della sapienza di Gesù dodicenne. Ora, questa conoscenza su Gesù è completamente assente nei personaggi posti in scena a partire da Lc 3. Nessun essere umano - né Pietro e neanche il centurione ai piedi della croce - confesserà Gesù come Figlio di Dio (titolo rivelato a Maria: 1,35). Quanto ai tre titoli cristologici rivelati ai pastori che si ritiene li abbiano divulgati (2,11.17), il titolo "Salvatore" non si ritroverà che in alcuni discorsi degli Atti, sulla bocca di Pietro (At 5,31) e di Paolo (13,22). Se, per diciotto volte in Luca, qualcuno si rivolge a Gesù chiamandolo "Signore", il titolo "Cristo" viene pronunciato una sola volta da Pietro (9,20), prima di ritrovarsi su bocche incredule durante la passione. Quanto al concepimento verginale, viene ignorato da tutti gli altri personaggi del vangelo e degli Atti.

Tutto ciò mostra la differenza che esiste tra quello che narra del Cristo il vangelo dell'infanzia di Luca, da un lato, e il resto del suo racconto dall'altro. Se Lc 1-2 annuncia già tutta la fede della Chiesa, è perché questi due capitoli sono fortemente rischiarati dalla fede pasquale e la mettono in atto. La messianicità e la signoria di Gesù che l'angelo annuncia ai pastori sono esattamente il messaggio che Pietro proclamerà dopo Pasqua: "Dio ha costituito Signore e Cristo questo Gesù che voi avete crocifisso" (At 2,36). Ma questa dignità che Gesù ha ricevuto il mattino di Pasqua, Luca confessa - insieme alla sua Chiesa - che era già misteriosamente presente nel figlio di Maria fin dalla nascita.


TORNA ALL'INDICEIII.          PREPARAZIONE AL MINISTERO PUBBLICO (3,1-4,13)


Dopo aver proceduto in modo autonomo alla stesura del suo vangelo dell'infanzia, Luca si collega qui al lavoro dei suoi predecessori: Marco e la fonte "Q". Egli attinge largamente all'uno e all'altra per descrivere l'insegnamento del Battista e il suo arresto, il battesimo di Gesù e le tentazioni. In questo modo, Luca fa suo il ritratto teologico tratteggiato dalla Tradizione: Giovanni era la voce che, nel deserto, invitava il popolo d'Israele a preparare la via per il Signore Gesù. Ciò non gli impedisce - come vedremo - di imprimere il suo tocco personale a questo ritratto.


TORNA ALL'INDICEA  -  PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA (3, 1-20)


Luca, conformemente agli altri sinottici, e Giovanni, apre il vangelo propriamente detto con la predicazione del Battista ((3, 1-20), ma a differenza degli altri evangelisti premette un ampio quadro della situazione politico-religiosa in cui il precursore comincia la sua manifestazione, dall’imperatore di Roma al pontificato di Anna e Caifa. E’ un’introduzione troppo solenne per non supporre che egli miri soprattutto alla persona e alla missione di Gesù e all’instaurazione del regno di Dio destinato a sostituire tutte le dominazioni terrene.

Luca abbonda nella sua enumerazione richiamando accanto alla Galilea e Giudea due domini pagani, appunto per ricordare che non solo Israele ma anche i gentili erano chiamati a passare sotto la regalità di Cristo.

Il sommo sacerdote Anna, anche se dal 15 d.C. aveva finito il suo incarico, continuava ad esercitare il suo peso nelle decisioni del Sinedrio (cfr. Gv 18, 13-24; At 4,6). Caifa d’altronde era suo suocero (cfr. Mt 26,3.57;Gv 18, 24-28).

Luca nel “racconto” dell’infanzia (1, 5-80) aveva lasciato Giovanni “nel deserto”[17]; da qui riprende ora a parlare della sua missione, solo che a differenza di Matteo e Marco il precursore non è ferma in un luogo ma si muove “per tutta la regione” (3,3), non è tanto un eremita che si ritira nel deserto, quanto piuttosto un profeta itinerante.

La missione di Giovanni è quella di tutti i profeti: riportare il popolo al suo Dio. La conversione è il tema abituale della predicazione profetica. Difatti non si è mai pienamente orientati verso il bene, verso Dio e il prossimo, c’è sempre qualcosa o molto da modificare, rettificare, perfezionare. Il grido di Giovanni “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” non risuona mai invano per quanti si mettono in ascolto della Parola di Dio che è sempre una spada tagliente, a doppio taglio che ha molto da recidere, sradicare nel cuore degli uomini, soprattutto del credente (cfr. Is 49,2; Ebr 4,12).

Giovanni accompagna la sua predicazione con l’invito a sottoporsi a un rito simbolico che di per sé non realizzava ma indicava il cambiamento di vita che il penitente si proponeva di attuare.

Il “battesimo” consisteva in un’immersione e riemersione nelle e dalle acque del Giordano. Con tale gesto l’uomo segnalava ai presenti che nel suo intimo si andava verificando come un’abluzione spirituale, un rinnegamento delle sue vecchie abitudini con l’intento di far subentrare un nuovo regime di vita, fatto di umiltà, bontà, mansuetudine, lealtà.

Le parole pronunciate o poste in bocca a Giovanni provengono da Is 40, 2-5 e sono quelle con cui il grande profeta postesilico annunzia ai suoi connazionali la fine della schiavitù babilonese e il ritorno in patria. Si tratta pertanto di un annuncio di consolazione e non di un oracolo di sciagure. Giovanni assumerà anche la figura di un predicatore arcigno e catastrofico (Lc 3, 7-18), ma in questi primi tratti della sua missione è un annunciatore di buone notizie, in altre parole del “vangelo”. Ciò che conta è saperlo accogliere, fargli spazio nel proprio cuore. La “strada” da preparare non è più quella che attraversa il deserto, da Babilonia a Gerusalemme, bensì quella più breve, però più insidiosa che va dalla mente al cuore, alla volontà dell’uomo, e dove si annidano angolosità di ogni genere che ne ostacolano e ne impediscono la percorribilità. L’agire morale dell’uomo è per l'autore biblico la conformità a un codice stradale: ci sono varie infrazioni suggerite dalla pigrizia, dalla vanità o dall’orgoglio che debbono essere evitate, altrimenti non potrà trovare accoglienza il messaggio evangelico. Sono veri idoli che ostacolano il cammino di Dio nell’uomo e per questo sono da rimuovere se si vuole “vedere”, cioè fare esperienza della salvezza che ci attende.

Dal punto di vista esegetico, Luca, composto dopo Mc e Mt, si manifesta sospettoso verso un tentativo del cristianesimo primitivo di presentare il Battista come un rivale o addirittura come un dichiarato oppositore di Gesù. Il vangelo di Giovanni (1,8.19-34) sarà assai esplicito nel far rilevare che Giovanni il Battista non è il Messia.

Facendo un confronto tra Lc e Mt (dipendenti entrambi dalla fonte Q) troviamo che:

1)     Lc omette l'annuncio di Giovanni Battista che il regno di Dio è vicino (Mt 3,2) e riserva a Gesù questa proclamazione (Lc 10,9.11).

2)     Lc sopprime la descrizione del Battista nel ruolo di Elia (Mt 3,4 parall. Mc 1,6) e il resoconto dell'attività del Battista, specialmente il fatto che accorrevano a lui da ogni regione per farsi battezzare (Mt 3,5).

3)     Nell'affermazione: "viene dopo di me Colui che è più forte di me", Luca allontana il pericolo che Gesù venga considerato un discepolo del Battista o forse anche un suo intimo amico. Lc considera Giovanni l'ultimo e il più grande dei profeti d'Israele, ma chiaramente al di fuori della gloriosa èra messianica che inizia con Gesù (Lc 16,16; At 13,24): in questi testi l’evangelista asserisce che Giovanni venne "prima della sua [di Gesù] venuta".

Benché la prassi di presentare un profeta indicando i nomi delle autorità contemporanee abbia paralleli nell'AT (Is 1,1; Ger 1,3; Os 1,1), lo stile di Luca si avvicina di più a quello degli autori classici greci, come Tucidide, che inizia in modo analogo la narrazione della guerra del Peloponneso.

L'evangelista inquadra l'inizio della predicazione del Battista nella cornice della storia contemporanea a partire dall'impero romano, passando attraverso il governo politico e religioso della Palestina.

Il governo politico passa dal regno di Erode il Grande[18] - un regno soggetto a Roma - che costituiva la cornice del "vangelo dell'infanzia" (1,3; 2, 1-2), a un'amministrazione diretta della Giudea da parte dell'imperatore[19] e del suo governatore,[20] mentre il resto del regno di Erode - la Galilea in particolare - era affidato ai suoi figli, che ne erano i reggenti.[21]

Il governo religioso, invece, è incentrato sui sommi sacerdoti Anna e Caifa.[22]

Giovanni s'affaccia sul deserto meridionale di Giuda, nei pressi del Mar Morto, ove confluisce il Giordano. La sua predicazione è, per Luca, centrata sul battesimo di conversione e di perdono. Come gli altri evangelisti, egli illustra la missione del Battista con una citazione di Isaia (40, 3-5)[23], un testo che celebrava il ritorno glorioso degli Ebrei esuli a Babilonia lungo una via piana e retta, simile alle strade processionali che conducevano ai templi.

Si ha, quindi, l'inizio di una nuova éra a cui bisogna prepararsi con la conversione.

Giovanni chiede a coloro che incontra di mutare condotta, di tenere un comportamento che testimoni una vera conversione[24]. Sfilano ora davanti al Battista tre categorie diverse. Queste pericopi (10-14) che sono esclusive di Lc rivelano l'interesse dell'evangelista per la dimensione universale della redenzione.

1)     Gli Ebrei che vanamente allegano la loro discendenza da Abramo e che devono, invece, compiere "frutti degni di conversione", cioè che testimonino un autentico mutamento di vita.

2)     I pubblicani, cioè gli esattori delle tasse e i loro subalterni, invitati al rigore della giustizia evitando corruzioni e vessazioni.

3)     I soldati, ai quali si impone il superamento di ogni tipo di violenza.

Ma la figura del Battista è tutta protesa verso un altro personaggio e un altro battesimo "in Spirito Santo e fuoco"[25].  Nei confronti di Cristo, Giovanni si sente simile a una schiavo del livello infimo: lo sciogliere il legaccio dei sandali era un atto che un padrone non poteva esigere dal suo servo ebreo, perché considerato troppo umiliante.


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B  -   IL BATTESIMO DI GESU' (3, 21-22)

Il battesimo che Gesù introduce è "in Spirito Santo e fuoco" e non più come la semplice purificazione praticata dal Battista. Si ha, così, il vero ritratto del precursore, che rifiuta ogni tentazione messianica, coltivata forse dai suoi discepoli, per puntare tutto su Gesù. Frattanto, quasi a completamento del ritratto, Luca anticipa la notizia della carcerazione del Battista ad opera di Erode Antipa, per il suo adulterio con Erodiade.[26] In un certo senso, qui Luca si conceda da Giovanni: non lo farà più comparire e ometterà il racconto del suo martirio, che egli pure leggeva in Mc 6.

I riferimenti tuttavia non mancheranno: Lc 7, 18-33 lo presenterà attivo anche dall'interno della sua prigione, mentre Lc 9, 7-9 lo supporrà già messo a morte.

Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni conclude la rappresentazione del precursore. Luca introduce, rispetto a Matteo e Marco, in questa grande epifania di Gesù come "Figlio prediletto" di Dio, due elementi: il primo è la preghiera, un tema caro all'evangelista, mentre il secondo è la visibilità della presenza dello Spirito Santo sotto il segno "corporeo" della colomba.

“Il cielo si aprì”: il cielo si apre per permettere la comunicazione tra il mondo del divino e gli uomini. L’apertura dei cieli è un motivo ricorrente nei testi di rivelazione, e prelude sempre a una visione: così per esempio: Is 6,1; Ez 1,1 e anche At 7,56. Nel nostro episodio, però, l’apertura dei cieli non prelude a una visione del mondo celeste, bensì alla discesa dello Spirito Santo. Il riferimento veterotestamentario più opportuno sembra essere Is 63,19: “Oh, se tu aprissi i cieli e scendessi! Davanti a te i monti tremerebbero!”. Si tratta di un versetto in cui l’orante chiede a Dio di riaprire il cielo, di manifestarsi e di scendere in mezzo al popolo, così da attuare un nuovo esodo. Questo suggerimento al passo di Isaia suggerisce un significato importante al battesimo di Gesù: dopo un lungo periodo di silenzio da parte di Dio e da parte del suo Spirito, ora inizia il tempo atteso, nel quale Dio di nuovo si dona agli uomini e torna a parlare.

"Colomba in forma corporea": le tradizioni più antiche  (Os 11,11; Sal 68,14) raffigurano il nuovo popolo d'Israele e la comunità escatologica con l'immagine della colomba. Luca intende dire che Gesù poteva quasi stendere la mano e toccare la nuova comunità che si stava formando attorno a lui, il che sarebbe stato possibile in un modo del tutto speciale quando la Pentecoste avrebbe realizzato la promessa del battesimo di Gesù.

"Dal cielo venne una voce": “dal cielo” non significa tanto la provenienza quanto l’autorevolezza. E’ uno stile biblico comune che ricorre sotto varie forme, e si riferisce a un messaggio o a un'azione che esprime le speranze di Dio e la sua determinazione (Es 19,9; 1 Sm 3,4 ss; 7,10; Sal 29).

"Tu sei il mio Figlio diletto": le parole "Figlio mio" sono una deliberata sostituzione neotestamentaria dell'ebraico "ebed" (servo). Poiché il servo del Signore è sia un individuo ideale, sia il rappresentante dell'intera comunità (Is 42,1). Gesù è completamente incarnato nella comunità escatologica, fino al punto da essere battezzato come tutti gli altri uomini; ma egli incarna pure nella unicità singolare della sua persona i loro ideali più sublimi e le loro speranze. A motivo della sua unione totale con ogni debolezza, il Servo Gesù deve assoggettarsi anche alla morte umana in modo da poter infondere la vita in ogni sfera dell'esistenza umana. Questa associazione del battesimo di Gesù con la sua futura morte e risurrezione emerge chiaramente in Lc 12,50 (Mc 10,38). Sembra che in Luca l'espressione "Figlio mio" completata dal precedente riferimento allo Spirito Santo, sia una confessione della divinità di Gesù.


TORNA ALL'INDICEC  -  LA GENEALOGIA DI GESU' (3, 23-38)


Ormai Gesù è pronto per inaugurare il suo ministero ed è a questo punto che Luca ne introduce la genealogia[27], posta da Matteo in apertura del suo vangelo. Il percorso è qui inverso da Gesù si risale non solo fino a Davide e Abramo (come in Matteo), ma fino ad Adamo, quasi a sottolineare l'universalità della salvezza offerta da Cristo e l'origine divina della razza umana.

Unico tra gli evangelisti, Luca segnala l’età di Gesù. A questa breve annotazione fa seguire un albero genealogico, che non ha pretese di storicità ma nasconde - sotto l’aridità di un elenco di nomi – importanti insegnamenti teologici.

Gesù è legato alla storia del suo popolo, solidale con essa e ne costituisce il punto di arrivo. Bisognerebbe avere la pazienza di leggere, dietro i nomi citati, le vicende che essi rappresentano. Sono spesso vicende di peccato, di infedeltà, di amore da parte di Dio e di tradimento da parte dell’uomo. Gesù è solidale con tutto questo: non con il peccato, ma con questi uomini, con questa storia.

Ma la genealogia, come si è detto, si prolunga fino ad Adamo, fino a Dio. Il Cristo è di tutti, non solo degli ebrei. La storia di Gesù è inscindibile da quella ebraica, e questa è inscindibile dalla storia del mondo.

La genealogia non parla di Maria né della generazione di Gesù ad opera dello Spirito Santo. Luca lo ha già detto ampiamente nei racconti dell’infanzia. Qui soltanto un cenno indiretto, che però il lettore è in grado di capire: “figlio di Giuseppe, come si credeva”. Per comprendere Gesù occorre guardare in alto: Egli è generato dallo Spirito senza concorso di uomo. Ma occorre anche guardare alle spalle, risalendo fino ad Adamo “figlio di Dio”. Le due filiazioni, quella che scende dall’alto e quella che viene dal basso, in Gesù si incontrano.

Di solito si costruisce un albero genealogico per distinguere le proprie origini da quelle degli altri uomini. Qui è l’opposto: la genealogia è riportata non per separare ma per unire, non per contrapporre ma per collegare. E’ questa la direzione costante dell’intero evento cristologico, già inscritta, quasi fosse un codice genetico, nelle stesse origini di Gesù. Il paradosso è che Gesù è il solo che potrebbe vantare una diversità. La linea orizzontale delle due origini è, infatti, attraversata da una linea verticale che vi ha introdotto un’assoluta novità. Ma Dio non ragiona come gli uomini. Questi si illudono di affermare la propria originalità separandosi. Gesù, invece, esprime la sua novità e la sua trascendenza facendosi vicino.


TORNA ALL'INDICED  -  LE TENTAZIONI DI GESU' (4, 1-13)


Luca introducendo la genealogia rischia di eliminare il legame fondamentale stabilito dalla tradizione tra il battesimo e la tentazione. Egli ricorda, dunque, questa scena dicendo che Gesù ritorna dal Giordano ed esplicita il legame con la genealogia e la teofania battesimale: è come Figlio di Dio riempito dello Spirito Santo che Gesù sarà messo alla prova. Viene condotto dallo Spirito nel deserto, luogo ambiguo dove, secondo la Bibbia, l'essere umano può entrare in contatto con forze maligne, oppure entrare in comunione con il Dio vivente.

Dalla fonte "Q" Luca attinge una riflessione cristiana sul Cristo basata su tre citazioni del Deuteronomio accuratamente scelte, allo scopo di illustrare un'esperienza fondamentale di Gesù. Caso unico nella letteratura evangelica: Gesù in quest'occasione non si esprime che attraverso tre prove che il popolo d'Israele aveva conosciuto durante l'esodo e alle quali aveva ceduto; Gesù, invece, risulta vincitore dell'Avversario.

La tradizione presentava probabilmente i tre episodi nello stesso ordine di Matteo: il pane[28] ( la ricerca dei soli beni materiali); la parte più alta del tempio[29] (è il mettere Dio alla prova nella ricerca di segni messianici che sbalordiscono); i regni del mondo[30] (il compromesso con il male per assicurare il proprio potere di messia).

Luca avrà invertito la seconda con la terza tentazione, in modo che l'ultima - la più importante - si svolgesse a Gerusalemme.

Qual è, ci si chiederà, la radice storica di questa scena iniziale che Luca ha ereditato? Alcuni studiosi negano la storicità della scena della tentazione. Dobbiamo tuttavia tenere conto del fatto che gli altri vangeli ci descrivono Gesù provato e tentato nell'ultima parte della sua vita, e dobbiamo prendere atto della forte tradizione a favore della realtà della scena del deserto. E' possibile che Mt e Lc (oppure Q) abbiano ampliato un'antica ma breve tradizione (Mc) e abbiano aggiunto dettagli tratti da avvenimenti più tardivi in base a definite e diverse prospettive teologiche.

La prima tentazione di Lc ci richiama alla mente Gv 6, 26-34; la seconda, Gv 6,15, la terza, Gv 7, 1-4. Altre somiglianze ricorrono in Mt 12, 38-42; 16, 1- 4; 27,42. Come Matteo e Luca raggruppano secondo un loro ordine personale detti e azioni di Gesù, ignorando dettagli cronologici o geografici, allo scopo di comporre o il discorso della Montagna (Mt 5-7) o la relazione del viaggio (Lc 9,51 ss.), così un procedimento analogo potrebbe essere la spiegazione del modo in cui reali tentazioni sparse lungo la via di Gesù sono trasposte in un nuovo contesto al fine di concentrare l'attenzione su implicazioni teologiche.

Perché la Chiesa fece ciò? E infatti certo che il racconto della tentazione esisteva già in "Q" quando Luca si mise a scrivere. Di fronte a un determinato episodio (Gesù che dopo il suo battesimo si ritira nel deserto) dobbiamo tenere conto di una duplice realtà: certamente quella delle tentazioni, ma soprattutto quella di un messianismo terreno, è stata certamente una dimensione costante del ministero di Gesù, ma allo stesso tempo c’è stato il continuo rifiuto di Gesù nel cedervi. Nel vangelo di Lc (10,25; 11,6 ss; 22,42) se ne incontrano tracce precise, che culminano in una realtà inoppugnabile: Gesù è stato un messia povero e sofferente.


TORNA ALL'INDICEIV.           IL MINISTERO GALILAICO (4,14-9,50)


I sinottici, come la primitiva predicazione apostolica, omettono completamente il ministero giudaico all'inizio della vita pubblica di Gesù (cfr. At 10,37 ss.), che è invece così notevole in Giovanni. Stando alle informazioni di Gv, Gesù prima di inaugurare un ampio apostolato in Galilea, sarebbe stato a Gerusalemme per una festa di Pasqua  (Gv 2, 13.23), e in quel periodo scacciò i cambiavalute del tempio (Gv 2, 13-22) ed ebbe un incontro segreto con il fariseo Nicodemo (Gv 3,1 ss.). Le sue azioni straordinarie attirarono l'attenzione dei visitatori provenienti dalla Galilea (Gv 4,45).

Mentre Lc, da teologo, afferma che Gesù ritornò il Galilea "con la potenza dello Spirito" (4,14). Mt spiega che Gesù "si ritirò per sottrarsi all'ostilità dei sacerdoti e dei farisei (Mt 4,12; Gv 4,1).

Luca ci offre una narrazione ordinata del ministero pubblico, porta Gesù a Gerusalemme alla fine, per mettere in evidenza il punto culminante del rifiuto da parte dei giudei e l'inizio di un apostolato su scala mondiale a favore dei pagani. L'espansione universale del regno ha inizio il giorno di Pentecoste (At 2).

Abbiamo qui un'indicazione dei motivi per cui Lc fa un uso selezionante di Mc. Benché il ministero galilaico in Luca (4,14-9,59) riproduca quello di Mc (1,14-9,39), tuttavia Lc omette liberamente il ministero di Gesù nel territorio pagano, presente in Mc (6,45-8,26), perché il suo intento è quello di voler comporre la narrazione di un ministero ininterrotto in Galilea, per dare il massimo risalto al rifiuto incontrato da Gesù a Gerusalemme.

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DUE EPISODI TIPICI: A NAZARET E A CAFARNAO  (4, 14-44)

Questi due avvenimenti simboleggiano il rifiuto di Gesù da parte dei suoi stessi concittadini e la stima tributatagli da estranei.

 Gesù a Nazaret (4, 14-30).

Composta quasi interamente da brani propri di Luca, la scena della predicazione di Gesù nel villaggio "dove era stato allevato" ha un carattere programmatico assai accentuato; essa annuncia infatti dei temi che occuperanno un posto centrale nell'insieme di Lc-Atti.

Il sommario introduttivo (vv. 14-15) ripete ancora una volta che Gesù è dotato dello Spirito profetico che, dopo il deserto, lo guida sui luoghi del suo ministero. Il contenuto dell'insegnamento di Gesù non è precisato, mentre in Mc 1,15 egli predica esplicitamente il regno di Dio. Le prime parole pubbliche di Gesù saranno, dunque, la sua interpretazione di Isaia. Detto ciò, Luca noterà spesso che Gesù insegna, senza precisarne il contenuto; il fatto è che prendere la parola è un atto in sé già significativo, indipendentemente dal contenuto. A differenza del Battista, Gesù parla spesso in luoghi e tempi specificatamente adibiti a questo scopo: è solito entrare in una sinagoga il giorno di sabato.

Marco (1, 14-15) e Matteo (4, 12-17) aprono il ministero pubblico di Gesù con un sommario breve e generale: “Gesù percorre la Galilea annunciando che il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo”. Luca invece preferisce aprire il ministero pubblico di Gesù con un discorso programmatico, in cui non compare il termine “Regno”, ma viene esplicitato il contenuto: “l’oggi della salvezza, il compimento delle Scritture, la centralità di Gesù”. Per questo scopo Luca pone l’episodio all’inizio della vita pubblica di Gesù, mentre Marco e Matteo pongono l’episodio di Nazaret più avanti, a missione inoltrata.

La prima parte del racconto (vv. 16-22) descrive una parte del culto sinagogale[31]. Essa tralascia le preghiere iniziali e la prima lettura, tratta dalle legge di Mosè, conservando solo una lunga citazione della seconda: la profezia di Is 61, 1-2. Luca ne omette solo il verso minaccioso: "(a proclamare) un giorno di vendetta da parte del nostro Dio". Secondo l'oracolo, il compito dell'inviato è quello di annunciare con vigore la scomparsa di quello che fa soffrire i poveri e gli oppressi, di proclamare l'inizio di un'epoca in cui l'uomo sarà accolto da Dio.

Gesù spiega agli abitanti di Nazaret: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura per voi che mi ascoltate". Ciò che più importa, è notare che Gesù non dà la spiegazione esegetica del testo, né si attarda in alcun modo alla ricerca di applicazioni morali (come facevano alcuni predicatori nelle riunioni della sinagoga), ma attira l’attenzione sull’evento che lo compie: la sua venuta, appunto. Il consacrato e l’inviato dello Spirito è Lui. L’attenzione passa così dalla Scrittura al predicatore: “Gli occhi di tutti erano fissi sopra di Lui”. L’ “oggi” è la novità di Gesù. L’ “oggi” è un termine caratteristico di Luca (2,11; 3,22; 5,26;13, 22-23; 19,5; 23,43), indica che gli ultimi tempi sono iniziati, che il tempo adatto è in svolgimento, che la storia degli uomini sta attraversando un momento eccezionale di grazia. L’oggi non è soltanto una nota cronologica riguardante Gesù: si prolunga nel tempo della chiesa. Il tempo messianico è in svolgimento e il nostro tempo è l’oggi di Dio. Ora, pur rimanendo "stupiti per le parole di grazia che pronunciava", gli abitanti di Nazaret non vedono che un aspetto di Gesù (il "figlio di Giuseppe"), non scorgono in lui il profeta ultimo che pure indicava Is 61.

Nella seconda parte del racconto (vv. 23-27), Gesù prende la parola di sua iniziativa in due fasi. La domanda del v. 22 lo lascia capire: la gente di Nazaret reclama un segno e Gesù  anticipa la loro richiesta (v. 23) ricorrendo a un proverbio. Egli dovrebbe confermare le sue parole compiendo per loro, nella sua patria, atti di potenza simili a quelli compiuti a Cafarnao. Luca, infatti, li racconterà poco più avanti, ai vv. 31-41. A questa pretesa, Gesù risponde con un altro proverbio (v. 24) e con due esempi (vv. 25-27) tratti dal corpus dei profeti (cfr. 1Re 17; 2Re 5)[32]. Anche questa volta, Gesù non dichiara apertamente che lui è il profeta, anche se in questi versetti tutto lo lascia capire. La patria che rifiuta di accogliere colui che annuncia un "anno di grazia" (v. 19), non è soltanto Nazaret, ma anche Israele. Il segno miracoloso che Gesù offre ai suoi concittadini non si compie presso di loro, ma fuori della sua patria, poiché essi respingendo questa universalità, rifiutano anche l'inviato che ne è il portatore.

La conclusione del racconto (vv. 28-30) è anch'essa programmatica: il privilegio di Israele è giunto al termine e il fatto che Dio accoglie le nazioni pagane, questo provoca la collera dei "giudei". Qui viene prefigurato un racconto di At 13 dove si parla che i giudei di Antiochia di Pisidia passano dall'atteggiamento benevolo verso Paolo al furore, vedendo i pagani ascoltare la parola del Signore (At 13, 44-45). Se il v. 24 conteneva già una minaccia implicita nei confronti di Gesù, il v. 29 descrive decisamente un primo tentativo di uccisione. La cacciata di Gesù "fuori dalla città" da parte degli abitanti di Gerusalemme - come avverrà per Stefano At 7,58 - e il suo supplizio vengono così prefigurati (cfr. At 3, 14-15). A partire da questa scena, veniamo a sapere che il titolo di "profeta" per Gesù significa il rifiuto e la passione: Lc 13, 33-34 preciserà solo il luogo di questo delitto. Per il momento non è ancora l'ora degli avversari (22,55) e Gesù prosegue la sua strada che lo porterà a Gerusalemme.

TORNA ALL'INDICE- Gesù a Cafarnao (4, 31-44).

Come la precedente relazione, anche questa ci descrive un giorno tipico nel ministero di Gesù e in quanto tale ci presenta uno schema in miniatura del suo intero ministero. Luca segue qui il vangelo di Marco (la Giornata di Cafarnao), ma sempre con accurati ritocchi. Egli omette la frase marciana un po’ indelicata secondo cui Gesù non insegnava come gli scribi. Da parte sua Matteo colloca la frase al termine del discorso della montagna.

Il luogo è Cafarnao, una città che Luca specifica per i suoi lettori pagani come una città della Galilea.

L'introduzione (vv. 31-32) ricorda che Gesù insegna abitualmente durante il culto della sinagoga (cfr. 4,15). Prima di parlare diffusamente degli atti di potenza compiuti da Gesù, Luca nota che questo insegnamento ha anch'esso una forza insolita che meraviglia chi lo ascolta. In tal modo, l'esorcismo che Gesù compirà (v. 35) non è che una delle manifestazioni di questa potente parola. Poiché il lieto annunzio si realizza anche tra i suoi ascoltatori, l'insegnamento e le guarigioni sono strettamente legati.

TORNA ALL'INDICE1.     Liberazione di un indemoniato (4, 33-37) - V. Mc 1, 23-28.

Gesù entra nella sinagoga che era stata edificata da un ufficiale romano (7,3) e incontra un uomo posseduto da uno spirito immondo che gli impediva di partecipare al culto e alla gioia religiosa. Siccome la Bibbia attribuisce ogni male, sia fisico che morale, a una forza diabolica (Gen 3), non è sempre facile determinare in qualsiasi episodio biblico l'esatta natura del possesso diabolico. L'evangelista, comunque, era veramente convinto che la presenza di Gesù era causa di scontri violenti tra le forze sovrumane del bene e dl male.

Il racconto si inserisce in uno schema classico:

-         Il demonio riconosce l'esorcista e si ribella.

-         L'esorcista proferisce una minaccia o un ordine.

-         Il demonio esce davanti a tutti. Per dimostrare la realtà dell'espulsione, l'uomo viene qui "gettato a terra davanti a tutti".

-         Il racconto, infine, registra l'impressione prodotta sui presenti: un timore religioso che porta a interrogarsi sull'origine di questa parola così efficace. Il lettore sa che si tratta dello Spirito di cui Gesù ha ricevuto l'unzione.

   TORNA ALL'INDICE2.            Guarigione della suocera di Pietro (4, 38-39) - V. Mc 1, 29-31; Mt 8,14 ss.

Dopo la guarigione di un uomo in una casa di preghiera, ecco quella di una donna febbricitante in una casa privata. Gesù "minacciò la febbre" proprio come aveva minacciato lo spirito al v. 35, per Lc questa guarigione è paragonabile a un esorcismo. In scena c'è Pietro, che Gesù è venuto a trovare in casa sua e con i membri della sua famiglia  egli può costatare la guarigione istantanea: “La donna si mise a servirli”. Il racconto prepara la chiamata di Pietro (5, 1-11): Gesù e Simone sono già collegati da un vincolo stretto e l'atto di fede di quest'ultimo (5,8) è preparato dalla straordinaria guarigione di cui egli è testimone in casa propria.

           TORNA ALL'INDICE        3.            Guarigioni di ammalati (4, 40-41) - V. Mc 1, 32-34; Mt 8,16 ss.

Questo sommario riassume molte guarigioni, per mostrare in Gesù il guaritore e l'esorcista: si tratta di individui affetti da diverse malattie ai quali Gesù impone le mani, un gesto di guarigione legato qui al rito dell'esorcismo. Come in precedenza, gli spiriti conoscono il ruolo di Gesù nella storia della salvezza, essi gridano spaventati e frustrati, ma Gesù ordina loro di stare zitti e tranquilli, per evitare che venga riconosciuto semplicemente come un messia taumaturgo e politico.

                   TORNA ALL'INDICE   4.            Gesù parte da Cafarnao  (4, 42-44) - V. Mc 1, 35-39; Mt 4,23; 9,35.

In questo quarto e ultimo episodio, Gesù lascia Cafarnao. Poiché Luca non ha ancora introdotto sulla scena i discepoli, è la folla - e non Simone e i suoi compagni, come in Mc. 1, 36-37 - che lo cerca e viene da lui. E' perciò impressionante il contrasto tra gli abitanti di Nazaret che "lo cacciarono fuori" e le folle di Cafarnao che "volevano tenerlo sempre con loro, senza mai lasciarlo partire"!

"Bisogna che io annunzi la buona novella del regno di Dio alle altre città", un'espressione ripresa da Is 32,7. Questo vangelo da proclamare è che Dio stesso assume il potere, entra in azione per rendere giustizia e per salvare. Gli episodi della giornata di Cafarnao illustrano questa realtà operante attraverso la predicazione e le guarigioni di Gesù. E' per questo motivo che egli deve lasciare la città dove, per la prima volta, ha liberato delle persone alienate dal male e proseguire il suo giro delle sinagoghe in tutta la terra di Giudea.


TORNA ALL'INDICEB.  DALLA CHIAMATA DI PIETRO A QUELLA DEI DODICI (5,1-6,16)


Benché il racconto del ministero galilaico (4,14-9,50) segua molto da vicino il vangelo di Marco, Luca non colloca la chiamata di Pietro prima della giornata di Cafarnao (come avviene in maniera alquanto inaspettata in Mc). Egli compone invece la sua versione personale della vocazione di Pietro e dispone gli eventi secondo una sequenza più ordinata (1,3): chiamata dei discepoli privilegiati (5, 1-11); due guarigioni (il lebbroso e il paralitico) che sono causa di dispute (5, 12-16.17-26); chiamata di Levi, un altro discepolo (5, 27-39); due episodi (le spighe strappate e la guarigione di un uomo dalla mano inaridita) in giorno di sabato che danno origine a nuove dispute (6, 1-11); la scelta dei Dodici (6, 12-16).

a)    La vocazione di Simon Pietro (5, 1-11) - V. Mc 1, 16-20; 4,1; Mt 4, 18-22; cfr Gv 1, 35-42; 21, 1-11.

A differenza di Matteo e Marco, Luca introduce la vocazione dei primi discepoli di Gesù (Pietro, Giacomo e Giovanni), solo dopo i miracoli di Cafarnao e aggiunge il racconto della pesca miracolosa che l'evangelista Giovanni presenta dopo la risurrezione (21, 1-11). Si ha, così, in modo concreto la qualità della redazione dei vangeli, che organizzano i ricordi storici della vita di Gesù secondo diverse prospettive di ordine teologico.

La narrazione di Luca o è una composizione da lui redatta utilizzando varie fonti oppure è il frutto di una trasmissione orale con dettagli di narrazioni differenti mescolate insieme. L’opinione più probabile è la prima, poiché questa sezione è eccezionalmente ricca di tratti stilistici lucani.

La descrizione del luogo (5, 1-3) corrisponde a Mc 4,1 ss.; poi Mc procede con la parabola del seminatore.

A differenza di Mc 1,17 ss, dove Gesù rivolge la parola ad Andrea oltre che a Pietro e poco dopo anche a Giacomo e Giovanni, questa sezione di Lc ci descrive Gesù che si rivolge esclusivamente a Pietro: “D’ora in poi tu sarai pescatore di uomini”. Questa frase, così fortemente sottolineata in greco, implica un profondo cambiamento nella vita di Pietro. Egli pascerà uomini allo scopo di salvare le loro vite, invece dei pesci per i pasti di famiglia; il verbo al futuro seguito dal participio assegna a Pietro una vocazione che dovrà continuare per tutta la sua vita. Scrivendo dopo il 70 d.C., Luca deduce che la leadership di Pietro non sarà mai trasferita a nessun altro, neppure a Giacomo, come sosterrebbero alcuni studiosi in base al Libro degli Atti 10.

Simome-Pietro non sarà solo il portavoce del gruppo che segue Gesù (Lc 9,20), egli svolgerà una funzione analoga all’interno del gruppo degli apostoli presenti a Gerusalemme dopo Pasqua (At 1,15). Soprattutto predicherà la parola di Dio, compiendo così la grande “retata” che raccoglierà gli uomini per formare la prima comunità cristiana (At 2, 14-41).

Infine, un ultimo tratto tipico di Luca: i nuovi discepoli abbandonano tutto, non soltanto le reti come in Mc 1,18. Seguire Gesù è compiere una scelta radicale.

TORNA ALL'INDICEb)    Due miracoli e il racconto di una disputa (5, 12-26).

Da 5,12 a 6,11 Luca attinge quasi tutto il suo materiale a Marco introducendovi soltanto leggeri ritocchi. Quanto a disposizione strutturale, i prossimi due miracoli (il lebbroso e il paralitico) si armonizzano perfettamente con i due eventi (il digiuno cristiano e il sabato) riportati dopo la chiamata di Levi.

- La guarigione di un lebbroso (5, 12-16) – V. Mc 1, 40-45; Mt 8, 1-4.

Luca colloca questa guarigione “in una città”, mentre Mc 1,39 la colloca in aperta campagna, luogo più logico per incontrare un uomo che si trovi ormai negli stadi più avanzati di una malattia di pelle molto contagiosa. A Lc non importa tanto l’itinerario di Gesù, quanto coloro ai quali si rivolge. Il lebbroso era considerato impuro sia per il culto che per la vita sociale. Egli è cacciato “fuori del campo” (Lev. 13, 45-46) perché considerato morto per la comunità: si può pensare a una forma più radicale di povertà? Il lebbroso non chiede di essere guarito ma di essere mondato, questo sentimento riflette tutta la tradizione biblica secondo la quale la sofferenza più acuta causata dalla lebbra era la disperazione del sentirsi esclusi dalla comunità. Soltanto una persona realmente monda poteva prendere parte ai servizi religiosi e alle assemblee della comunità.

Così Gesù, violando le norme di purità rituale “tocca” il malato quasi ad assumere e a liberare quel male infondendo la sua forza risanatrice. Si mostra, però, rispettoso delle leggi ufficiali, invitando il malato guarito a presentarsi alle autorità[33] per essere riammesso nella società religiosa e civile (Lev. 14, 2-3).

Il brano si conclude con un riferimento alla preghiera. Mentre Mc insinua che Gesù fu costretto a ritirarsi nel deserto per evitare che la folla eccitabile organizzasse un movimento rivoluzionario messianico politico, Luca pone in evidenza che il ritiro di Gesù per pregare era spontaneo e abituale. Nella preghiera otteneva quanto la folla gli chiedeva.

In questo episodio Lc tralascia gran parte del dialogo e compone una narrazione più scorrevole, ma meno personale.

- La guarigione del paralitico (5, 17-26) – V. Mc 2, 1-12; Mt 9, 1-8; Gv 5,8.

Luca ha completamente rielaborato l’introduzione di questo racconto attinto sostanzialmente da Mc. Già nell’introduzione Lc annota che questo episodio “accade”. Gli eventi di Dio non si programmano, l’importante è guardarli con attenzione quando accadono.

La narrazione si dilunga nel descrivere il modo con cui il paralitico, sdraiato su un lettuccio, riesce a raggiungere Gesù. E’ uno sforzo che Gesù legge come un segno di fede (“visto la loro fede”). Ma nonostante questa fede – o forse proprio per questa – Gesù sembra voler deludere il desiderio di guarire del paralitico. Venuto a chiedere la guarigione, egli si sente dire: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Gesù gli offre un di più, non un di meno, ma non è ciò che l’ammalato aspettava. Per lui il problema è anzitutto la salute, per Gesù è anzitutto il rapporto con Dio.

L’inaspettata affermazione di Gesù (“ti sono rimessi i peccati”) cambia totalmente la direzione del racconto, il cui perno non è più la potenza del miracolo, ma la pretesa di Gesù di offrire il perdono dei peccati. In effetti, il giudaismo conosce dei riti di perdono nell’ambito della liturgia del tempio; il perdono dei peccati si otteneva col pentimento e, soprattutto, col sacrificio per il peccato (Lv 4,1-5,13). In gruppi come quello di Giovanni Battista, il perdono si otteneva con la conversione del cuore e il rito battesimale (Lc 3,3). Ma Gesù non passa attraverso il sistema del tempio e non dimostra più nemmeno che il perdono è stato concesso grazie a un rito nell’acqua, come faceva Giovanni. Qui la guarigione fisica del paralitico (“alzati e cammina”) sarà segno del perdono (“ti sono rimessi i peccati”). La guarigione da ora in avanti sarà semplicemente un segnale che suggerirà di guardare altrove: “Perché sappiate che il Figlio dell’uomo[34] ha il potere sulla terra di rimettere i peccati”. L’uomo ha bisogno di salute, ma anche di perdono. Ecco perché Gesù non soltanto guarisce, ma offre perdono e invita alla conversione.

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c)     La vocazione di Levi  (5, 27-32).

La chiamata del pubblicano Levi è un breve racconto che riproduce tutte le strutture essenziali della sequela: l’iniziativa di Gesù (“notò”), il distacco radicale (“lasciato tutto”), la prontezza della risposta, l’imperativo del seguire.

La sequela non è un’azione puntuale che si apre e subito si chiude, come una decisione che si prende una volta per sempre, ma un’azione che si prolunga nel tempo, un cammino, una decisione continuamente ripresa.

Nella chiamata di Levi c’è una nota diversa rispetto alla chiamata dei primi discepoli: Gesù chiama al suo seguito anche i pubblicani e i peccatori. I pubblicani, cioè gli esattori delle tasse alle dipendenze di Roma, erano considerati alla stregua dei pubblici peccatori.

Oltre a chiamare i peccatori al proprio seguito, Gesù siede anche a mensa con loro, un gesto, questo, ritenuto gravissimo e scandaloso, perché violava le prescrizioni della purità che vietavano la comunanza di mensa con stranieri e peccatori.

Frequentare i peccatori è un comportamento che svela  la ragione della venuta di Gesù: “Sono venuto per i peccatori”. Non è, quindi, un fatto occasionale o accidentale. Già sappiamo che l’universalità della sua missione non permette a Gesù di lasciarsi rinchiudere dalla folla (4, 42-43): Egli è venuto per predicare anche alle altre città. Ora ci viene detto che la sua missione non gli permette neppure di lasciarsi rinchiudere nello schema del puro e dell’impuro, del giusto e del peccatore.

Una discussione sul digiuno (5, 33-35)

Agli scribi che gli domandano perché i suoi discepoli non digiunano, Gesù risponde parlando di se stesso. Dopo aver detto di essere il Figlio dell’uomo che ha autorità di perdonare i peccati e il medico venuto a guarire i peccatori e poi, più avanti, di essere il Signore del sabato (6,5), in questa controversia sul digiuno proclama di essere lo “sposo”, cioè il Messia atteso. Lo sposo e le nozze sono due classiche metafore messianiche.

Le cinque controversie contengono una rivelazione cristologica, cioè una rivelazione della identità di Gesù. Chi è costui che si arroga diritti che appartengono a Dio e trasgredisce comportamenti da tutti accettati? Questo è il vero nodo di ciascuna controversia. Solo chi comprende chi è Gesù percepisce la verità delle sue parole e dei suoi gesti.

Gesù non si limita ad affermare la sua messianicità, ma predice volutamente anche il martirio che lo attende: “Quando lo sposo sarà tolto…”. In quel tempo anche i discepoli digiuneranno, e il digiuno che distingue i discepoli di Gesù, è la partecipazione al suo martirio.

Il vino e gli otri (5, 36- 39)

Il punto sul quale cade il peso dei due paragoni, è che non si può mettere insieme il nuovo e il vecchio. Si finisce col rovinarli ambedue.

Probabilmente i farisei si aspettavano un Messia che si sarebbe limitato a correggere alcuni aspetti del loro sistema religioso, Gesù invece non è venuto per rattoppare il loro vecchio mondo religioso. Lo rompe. Occorre dunque il coraggio di cambiare gli otri e il vestito.

Gesù non si cura di spiegare di quale novità si tratti, perché tutto è già spiegato con chiarezza dal contesto: il perdono, l’accoglienza dei peccatori, la libertà di fronte al digiuno, il sabato per l’uomo. E’ una novità teologica non morale. Infatti non introduce semplici correttivi sul modo con cui l’uomo deve onorare Dio, ma racconta come Dio guarda l'uomo.

TORNA ALL'INDICEd)    Dispute sul sabato (6, 1-8).

Le ultime due polemiche riguardano il sabato. Il riposo sabbatico rimanda esplicitamente al riposo che Dio si concesse dopo aver creato il mondo (Es 20, 8-11). Comunemente raccogliere le spighe in giorno di sabato era già ritenuto una violazione del comandamento. Luca rafforza la violazione aggiungendo che “le sfregavano con le mani”. L’osservanza del sabato era uno dei precetti divini più chiari, quasi una tessera di riconoscimento del vero credente. Non sorprende che i farisei chiedano ai discepoli spiegazioni: “Perché fate ciò che non è lecito fare di sabato?”.

Come sempre, Gesù risponde direttamente, come se la domanda fosse stata rivolta solo a Lui. La sua risposta è in due tempi. Dapprima rinvia alle Scritture, citando un episodio che si legge in 1 Sam 21, 1-7. Il vostro ragionamento – sembra dire Gesù – è contraddetto dalle stesse Scritture che voi venerate.

Ma subito dopo afferma – ed è questa la vera risposta – che “il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato”. Sta qui il profondo contrasto tra i farisei e Gesù, che non si riduce a una maggiore o minore rigorosità nell’osservanza delle regole. Non si tratta di introdurre qualche eccezione in più in una regola che però resta immutata. Si tratta di cambiare la radice della legge. Gesù è signore del sabato e lo subordina al bene dell’uomo. Ha l’autorità per farlo.

Una guarigione di sabato (6, 9-11).

Guarendo in giorno di sabato un uomo che aveva la mano paralizzata, Gesù ribadisce quanto appena detto: è il Signore del sabato e subordina al bene dell’uomo la sua osservanza.

Anche il giudaismo ammetteva in giorno di sabato salvare la vita con la fuga, portare aiuto a un uomo in pericolo o a una donna colta dai dolori del parto o in caso di incendio, e così via.

Ma nel caso di Gesù non c’è traccia di urgente necessità. Il suo gesto era un’eccezione alla regola, ma cambia il quadro teologico della regola.

Scribi e farisei lo osservano per accusarlo. Gesù conosce i loro pensieri e li sfida, guarendo l’ammalato con il massimo della pubblicità: “Mettiti in mezzo”.

Nelle precedenti controversie sono gli scribi che pongono domande ai discepoli o direttamente a Gesù, qui è Gesù che pone loro una domanda, ma non rispondono. Sono persone che non si lasciano interrogare né intendono discutere. Hanno già deciso (6,11).

TORNA ALL'INDICEe)     La scelta dei dodici (6, 12-15).

Inizia una nuova tappa del cammino di Gesù e compare sulla scena un personaggio nuovo: i dodici. Gesù si separa dai discepoli per pregare in solitudine, per tutta la notte,  senza sosta, fermo davanti al suo Dio.

Luca è l’evangelista che ricorda che Gesù ha pregato in tutti i momenti importanti della sua missione, specialmente quando doveva prendere una decisione. La scelta dei dodici è uno di questi momenti.

Gesù sceglie i dodici dalla cerchia più ampia dei discepoli. La loro chiamata è descritta con tre verbi: chiamare, scegliere, dare il nome. Sono verbi che pongono in evidenza la libera e gratuita iniziativa di Gesù. Perché abbia chiamato loro e non altri, non è detto. Di Giuda, posto in fondo all’elenco, si dice che tradirà. Neppure il gruppo più scelto è immune dal male.

Anche Marco e Matteo sanno che i dodici sono apostoli. Soltanto Luca però precisa che è stato Gesù in persona a dare loro questo nome. E’ un nome che indica la loro principale funzione: l’Apostolo è l’inviato autorizzato, che parla a nome di chi lo invia ed è testimone della sua volontà. La nota che lo caratterizza è la fedeltà: l’Apostolo non è autorizzato a dire parole sue o ad esprimere una volontà propria ma è totalmente vincolato alla volontà di chi lo invia. Stando agli Atti degli Apostoli - dove Luca mostra concretamente la loro funzione - gli apostoli hanno il compito di guidare la comunità, annunciare il vangelo, vigilare sulla conservazione e la trasmissione della vera fede.


TORNA ALL'INDICEC.  INTENSO SVOLGIMENTO DEL MINISTERO (6,17-9,9)


La narrazione ordinata del ministero galilaico (4,14-9,50) ebbe inizio con due episodi tipici: uno a Nazaret per mettere in evidenza il rifiuto di Gesù da parte dei suoi stessi concittadini (4, 14-30); l’altro a Cafarnao, per simboleggiare la sua accoglienza entusiastica da parte di estranei (pagani) in una città in cui egli stesso era straniero (4, 31-44). Poi Luca continua la sua narrazione aggiungendo altri importanti dettagli nel racconto della costruzione del regno con: la chiamata di Pietro, la missione dei dodici e alcune dispute con i vari gruppi ostili. Resta così allestito il palcoscenico per una presentazione della parte culminante del ministero in Galilea.

TORNA ALL'INDICEa)    Le beatitudini (6, 17-26)

La cornice di questo discorso di Gesù è molto solenne (6,17). Gesù discende dalla montagna in un luogo pianeggiante (Matteo dice invece che salì sul monte) e pronuncia il suo discorso circondato da molti discepoli, dai dodici e dalle folle venute da ogni dove, perfino dalle contrade pagane di Tiro e Sidone. Il discorso è pronunciato davanti a tutti: non solo ai dodici e non solo al popolo giudaico, ma a tutti. Tuttavia è anche vero che il discorso è particolarmente rivolto ai discepoli, le folle sono sullo sfondo, in seconda fila: “Alzati gli occhi verso i suoi discepoli”.

In questa cornice universale, Gesù è presentato nell’interezza della sua missione: annuncia la Parola, guarisce i malati, libera dallo spirito del male.

Nel quadro grandioso che abbiamo descritto, le beatitudini assumono il senso di una proclamazione messianica: un annuncio che il regno di Dio è arrivato. Dietro le beatitudini, gli esegeti, hanno intravisto il testo profetico di Isaia 61,1ss, un passo già citato da Gesù nella sinagoga di Nazaret. I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo in cui Dio si sarebbe preso cura dei poveri, degli emarginati, degli affamati, dei perseguitati e degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza, per Gesù è un presente: oggi i poveri sono beati, e la ragione è una sola: la gioia del regno arrivato. E’ alla luce di questo regno, che ha capovolto i valori comuni, che si giustifica la paradossalità di queste parole di Gesù che proclamano “felici” persone che si trovano in situazioni di sofferenza.

L’aspetto più importante è forse ancora un altro: Gesù non si è accontentato di proclamare le beatitudini, le ha vissute per primo. Ha cercato i poveri e li ha amati. Egli fu povero, sofferente, affamato, perseguitato. Sta qui il senso profondo delle beatitudini. La vita di Gesù è la chiave che permette di entrare nel loro spirito e comprenderle.

Matteo elenca otto beatitudine, Luca invece ne elenca quattro: i poveri, gli affamati, coloro che piangono e i perseguitati.

Nella sua accezione originaria la parola “poveri” (ptochoi) indica i mendicanti, coloro che fanno gesti di implorazione, si rannicchiano. Non c’è soltanto il fatto della povertà, ma anche quello di essere trascurati, poveri accanto a gente ricca, oppressi.

Coloro che piangono e coloro che hanno fame sono, sostanzialmente, una ripetizione dei poveri

Non è possibile introdurre in queste beatitudini di Luca una dimensione etica e spirituale, Luca ha di mira delle situazioni.

La quarta (i perseguitati) è la beatitudine del discepolo: si stacca quindi dalle tre precedenti che non hanno direttamente di mira il discepolo ma semplicemente il povero e l’oppresso.

Già è possibile una prima conclusione: a differenza di Matteo, Luca sembra aver di mira delle situazioni di fatto di oppressione ed emarginazione e non atteggiamenti etici (poveri in spirito, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore).

Il messaggio delle beatitudini lucane sembra essere anzitutto un severo giudizio sul mondo ricco (aspetto rafforzato dall’aggiunta delle quattro maledizioni).

Nell’interesse della cristianità che ha di fronte (Luca scrive per delle comunità che vivono in seno al mondo pagano, in città ricche di benessere) l’evangelista stigmatizza il mondo dei ricchi, dei gaudenti.

Il messaggio vuole dunque invitare a capovolgere le valutazioni: i poveri contano presso Dio, ad essi appartiene il Regno. Si noti la precisa formulazione delle beatitudini: ai poveri non viene detto direttamente di farsi giustizia, ma che ad essi appartiene il regno, e questa promessa non è al futuro, ma al presente. Il discorso evangelico è religioso, non sociologico o politico.

Ma è proprio da questo valore religioso che scaturisce il diritto dei poveri ad avere giustizia: poiché sono amati da Dio e appartengono al Regno, pertanto sono ingiuste le emarginazioni in cui sono stati confinati.

E’ possibile anche un’altra conclusione: davanti a una folla di malati, venuti per essere guariti, Gesù proclama le beatitudini. A coloro che sono afflitti, piangono e soffrono, Egli addita anzitutto un futuro diverso, non promette un cambiamento presente: “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati”. Gesù compie miracoli, ma i miracoli sono segnali di speranza, non soluzioni. Nelle beatitudini, Egli non proclama che ora non ci sarà più la sofferenza, né le molte cause che la provocano, afferma, invece, la certezza di un mondo nuovo, e questo rende possibile vivere già ora in una luce totalmente diversa.

Le beatitudini ci insegnano come un vero discepolo deve guardare la folla dei diseredati che hanno circondato Gesù e che riempiono il mondo: con occhi nuovi, con gli occhi di Dio.

Per concludere: le beatitudini vanno anche lette alla luce degli Atti degli Apostoli. Luca, infatti, descrive la Chiesa ideale come la comunità in cui “non c’era nessuno che ritenesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era fra loro comune, poiché quanti possedevano campi o case, li vendevano e portavano il ricavato ai piedi degli Apostoli. Veniva poi distribuito a ciascuno secondo che ne aveva bisogno” (At 4, 32-35).

TORNA ALL'INDICEb)    Amore verso i nemici (6, 27-38)

La parte centrale del “discorso della pianura” è dedicato allo “specifico” del cristiano che è l’amore.

Matteo dedica due capitoli (5-7) al “Discorso della Montagna”, Luca, invece, solo 30 versetti dei 107 di Matteo. Luca si limita all’essenziale: la proclamazione delle beatitudini e il comandamento dell’amore.

Il discorso della pianura di Luca e il discorso della montagna di Matteo provengono da documenti della Chiesa che radunavano insieme varie affermazioni di Gesù.

Luca, diversamente da Matteo non è interessato a mostrare l’originalità della giustizia cristiana nei confronti di quella degli scribi e farisei, è però interessato a mostrare la differenza fra il discepolo e il mondo.

L’insistenza di tutti gli imperativi e dei paragoni che qui ricorrono, riguarda un solo punto: la legge dell’amore. Gesù, infatti, parla di un modo nuovo di regolare i rapporti: non più la vecchia giustizia della parità del dare e dell’avere, ma un nuovo criterio che rompe gli angusti confini costituiti dalla reciprocità.

Il criterio della reciprocità è del tutto stravolto, per esempio la modalità del perdono (6, 27-28), va molto al di là della semplice rinuncia alla vendetta. Nei confronti del nemico vengono suggeriti quattro atteggiamenti positivi da assumere: amare, far del bene, benedire e pregare.

L’aggettivo “vostro” è importante, perché rende tutto più concreto: si tratta proprio dei tuoi nemici, e la figura del nemico non è eccezionale, ma quotidiana: non solo i persecutori (che non si incontrano ogni giorno), ma chi parla male di te, ti odia e ti tratta male. Il nemico da amare è la persona ostile che sta sotto casa.

I paragoni (6, 29-30) che immediatamente seguono (offrire l’altra guancia, non rifiutare la tunica, prestare anche a chi non restituisce) confermano che si tratta di un modo nuovo di costruire i rapporti.

Spesso ci si riferisce a questi paragoni per proclamare la non violenza evangelica. Troppo poco. Qui vengono messe in discussione le regole che noi riteniamo giuste, le uniche capaci di costruire la convivenza. La legge dell’amore esce da questi schemi di reciprocità e tende alla gratuità. Questa è la differenza fra il “peccatore” e il “discepolo” (6, 33-34). Amare chi ci ama e prestare a chi ci restituisce è l’onestà dei peccatori, non del discepolo. Gesù ha un criterio molto diverso dal nostro per distinguere i peccatori e i discepoli.

Il criterio della giustizia di Gesù è il comportamento del Padre (6,35), il cui amore per l’uomo è gratuito e universale, “benevolo” anche verso gli ingrati e gli ingiusti. L’aggettivo “benevolo” (chrestos in greco) dice l’amore attento, mite, accogliente, che non fa pesare ciò che dona.

Tutto il discorso sulla “nuova giustizia” viene riassunto con l’espressione: “Siate misericordiosi come lo è il Padre vostro” (v. 36). La misericordia è l’amore ostinato, che rimane saldo anche se non corrisposto, addirittura anche se tradito. E’ quando si condividono gli stessi comportamenti del Padre che si dimostra – prima a se stessi che agli altri – di essere veramente figli di Dio. Il figlio assomiglia al Padre: la parentela con Dio (una realtà che non è visibile) è resa concreta e visibile dalla qualità dei nostri comportamenti verso gli altri.

I detti che seguono (6, 37-38) sembrano riportare il discorso all’indietro, verso un ideale di giustizia ancora richiuso nella parità del dare e dell’avere: non giudicate e non sarete giudicati, date e vi sarà dato, con la misura con cui misurate. Ma forse Luca vuole semplicemente affermare che la nuova giustizia, che rompe lo schema della parità, non è improduttiva e nemmeno impossibile, come invece molti (anche cristiani) ritengono. Il Signore ricambia l’obbedienza del suo discepolo con una abbondanza che va oltre la misura (6,38).

TORNA ALL'INDICEc)     Alcuni paragoni (6, 39-49)

La terza parte del discorso della pianura è una raccolta di alcuni paragoni, il primo dei quali è chiamato “parabola” (6,39). Sono paragoni non uniti bene al testo precedente, in realtà non sono nemmeno ben collegati tra di loro. Sono detti staccati, pronunciati da Gesù in occasioni diverse, inseriti qui dall’evangelista perché, possono illustrare il tema della nuova legge e del vero discepolo.

Esaminiamoli uno per volta.

a) Primo paragone (6, 39-40): se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadono in una fossa. Per Matteo Gesù riferisce questa espressione ai farisei del suo tempo: guai a voi guide cieche (Mt 23,16). Per Luca, invece, il paragone non si riferisce soltanto ai farisei del tempo di Gesù, ma viene applicato direttamente ai discepoli successivi, ai maestri di oggi, che non devono essere guide cieche, ma discepoli della Parola dell’unico Maestro. La verità della parola del discepolo non sta nella sua abilità personale, ma nella sua fedeltà.

b) Secondo paragone (6, 41-42): la pagliuzza e la trave. Mettere in pratica le parole di Gesù significa anche trovare il coraggio della correzione fraterna. Ma si può incorrere in alcuni pericoli: quello ad esempio, di usare due pesi e due misure, una per gli altri e una per sé; più indulgenti verso se stessi e più rigidi verso gli altri. La conclusione del paragone è che occorre l’accortezza di incominciare la critica da se stesso. E’ nella critica di sé che si trova la giusta misura su cui regolare la nostra critica verso gli altri.

      c) Terzo paragone (6, 43-45): l’albero buono e l’albero cattivo. La prima impressione è che Gesù stia richiamando l’attenzione sulle opere. Sembra voler dire: sarete giudicati non in base al messaggio che offrite, ma in base ai segni che saprete costruire. Il paragone, però, può avere un’altra direzione: è dall’interno che provengono le azioni, buone e cattive. Il vero problema, perciò, è di cambiare l’interno, la sorgente. Difatti in 6,45 si ricorda che è dal cuore che derivano le azioni.

La conclusione del discorso (6, 46-49), verte ancora su un ultimo paragone: una casa costruita sulla roccia e l’altra sulla sabbia. E’ un paragone ricco di echi veterotestamentari. La roccia, che dà stabilità alla casa, è il Signore, la parola di Dio, la fede, il Cristo. L’inondazione nel linguaggio biblico è spesso il simbolo del giudizio di Dio. Con questo paragone l’evangelista vuole indicare le condizioni necessarie perché la vita cristiana possa svolgersi con costanza e fedeltà. La prima condizione è la necessità di appoggiarsi a Cristo (la roccia), l’unico capace di rendere incrollabile la fede del discepolo, di sottrarla alla fragilità dell’uomo. La seconda condizione è la necessità di fare la volontà di Dio. Alla dimensione della fede deve seguire la dimensione morale. Il vero cristiano è descritto da Luca con tre verbi: venire, ascoltare, fare (6,47). Il tratto delicato e decisivo è il terzo: trasformare le parole ascoltate in parole fatte, in gesti concreti.

L’affermazione che si legge in 6,46 (“perché mi chiamate: Signore, Signore, ma non fate ciò che vi dico?”) forse è una polemica contro un culto formalista che si esauriva nelle parole dimenticando la carità.

Non è da escludere che i fatti che immediatamente seguono il discorso della pianura (“Quando ebbe finito di rivolgere al popolo queste parole”) abbiano lo scopo di provare la verità delle parole dette da Gesù. Sono parole confermate dalla potenza di Dio, come mostrano il miracolo della guarigione del servo del centurione (7, 1-10) e la risurrezione del figlio della vedova di Naim (7, 11-17).

Ma l’idea principale è probabilmente un’altra: Gesù ha proclamato la grande legge dell’amore, ed ecco che Egli la osserva per primo, utilizzando la sua potenza per compiere gesti di bontà: guarisce, ridona la vita, ai messaggeri del Battista presenta come credenziali i suoi gesti di salvezza (7, 18-30), accoglie il pentimento di una peccatrice (7, 36-50), chiama a far parte del suo seguito anche alcune donne (8, 1-3).

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d)    Il servo del centurione (7, 1-10)

Secondo la legge giudaica, entrare nella casa di un pagano comportava un’impurità che impediva, per un certo tempo, di accostarsi alla preghiera. E’ forse per questo motivo che il centurione non pretende che Gesù entri in casa.

La sua fede, forte e rispettosa, viene premiata. Il servo è guarito per la potenza della parola di Gesù  e per la forza della fede del centurione.

Una caratteristica comune a tutti gli evangelisti è il modo in cui Gesù, benché fisicamente assente, salva una persona in difficoltà, usando semplicemente la sua parola: ciò è posto particolarmente in evidenza da Luca.

Un particolare che non deve sfuggire in questo miracolo è il personaggio che chiede il miracolo: il centurione, cioè un soldato pagano. Certamente è un simpatizzante del popolo d’Israele (“ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga”), cioè un “proselita”, uno di quei pagani che, delusi dalle ideologie dei greci e dei romani e dalla sapienza dei filosofi, si erano rivolti alla fede ebraica: pregavano nelle sinagoghe e prendevano parte alle opere di carità in favore dei poveri, ma non erano ebrei nel vero senso della parola, erano sempre di origine pagana, di un altro popolo, esclusi dalla vera e propria elezione di Dio.

Ma per Gesù non ci sono differenze. La fede non coincide con gli ambiti istituzionali, e non sempre la trovi dove te l’aspetti. Un pagano può avere fede come gli ebrei, anche più degli ebrei

TORNA ALL'INDICEe)     Il figlio della vedova di Naim (7, 11-17)

La tradizione evangelica ricorda tre miracoli di risurrezione: il figlio della vedova di Naim (7, 11-17), la figlia di Giairo (8, 50-56), Lazzaro (Gv. 11).

Il loro intendo non è anzitutto quello di mostrare la straordinaria potenza di Gesù, ma di mostrare che in Lui è la vita. Luca ha collocato l’episodio a questo punto del vangelo probabilmente per preparare la risposta di Gesù agli inviati del Battista, venuti a chiedergli i segni della sua messianicità. Fra questi segni c’è anche la risurrezione dei morti: ecco perché Luca ha posto qui, immediatamente prima,  la risurrezione del figlio della vedova.

Il racconto lucano è disseminato di particolari che hanno tutti un profondo significato. Il ragazzo morto è il figlio unico di una donna vedova. All’entrata della città Gesù si imbatte – si direbbe per caso “avvenne” – nel suo funerale. Gesù è accompagnato dai suoi discepoli e il feretro è seguito da molta gente. Così il miracolo è compiuto davanti a molti testimoni.

Gesù prova compassione per la madre, e le dice di non piangere. L’iniziativa è interamente sua, completamente gratuita. La madre non gli chiede nulla, semplicemente mostra piangendo il suo dolore. Il sentimento che spinge Gesù è dunque la compassione, espressa con un verbo (splanchnizein) che fa riferimento all’amore materno, di grembo. Si tratta di un sentimento profondo e partecipe, umanissimo. Gesù si lascia coinvolgere dal dolore della donna, prescindendo da ogni valutazione di merito. Cosa ha fatto quella donna per meritarsi un così grande miracolo? Nulla è detto e nulla si deve aggiungere. Gesù ha intuito il dolore di una vedova per la perdita dell’unico figlio, e questo gli è bastato per intervenire.

Oltre alla gratuità c’è un secondo tratto che qualifica in modo particolare il miracolo. Gesù lo compie con una parola che suona come un ordine: “Giovinetto, dico a te, alzati”. Nessuna invocazione a Dio, nessuna preghiera, nessun gesto, ma soltanto una parola in prima persona (“dico a te”).

Forse è proprio questo l’interesse principale di Luca: affermare che la parola di Gesù è parola che salva.

Un’ultima annotazione: l’espressione ammirata della gente (“Un grande profeta è sorto in mezzo a noi”) fa riferimento all’episodio di Elia (2 Re 17, 17-24). Ma il racconto di Luca differisce dal modello dell’AT. Infatti mentre Elia per risuscitare  il figlio della vedova di Sarepta, “si distese tre volte sul fanciullo”, Gesù, invece, non ha bisogno di nessun gesto, ricorre solo alla sua parola: “Alzati!”.

TORNA ALL'INDICEf)      Gesù e il Battista (7, 18-35)

Luca propone qui un’ampia trattazione in cui il nome di Giovanni ritorna nove volte, in un capitolo incentrato sulla rivelazione di Gesù come profeta, ed è ovvio il riferimento a Giovanni Battista, considerato da tutti, anche da Gesù “qualcosa di più di un profeta”.

L’episodio è formato da tre parti ben distinte:

1)     Alla domanda sulla sua messianicità che Giovanni gli pone, Gesù risponde rinviando ai miracoli messianici che egli compie (7, 18-23).

2)     Nella seconda parte, Gesù rende testimonianza al Battista (7, 24-28).

3)     Infine, l’accento si sposta sull’atteggiamento dei contemporanei verso Gesù e Giovanni (vv. 29-35).

-         Luca omette di informarci che Giovanni si trova in prigione, perché ha già fatto riferimento al fatto (3,19ss.) e agli inviati del Battista che esplicitamente lo interrogano sulla sua messianicità, Gesù risponde con una serie di allusioni a Isaia 61, già citato nel suo discorso programmatico tenuto nella sinagoga di Nazareth. Gesù non risponde direttamente alla domanda ma rinvia alle sue opere e alle Scritture. E’ soltanto in questo modo che si può concludere chi Egli sia. Come segni che lo caratterizzano, Gesù enumera una serie di miracoli, perfino la risurrezione dai morti. Ma l’ultimo segno (“ai poveri è annunciata la buona novella”) non è un miracolo, ma è il segno più chiaro che Gesù è il Messia, perché i poveri vanno identificati con gli storpi, i ciechi, ecc., cioè il costante ideale del vangelo è di arrecare sollievo totale e piena redenzione al popolo di Dio.

-         I discepoli di Giovanni hanno interrogato Gesù sulla sua identità, ora è Gesù che interroga la folla su Giovanni. Gesù non attende una risposta dalla folla, Lui stesso risponde, esaltando la grandezza di Giovanni, che non consiste solamente nell’austerità della vita e nella fortezza del carattere, ma soprattutto nell’aver accettato di preparare la strada del Messia (7,27). Il Battista è venuto per rendere testimonianza su un Altro. Sta qui tutto il suo significato. “Nessuno tra i nati di donna è più grande di lui, eppure il più piccolo nel Regno di Dio è ancora più grande” (7,28). Questa affermazione un po’ oscura si può spiegare così: Giovanni può essere anche stato il più grande di tutti i profeti e patriarchi, ma solo con Gesù ha avuto inizio un’epoca nuova e finale, per cui coloro che appartengono a questa nuova era ( il più piccolo nel Regno dei cieli) sono molto più fortunati dei primi (è più grande di lui).

-         Dopo aver espresso il proprio giudizio su Giovanni, Gesù traccia un quadro delle posizioni che i contemporanei hanno avuto di fronte a Lui e a Giovanni, suo precursore. Per rendere più vivace e incisivo il suo giudizio, ricorre a una parabola. Due gruppi di bambini, schierati sulla piazza uno di fronte all’altro, decidono di giocare al funerale. Ma quando il primo gruppo inizia le nenie, l’altro non si muove, ha già perso interesse al gioco, perché troppo triste. Allora si cambia e si ricomincia da capo: si gioca allo sposalizio. Ma anche questa seconda volta il gruppo non si muove: il gioco è troppo allegro. “Questa generazione – dice Gesù – somiglia proprio a quei bambini capricciosi, che non sanno quello che vogliono”, cioè rifiuta tutti gli inviati di Dio, comunque essi siano: il Battista perché rigido, Gesù perché mangia e beve. Tuttavia c’è anche chi è disponibile ad accogliere. La “sapienza”, cioè il disegno di Dio (nel nostro caso, la rivelazione di Gesù), che si manifesta tramite i suoi messaggeri ha avuto i suoi seguaci. I farisei e i dottori della legge sono “questa generazione” che rifiutando di farsi battezzare non si riconoscono bisognosi di conversione, quindi, hanno vanificato il disegno di Dio (7,30). Il popolo e i peccatori, invece, sono i “figli della sapienza” che facendosi battezzare da Giovanni, riconoscono in tal modo  che Dio ha avuto ragione  (alla lettera, “si è rivelato giusto”) nell’inviare un profeta al annunciare al popolo la necessità della conversione.

TORNA ALL'INDICEg)    La peccatrice perdonata (7, 36-50)

Luca colloca qui questo episodio, per sviluppare maggiormente il tema precedente, cioè la rivelazione di Gesù come profeta: sono, infatti, i peccatori che riconoscono Gesù come tale, al contrario, i farisei rifiutano questo carattere profetico.

Gesù è ospite di un ricco fariseo. Egli frequenta sia la compagnia dei poveri e dei peccatori, sia le case degli osservanti e dei ricchi.

Nessuna meraviglia che una donna, non invitata, entri nella sala del banchetto. Quando in casa si dava una festa, i vicini entravano a vedere e a curiosare. Ma una donna, conosciuta da tutti come una peccatrice, non si accontenta di curiosare, ma si siede ai piedi di Gesù, li cosparge di profumo e versa lacrime di pentimento per i suoi peccati.

Qui vengono posti a confronto due modi di guardare. Di fronte alla stessa donna e allo stesso gesto, il fariseo vede in lei la peccatrice e basta, Gesù invece scorge in lei il pentimento, la riconoscenza e l’amore.

Il fariseo pensa che un vero uomo di Dio non debba contaminarsi coi peccatori, ma al contrario debba evitarli, distinguendo bene tra giusti e peccatori, credenti e pagani.

Gesù invece è di parere opposto: egli sa che Dio è un padre che ama tutti i suoi figli, buoni e cattivi e non allontana i peccatori ma li cerca.

Il fariseo si lascia condizionare dal fatto dal fatto che quella donna è una peccatrice e dà un giudizio precostituito al suo gesto. Egli identifica la donna con la sua condizione: è una peccatrice, non è capace di fare altro, tutte le sue azioni devono essere guardate con sospetto! Gesù invece, libero da schemi e pregiudizi, prende in considerazione la possibilità del perdono di Dio.

Gesù cerca di far cambiare il suo punto di vista al fariseo raccontandogli una breve parabola: il condono dei cinquanta e dei cinquecento denari. I segni d’amore di questa donna verso Gesù sono la prova che le è stato perdonato molto, perché ha amato molto. L’amore perfetto ha il potere di perdonare i peccati.

TORNA ALL'INDICEh)    Le donne al seguito di Gesù (8, 1-3)

Da buon scrittore ellenistico, Luca alterna i generi letterari, ecco un breve riepilogo del giro missionario che Gesù compie in Galilea. Due gruppi sono testimoni della potenza e degli insegnamenti di Gesù: anzitutto i Dodici, di cui si precisa soltanto che si trovavano “con lui”, bisogna attendere 9,1 perché essi collaborino alla missione di Gesù.

Segue poi il gruppo delle donne[35] e si riferisce il nome di tre di loro. Qui esse servono Gesù e i Dodici, soprattutto “con i loro beni”. Le donne occupano un posto importante in Luca-Atti. L’autore non rileva la sconvenienza della presenza di queste donne che seguono Gesù e il suo gruppo di uomini. I suoi avversari criticheranno più il fatto che Egli frequenti i peccatori e mangia con loro, che la presenza delle donne nel gruppo itinerante dei suoi discepoli.

TORNA ALL'INDICEi)       La parabola del seminatore (8, 4-10)

La parabola del seminatore costituisce il perno di un discorso di Gesù che ha per tema la Parola. La parabola non intende descrivere la natura della Parola, ma il suo cammino nell’uomo e nella storia. Il protagonista non è il seminatore, che compare all’inizio (“il seminatore uscì a seminare…”) ma subito dopo scompare. Il protagonista è il seme che è il soggetto di tutte le affermazioni. Viene così raccontata la vicenda del seme, non del seminatore. Ma questa storia è raccontata proprio al seminatore, cioè a coloro che annunciano la Parola, non anzitutto a coloro che l’ascoltano. Degli ascoltatori, cioè dei terreni nei quali cade il seme, si parlerà dopo, nella spiegazione, non direttamente nella parabola.

Dalla evidente insistenza sulla sfortuna del contadino (il seme per ben tre volte non frutta e solo una volta, alla fine, frutta!) si intuisce la situazione in cui Gesù ha raccontato la parabola e la comunità successiva l’ha riletta continuamente: una situazione di insuccesso, in cui la fatica del seminatore appare troppe volte inutile e il fallimento della Parola totale o quasi.

Al discepolo predicatore che può sentirsi sfiduciato a causa dei molti insuccessi, la parabola riconosce che gli insuccessi ci sono, anche ripetuti, ma assicura che una parte del seme porterà frutto. Al seminatore è richiesta non soltanto la fede nella verità della parola, ma la fiducia nella sua efficacia.

Nella spiegazione (8, 11-15) che viene data, la parabola sembra cambiare direzione: non più un invito alla fiducia rivolto agli annunciatori del messaggio, ma un avvertimento rivolto a coloro che lo ricevono. La Parola, caduta nel cuore degli uomini, va incontro a vicende diverse. Ci sono uomini che neppure arrivano ad accettarla. Alcuni l’accettano, ma presto l’abbandonano. Altri l’accettano, ma la vita della Parola è in essi perennemente ostacolata, fievole, anemica. Altri, infine, permettono alla Parola di esplodere in tutta la sua vitalità.

Nella spiegazione della parabola Luca non si limita a ripetere ciò che la tradizione (comune a Marco e Matteo) gli offriva, ma la rielabora con leggeri ritocchi. Ad esempio egli sottolinea, a differenza di Matteo e Marco, la quotidianità degli ostacoli all’accoglienza della Parola: non la “persecuzione” (che è sempre un fatto eccezionale), né la “gran sofferenza” (di cui ha parlato Gesù e che avverrà alla fine dei tempi), ma le “prove” comuni, quotidiane (8,16). Evidentemente Luca vive un’esperienza ancora più amara di Matteo e Marco: i credenti defezionano non soltanto di fronte alla persecuzione, ma anche di fronte ai problemi della vita di ogni giorno.

Parabola della lampada (8, 16-18)

Questi detti di Gesù – in origine probabilmente proverbi sparsi – sono qui raccolti da Luca in una sezione che, come si è detto, ha per tema la Parola di Dio. Sembra giusto, perciò, cercare di leggerli in questa prospettiva.

Il primo detto (8,16), sembra un avvertimento rivolto ai cristiani che – o per paura  o perché ritengono inutile farlo – non si espongono pubblicamente. La Parola è pubblica e visibile: nasconderla è un modo di farla morire.

Il secondo detto (8,17) è rivolto a gruppi di cristiani che si chiudono in loro stessi e annunciano la Parola nel segreto, ai soli iniziati, mentre la Parola è per tutti, è missionaria.

Il terzo detto (8,18) afferma che l’ascolto della Parola è la via necessaria per la crescita della fede. Se viene meno, tutto muore.

La vera famiglia di Gesù (8, 19-21)

In Luca questi versetti seguono l’insegnamento in parabole sull’ascolto della parola di Dio. Ha spogliato la pericope di tutti quei tratti che potevano far supporre l’esistenza di un contrasto fra Gesù e la sua famiglia. Nell’atteggiamento dei parenti non c’è nulla di sconcertante, nessuna traccia di incomprensione o di qualsiasi vanto, nulla che suggerisca che i parenti dessero troppo peso alla parentela del sangue. Essi vengono semplicemente per visitarlo, senza alcuna pretesa. Il soggetto che viene posto in risalto è la madre. La venuta dei familiari offre a Gesù l’occasione per pronunciare un detto importante sui veri parenti: l’ascolto fattivo della Parola crea un legame più forte del sangue.

TORNA ALL'INDICEj)      La tempesta sedata (8, 22-25)

Il tema della fede continua ad essere centrale, ma viene affrontato non più in parabole narrate da Gesù ma in quattro racconti di guarigioni che manifestano il potere della sua Parola. In una sorta di crescendo, Gesù salva dal pericolo esterno (vv. 22-25), dal potere del diavolo, dalla malattia e dalla morte.

Alcuni tratti dell’episodio sembrano incredibili. E’ difficile pensare, ad esempio, che un uomo possa dormire mentre il mare è in tempesta e la barca sta per affondare. E’ evidente che agli evangelisti non interessava il preciso fatto storico ma il significato centrale dell’episodio: Gesù è salvezza anche in situazioni disperate.

Nella concezione biblica dominare il mare e la tempesta è prerogativa divina, comandando al vento e al mare Gesù manifesta la sua divinità.

Il rimprovero di Gesù (“dov’è la vostra fede?”) muta la direzione dell’episodio: non verso l’identità di Gesù, ma verso la fede dei discepoli: una fede ancora incerta, priva della forza necessaria per liberare dalla paura anche nelle grandi difficoltà.

La fede matura, invece, è fiducia di chi si sente al sicuro in compagnia del Signore anche se le difficoltà sono grandi ed Egli sembra dormire.

TORNA ALL'INDICEk)    L’indemoniato di Gerasa (8, 26-39)

Il racconto dell’indemoniato è collocato in territorio pagano: la presenza del regno non è chiusa entro i confini di Israele. L’indemoniato geraseno diventa il prototipo dei pagani liberati da Gesù. La lieta notizia della liberazione e la potenza del Signore non hanno confini.

L’indemoniato è descritto come un uomo alienato e asociale, il contrassegno del dominio di satana, infatti, è l’alienazione dell’uomo, la perdita di tutte quelle relazioni che costituiscono l’essere umano nel profondo. Il contrassegno del Regno è la “ricostruzione” dell’uomo.

Davanti all’uomo tornato sano di mente, la folla ha paura, scorgendo in Gesù quasi una minaccia, una presenza che disturba, perché la sua liberazione crea uomini nuovi.

Rifiutato. Gesù accetta di andarsene, senza far nulla per opporvisi. E’ sorprendente: di fronte a Satana, Gesù lotta e vince, di fronte all’opposizione dell’uomo non oppone resistenza. Si direbbe che Egli sia insieme forte e debole: forte di fronte al male, debole di fronte alla libertà dell’uomo.

Il fatto che l’ora dei pagani non sia ancora suonata spiega probabilmente il motivo per cui Gesù non vuole che l’uomo guarito lo segua.

Così Gesù si allontana, ma lascia un testimone, che per tutta la regione racconta ciò che Gesù ha fatto. Gesù parte, neppure il rifiuto riesce ad arrestare il cammino della Parola.

TORNA ALL'INDICEl)       L’emorroissa e la figlia di Giairo  (8, 40-56)

Ancora il tema della fede emerge in questi due miracoli, alla donna Gesù dice: “La tua fede ti ha salvata”, al padre della fanciulla morta dice: “Soltanto abbi fede e sarà salvata”.

Aver fede è riconoscere la propria impotenza e, al tempo stesso, riconoscere che la potenza del Signore può salvare. La fede è il rifiuto di contare su di sé per contare unicamente su Dio.

La legge ebraica dichiarava impura una donna che aveva perdita di sangue, e impuro diventava tutto ciò che essa toccava. Una donna da evitare, dunque. Col gesto di toccare la veste di Gesù, essa chiede la guarigione e Gesù gliela concede strappandola dall'anonimato in cui lei voleva rimanere. Rendendo pubblico il suo gesto, Gesù vuole che si sappia che per lui quella donna non è impura. La donna ha chiesto la guarigione, Gesù le offre anche l’accoglienza, un dono che la donna non avrebbe mai osato chiedere, perché implicava il superamento di una legge ritenuta inviolabile. Chiedendolo, sarebbe stato come invitare Gesù a fare qualcosa di illecito.

Rileggendo l’episodio della risurrezione della figlia di Giairo, ci si accorge che la parola chiave è detta da Gesù: “La bambina non è morta ma dorme”. Per il credente la morte è un sonno in attesa della risurrezione: “Bambina alzati”: egheiro, alzarsi, è il verbo della risurrezione.

Con qualche sorpresa Gesù dice ai parenti della bambina di non raccontare a nessuno l’accaduto (5,56). E’ il segreto messianico, di cui parla molto il vangelo di Marco, ma che è presente, sia pure sommessamente, anche in Luca. Gesù teme di essere frainteso. Non bastano i miracoli per comprendere chi Egli sia. Per capire gli stessi miracoli nel loro vero e profondo significato occorre aspettare la Croce.

Luca non sviluppa il tema del segreto messianico, come invece fa Marco, tuttavia di tanto in tanto lo ricorda al suo lettore (4,34.41).


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m)  Misione dei Dodici (9, 1-6)

In questa sezione costituita dall’intero capitolo 9 si incontrano e camminano insieme due temi principali: Gesù rivela sempre più chiaramente la direzione della sua messianicità e, parallelamente, il discepolo è invitato a capire sempre più che il suo cammino non è separabile da quello del Maestro.

L’invio in missione è preceduto da una chiamata, che suggerisce un andare verso Gesù: “Chiamò a sé i Dodici”. Avvicinarsi a Gesù è il primo movimento della missione: la partenza viene dopo. La potenza e l’autorità sono facoltà ricevute, mai da vantare come proprie (“diede loro”).

Nel semplice verbo “li mandò” (apostello) è racchiusa una triplice consapevolezza. La prima è che la partenza non è frutto di una decisione propria, ma obbedienza a un comando. Il discepolo è coinvolto nella missione che gli viene affidata, ma non è lui il regista. Poi la consapevolezza di uscire da sé, di andare altrove, in posti diversi da quelli in cui ci si trova. Infine la consapevolezza di essere inviati per uno scopo: portare un messaggio lieto e nuovo.

I tre compiti che Gesù addita sono le stesse cose che Lui compie per primo: liberare dal demonio, guarire dalle malattie, annunciare il Regno. Così il discepolo trova in Lui non soltanto la ragione e il contenuto della propria missione, ma anche il modello.

L’equipaggiamento dei missionari deve essere molto sobrio, prendere lo stretto necessario, un discepolo appesantito da troppi bagagli diventa sedentario, conservatore, incapace di cogliere la novità di Dio.

Infine un suggerimento su come comportarsi in caso di rifiuto, che è previsto nell’annuncio: all’apostolo è stato affidato un compito, ma non gli è garantito il successo. Di fronte al rifiuto, si deve comportare come il Maestro: rifiutato in un posto, vada altrove. L’espressione: “Scuotere la polvere”, sottolinea la gravità del rifiuto, l’occasione sprecata, ma nulla più. Il suo compito è di proclamare il messaggio e in esso spendersi completamente, ma deve lasciare a Dio il risultato.

TORNA ALL'INDICEn)    La curiosità di Erode (9, 7-9)

Erode è un uomo colto e pratico, vuole incontrare Gesù e rendersi personalmente conto chi Egli sia. Infatti circolavano molte voci sul suo conto: Giovanni redivivo, Elia, un profeta.

Conoscere Gesù per capirlo è un cammino giusto, ma farlo per curiosità è sbagliato. La fede non nasce dalla curiosità e non è fatta per uomini come Erode.

In effetti Erode incontrerà Gesù più tardi, durante il processo davanti a Pilato, ma non riuscirà a capire nulla di Lui e cercherà di nascondere la propria ottusità ricorrendo a un umorismo volgare: Lc. 23, 6-12 (“sperava di veder qualche miracolo”).


TORNA ALL'INDICED.  IL MINISTERO AL SUO VERTICE (9, 10-50)


Luca porta il ministero galilaico al  culmine dell’intensità con atti o affermazioni di Gesù che delineano il programma del Regno-divenuto-Chiesa:

-         L’Eucarestia: 9, 10-17

-         La professione di fede di Pietro: 9, 18-21

-         Gli annunci della passione: 9, 24.44 ss.

-         La trasfigurazione 9, 28-36

Luca in questa sezione intende perseguire di proposito una unità letteraria e teologica.

TORNA ALL'INDICE1.     La moltiplicazione dei pani (9, 10-17)

I discepoli ritornano dal loro giro missionario e raccontano a Gesù le cose accadute. Hanno sperimentato la potenza della Parola ma anche la fatica e Gesù li prende con sé e li conduce in un luogo appartato. C’è il momento della partenza e il momento del ritorno, della fatica e del riposo. Si lascia la folla per stare insieme e vivere un momento di fraternità e di riposo. Un riposo che, però, non si irrigidisce nelle proprie esigenze, anche legittime, ma si mantiene aperto a un’incondizionata disponibilità. E difatti la folla arriva inaspettatamente e Gesù l’accoglie prontamente, subito disponibile a parlare del Regno di Dio. La Parola è  al primo posto.

La tradizione evangelica ha attribuito al miracolo dei pani e dei pesci molta importanza. E’ infatti il solo miracolo di cui tutti e quattro gli evangelisti hanno conservato il ricordo.

Nella narrazione ci sono alcuni particolari che sottolineano la grandiosità del gesto di Gesù: la folla era di circa 5.000 uomini e dopo che tutti furono saziati avanzarono 12 ceste di cibo.

Tuttavia l’attenzione oltre che sulla potenza di Gesù, va posta anche sul discepolo.

I discepoli vedono la situazione della gente e se ne fanno portavoce: “Congeda la gente perché vada a trovare cibo”. Ma per Gesù questo coinvolgimento non basta: “Dategli voi stessi da mangiare”.

Soltanto se si accetta questo coinvolgimento si può parlare di vangelo. L’attenzione e l’interessamento sono cose importanti ma non sono ancora rivelazione! Gesù non vuole semplicemente sfamare la gente, ma compiere un “segno” rivelatore di come Dio vorrebbe il mondo.

Secondo i discepoli la gente avrebbe dovuto comprarsi da mangiare, per Gesù, invece, il comprare va sostituito con il condividere. Questo significa che devono cambiare le relazioni fra te e gli altri, fra te e le cose. Tu sei responsabile dell’altro e perciò sei personalmente coinvolto nel suo bisogno. Il problema del pane per tutti è problema tuo, non soltanto degli affamati. E le cose che possiedi – fossero soltanto cinque pani e due pesci – sono doni di Dio da godere con gli altri.

C’è, infine, un’ultima osservazione: il luogo deserto, l’accamparsi all’aperto, la suddivisione in gruppi ordinati fanno pensare all’assemblea d’Israele nel deserto.

Come anche alcuni gesti di Gesù come la benedizione, lo spezzare il pane, la distribuzione con l’aiuto dei discepoli, la raccolta degli avanzi fanno pensare alla cena eucaristica.

Ma non si tratta soltanto di una prefigurazione simbolica dell’eucarestia, ma di una vera e profonda rivelazione di Gesù e della sua esistenza. La moltiplicazione dei pani, l’ultima cena, la cena di Emmaus sono i pilastri che manifestano la logica dell’esistenza di Gesù: una vita donata. E’ qui che i discepoli possono continuare a riconoscere il loro Signore e a incontrarlo.

TORNA ALL'INDICE2.     Confessione di Pietro - Primo annuncio della Passione (9, 18-22)

Le opinioni della gente su Gesù già le conosciamo (9, 7-9). Qui vengono semplicemente ribadite. L’errore della gente è di pretendere, di capire Gesù confrontandolo con figure del passato già conosciute. Questa è una strada inadeguata. La strada giusta è di sforzarsi di capire Gesù partendo da Lui stesso, da quanto egli dice e fa.

Interrogato, il discepolo dice che Gesù è il Messia, e questo è giusto. Tuttavia c’è modo e modo di intendere il Messia: quale Messia? Anche la risposta dei discepoli è perciò incompleta e può essere fraintesa. Per questo Gesù “ordinò severamente di non riferirlo a nessuno” (9,21).

Per togliere ogni possibile fraintendimento, Gesù stesso interviene, affermando di essere il Figlio dell’uomo che dovrà soffrire molto, essere rifiutato, ucciso e il terzo giorno risuscitare.

A differenza di Marco 8,26 ss. (“Via da me satana perché, non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”) e Matteo 16,13 ss. (“Beato sei tu Simone perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato”), nel racconto di Luca, non c’è nulla di tutto questo, Pietro non è oggetto né di beatitudine né di rimprovero. Il racconto lucano è dunque meno drammatico, ha però il pregio di concentrare tutta l’attenzione sulla Parola di Gesù, una Parola che coinvolge sia il Maestro che i discepoli sulla medesima via della Croce: “Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire… Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso…”.

Luca non precisa che l’episodio accade nei dintorni di Cesarea di Filippo, ce lo dicono Marco e Matteo. Più importante è ricostruire le circostanze in cui Egli parlò per la prima volta con tanta chiarezza  della sua croce. Siamo sul finire dell’attività pubblica di Gesù in Galilea. L’incomprensione delle folle e, soprattutto, l’opposizione sempre più violenta delle autorità, inducono Gesù a evitare le masse, per concentrare i suoi sforzi sulla formazione del  piccolo gruppo dei discepoli (ma anche questi sono lenti a capire). La strada che gli resta è quella della solitudine e del martirio. Ed è proprio qui che si manifesta tutta la sorprendente novità della scelta di Gesù. In circostanze analoghe (di rifiuto e incomprensione) altri si sono ritirati, isolandosi dagli altri. Non così Gesù, Egli non si separa dal popolo, ma al contrario resta in seno al popolo che lo rifiuta, trasformando il rifiuto che subisce in atto d'amore, segno vivente di quell'incrollabile fedeltà di Dio che mai abbandona l’uomo. E tutto questo è molto significativo proprio per comprendere la Croce di cui Gesù sta parlando.

La via della Croce non è semplicemente il coraggio della solitudine e del martirio, ma è il coraggio di trasformare la solitudine e il martirio, di cui si è vittima, in un gesto di amore. Il popolo è “contro” Gesù, ma Gesù è “per” il popolo. L’essenza della via della Croce sta in questo contro e in questo per.

La Croce, però, non sarebbe la via di Dio (la Croce è una precisa volontà di Dio: il Figlio dell’uomo “deve” soffrire) se non si concludesse con la risurrezione. La via messianica non è semplicemente il martirio (cioè l’amore rifiutato eppure ostinato), ma la risurrezione (cioè l’amore vittorioso). E’ proprio accettando fino alle estreme conseguenze la debolezza dell’amore (Croce) che si permette ad esso di manifestarsi in tutta la sua potenza vittoriosa (risurrezione).

TORNA ALL'INDICE3.     Condizioni per seguire Gesù (9, 23-27)

La passione non è soltanto il destino di Gesù, ma anche del discepolo, al quale viene detto senza mezzi termini di “rinnegare se stesso”. Il rinnegamento di sé è l’atteggiamento del discepolo che, come Cristo, non è più rivolto ai propri interessi ma a quelli degli altri. E’ una scelta che coinvolge tutta la persona e tutta l’esistenza.

“Prendere la Croce” significa avere il coraggio, come Gesù, di trasformare un eventuale rifiuto in gesto d’amore. E’ quanto viene  affermato esplicitamente nelle parole di Gesù: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà…” (9,34). Parole che non devono essere lette come un abbandono delle cose materiali a vantaggio delle realtà spirituali, né come un abbandono della vita presente per possedere quella futura. Vanno lette in modo più globale e unitario: tutta la propria esistenza (materiale e spirituale, presente e futura) deve essere impegnata sulla via dell’amore. L’uomo pensa di salvarsi l’esistenza chiudendosi in se stesso e conservandosi, Gesù, invece, propone al discepolo un progetto contrario: la vita si salva aprendosi e donandosi. Nessun dualismo, dunque, nel pensiero evangelico, né fra materia e spirito, né fra presente e futuro. E’ in gioco la vita nella sua interezza.

Ma l’originalità di Luca sta in due piccole annotazioni, che non devono passare inosservate.

1)     Luca precisa che Gesù si rivolge a tutti. Il progetto della Croce è per tutti e non soltanto per gruppi particolari o per vocazioni scelte.

2)     Al “prendere la Croce” aggiunge ogni giorno. La Croce deve diventare un fatto quotidiano. Né riservato a persone eccezionali né semplicemente da vivere in circostanze straordinarie. Deve, invece, essere vissuto nelle condizioni normali e quotidiane della vita. E’ qui che si misura l’identità  di ciascun cristiano: nella sua capacità di calare la visione evangelica dell’esistenza nel vivere di ogni giorno: in casa, nella professione, negli impegni sociali, nei rapporti umani.

Le parole di Gesù rivolte ai discepoli si concludono con due detti (9, 26-27) che sembrano mutare la prospettiva del discorso. Luca li ha trovati nella tradizione di Marco (8,38-9,1) e li ha riportati con sostanziale fedeltà.

Queste parole mostrano tutta la serietà della scelta che ora si compie: il comportamento che si assume di fronte a Gesù (cioè l’accettazione della Croce) condiziona il futuro.

TORNA ALL'INDICE4.     La Trasfigurazione (9, 28-36)

I tratti del racconto (vocabolario, immagini, riferimenti alle Scritture) fanno parte del genere “epifanico-apocalittico”, vuole, cioè essere una rivelazione rivolta ai discepoli, rivelazione che ha come oggetto il significato profondo e nascosto della persona e dell’opera di Gesù. Questo genere letterario, a cui il nostro racconto appartiene, non intende semplicemente rivelare il futuro, ma pretende anche manifestare il significato profondo che la realtà già ora possiede. Così la trasfigurazione non è soltanto una rivelazione in anticipo della futura risurrezione di Gesù, ma è una rivelazione di ciò che Gesù è già: il Figlio di Dio. L’episodio è una chiave che permette di cogliere la vera natura di Gesù dietro le apparenze che la nascondono.

La trasfigurazione non è soltanto una rivelazione dell’identità profonda di Gesù e della sua opera, ma anche una rivelazione dell’identità del discepolo. La via del discepolo è come quella del Maestro, ugualmente incamminata verso la Croce e la risurrezione.

La risurrezione non è soltanto una realtà futura, ma è già presente e anticipata. La comunione con Dio è già operante. E di tanto e in tanto questa realtà profonda e pasquale, normalmente nascosta, affiora. Nel viaggio della fede non mancano momenti gioiosi, all’interno della fatica dell’esistenza cristiana, occorre saperli scorgere e saperli leggere. Il loro carattere è però fugace e provvisorio, e il discepolo deve imparare ad accontentarsi.

Nel commento al “Vangelo di Marco”, ho ampiamente parlato dell’aspetto esegetico di questo brano, qui mi soffermo solo ad alcune annotazioni.

Luca ha introdotto due importanti modifiche alla tradizione comune:

-         l’accenno alla preghiera di Gesù (“Salì sulla montagna a pregare e mentre pregava…”);

-         l’esplicitazione del contenuto del colloquio che si svolse tra Mosé, Elia e Gesù: (“Parlavano del trapasso (esodo) che egli doveva compiere a Gerusalemme”).

La trasfigurazione per Gesù è un invito a incamminarsi sulla via della croce, che sarà però seguita dalla gloria della risurrezione: un anticipo della gloria, che aiuta a vincere la paura della morte con la forza della preghiera.

TORNA ALL'INDICE5.     Il ragazzo epilettico (9, 37-43a)

Tutti e tre i sinottici riportano, dopo la trasfigurazione, il miracolo della guarigione di un bambino ritenuto posseduto da uno spirito cattivo. La descrizione che ne fa il padre mostra piuttosto che si tratta di un fanciullo colpito da epilessia.

Nella mentalità del tempo era comune l’opinione (alla quale neppure i vangeli si sottraggono) che Satana fosse all’origine di molte malattie, specie di quelle le cui manifestazioni davano l’impressione che l’uomo non fosse più padrone di sé.

Ma a colpire qui il lettore è un altro particolare: i discepoli hanno ricevuto il potere di scacciare i demoni (9,1) e tuttavia alla prima occasione mostrano tutta la loro impotenza. Il motivo è che il potere di liberare dal demonio appartiene sempre a Dio, non all’uomo. Il discepolo può esercitarlo solo nella fede, come qualcosa che appartiene a un Altro e si può chiedere nella preghiera, non come cosa propria. Gesù rimprovera la mancanza di fede del padre, allargando però lo sguardo a “questa generazione incredula e perversa”. L’incredulità non è soltanto del padre ma di tutti, anche dei discepoli, altrimenti avrebbero scacciato lo spirito cattivo dal bambino.

TORNA ALL'INDICE6.     Secondo annuncio della Passione (9, 43b-45)

Gesù annuncia una seconda volta la sua passione soltanto ai discepoli. Comprendere la Croce significa capire il lato più luminoso, nuovo e imprevedibile del volto di Dio rivelato in Gesù. Ma i discepoli “non comprendono”, la solitudine di Gesù è completa, neppure i più intimi sono in grado di condividere il lato più profondo della sua vicenda. La sua “novità” sfugge a tutti. Non capivano – scrive Luca – perché le sue parole erano come coperte da un velo. Le capiranno dopo, alla luce degli eventi e percorrendo essi stessi la strada del Maestro.

Ma non capivano anche perché avevano paura di interrogarlo. Ciò che intravedevano li spaventava. Il destino dei discepoli non è separabile da quello del Maestro: ecco ciò che essi intuivano e ne rimanevano turbati.

TORNA ALL'INDICE7.     Come seguire Gesù (9, 46-50)

Come in concreto il discepolo deve seguire la via della Croce? Luca offre due indicazioni particolari.

1)     La prima (9, 46-48) sta nel mettere al primo posto i “piccoli”. Gesù sogna una comunità di umili e di piccoli. I piccoli sono tutti coloro che non contano, che vengono dopo. Il vangelo non dice che i piccoli sono gli unici che possono appartenere alla comunità, dice però che la comunità deve  prediligerli e avere molta cura di loro, come fa Gesù. Il verbo “accogliere” significa ascoltare, rendersi disponibili, ospitare, porsi al servizio. “Nel suo nome” significa accogliere il piccolo come Gesù lo accoglie e trattarlo con rispetto come se fosse lo stesso Signore. L’annotazione che i discepoli si contendevano il primo posto (9,46), mostra con evidenza che la comunità dei primi discepoli (e certo anche la comunità successiva) non era ideale. Si discuteva già sul problema dei “posti”!

2)     Seguire Gesù significa anche rinunciare a ogni forma di integrismo (9, 49-50). L’esorcista estraneo, che scaccia i demoni nel nome di Gesù pur non appartenendo al suo gruppo, provoca l’indignazione dei discepoli. L’azione liberatrice non dovrebbe manifestarsi solo all’interno del loro gruppo? Si direbbe una preoccupazione in difesa di Gesù. E invece per Gesù, la bontà di Dio agisce anche al di fuori e il discepolo non deve provarne invidia.

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V.               IL RACCONTO DEL VIAGGIO (9,51-19,28)

Qui Luca costruisce la propria cristologia e per esprimere il suo personale pensiero, accantona la sua fonte marciana e ci offre del materiale attinto o alla fonte Q oppure a fonti proprie. Pertanto questa sezione (9,51-19,28) viene denominata: la “grande inserzione lucana” a motivo  di questa connotazione personale. Luca riprenderà la sezione comune con Marco da (18,15-19,28).

La sezione suddetta è delimitata dai due versetti, molto lucani, che costituiscono il suo inizio (9,519 e la sua fine (19,28). Il titolo più appropriato è: “Verso Gerusalemme” ed è detto esplicitamente nel versetto iniziale. Inoltre Luca ripete più volte che Gesù procede verso Gerusalemme (13,22.23; 17,11; 18,31; 19,11; 19,28) o più in generale, che è “in viaggio” (9,57; 10,38, 14,25; 18,37, 19,1).

La tradizione del quarto vangelo conosce molte salite di Gesù a Gerusalemme. In Marco la salita occupa un solo capitolo, due in Matteo e ben dieci in Luca.

Luca, però, non è preoccupato di offrire un quadro geografico preciso, ma vuole dare una prospettiva teologica a questa salita. Il viaggio verso Gerusalemme è un viaggio verso la  Croce, che però non è separata dalla risurrezione.

Tutti gli insegnamenti inseriti in questo quadro della partenza di Gesù vanno letti nella prospettiva della morte/risurrezione. Si tratta in gran parte di materiale lucano che vogliono rispondere a una sola domanda: che cosa significa in concreto seguire Gesù nel suo cammino verso la croce?

TORNA ALL'INDICEa)    Il rifiuto dei Samaritani  (9, 51-56)

Luca ha iniziato il racconto della missione pubblica di Gesù in Galilea con il rifiuto degli abitanti di Nazareth (4, 16-30). Ora introduce il viaggio verso Gerusalemme ponendo ancora un altro rifiuto: quello dei samaritani. Sembra che Luca voglia porre tutta l’attività di Gesù sotto il segno del contrasto e del rifiuto.

L’inimicizia fra giudei e samaritani era di lunghissima data. Sargon II aveva conquistato Samaria, capitale del Nord nel 722 a.C. Secondo il costume politico degli Assiri, egli aveva deportato gli abitanti del luogo sostituendoli con popolazioni straniere. Si parla di questo in 2 Re 17,24ss: “Il re di Assiria fece venire gente da Babilonia, Chuta, Avva, Camat, e Sefarvàim: fece dimorare tutta questa gente nella regione di Samaria al posto dei figli d’Israele. Presero possesso di Samaria e abitarono nelle loro città”.

I nuovi arrivati, secondo il costume dell’epoca, accettarono il Signore, il Dio venerato da Israele, ma nello stesso tempo continuarono ad adorare i loro idoli (2 Re 17, 34-41).

L’ostilità trova dunque la sua ragione nella diversità di razza e nel sincretismo religioso. Gli avvenimenti successivi non hanno fatto altro che accrescere questa ostilità già esistente.

I giudei nel 538 a.C. tornano dall’esilio babilonese e i samaritani offrirono il loro aiuto per la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, ma Zorobabele, Giosuè e gli altri capi dei giudei risposero sdegnosamente: “Non c’è nulla tra voi e noi perché edifichiate una casa per il nostro Dio; noi soli dobbiamo edificarla per il Signore Dio d’Israele, come ci ha comandato Ciro, re di Persia” (Esdra 4,3).

Infine l’ostilità fu totale quando i samaritani costruirono un loro tempio sul monte Garizim nel 325 a.C.

Dopo questa doverosa nota storica, torniamo ora al nostro racconto.

Chiedendo ai discepoli di preparare la sua venuta in un villaggio di samaritani, Gesù rompe l’ostilità giudaica nei confronti di questo popolo dal sangue misto, che aveva il Pentateuco come Sacra Scrittura, ma il culto locale del Garizim costituiva una sfida permanente per il tempio di Gerusalemme.

Qui i samaritani rifiutano non tanto la persona di Gesù, quanto piuttosto Gerusalemme, conclusione del suo viaggio. E Gesù parlerà bene di samaritani, come rivelano la parabola del samaritano e l’episodio del lebbroso samaritano che torna a ringraziare Gesù.

I discepoli, invece, vorrebbero il castigo come ai tempi di Elia (2 Re 1, 10-14), il quale per essere riconosciuta la sua missione di uomo di Dio, aveva fatto scendere il fuoco dal cielo che aveva divorato un centinaio di uomini mandati ad arrestarlo.

Ma Gesù non è venuto per essere il vigoroso riformatore dei costumi atteso dal Battista (3, 16-18). E se “rimproverò” i discepoli è perché essi non comprendevano assolutamente nulla della sua missione (annuncio del rifiuto: 9,22) e del suo insegnamento (amore verso i nemici: 6,29).

Un ultimo particolare: Gesù non è rifiutato direttamente, ma nei suoi messaggeri, mandati avanti a preparargli un posto. Non è difficile scorgere in questo un’esperienza della chiesa, che vedeva rifiutati i propri missionari che annunciavano l’arrivo di Cristo. Il rifiuto è un’esperienza della chiesa, non solo di Gesù.

TORNA ALL'INDICEb)    La radicalità della sequela (9, 57-62)

Al rifiuto dei samaritani seguono tre parole di Gesù sulla sequela, parole che colpiscono per la loro particolare radicalità.

Mentre andavano per la strada”: già sappiamo che è la strada verso Gerusalemme, verso la Croce. E’ questo precisa il “dovunque tu vada”. Gesù ha una meta precisa, dalla quale non si lascia distrarre.

Gesù non ha fissa dimora perché la sua missione è universale e non può fermarsi in nessun posto.

Il secondo breve dialogo fra Gesù e l’uomo invitato alla sequela, è certamente il più paradossale. Seppellire i propri morti era considerato un dovere essenziale, di fronte al quale anche le pratiche religiose passavano in seconda linea: “Chi si trova davanti a un suo parente morto è dispensato dalla recita dello schemà, dalla preghiera delle diciotto benedizioni e da tutti i precetti nominati dalla “torah”. Ma per Gesù l’annuncio del Regno viene prima di tutto, senza eccezione, viene anche prima delle legge.

Un altro sconosciuto è disposto a seguire Gesù, ma chiede il tempo di salutare quelli di casa. La metafora di Gesù (“Nessuno che ha messo mano all’aratro…”) sta a significare che la sequela non sopporta rinvii, né distrazioni, né uscite di sicurezza. Si è soliti qui fare un confronto con la vocazione di Eliseo (1 Re 19,20). Il confronto sottolinea la radicalità della chiamata di Gesù, per il quale non ci sono se e ma. Eliseo va prima a salutare i suoi di casa, il discepolo di Gesù no. Seguire Gesù è più che seguire Elia.

TORNA ALL'INDICEc)     Missione dei settantadue discepoli (10, 1-12)

Accanto all’invio in missione dei dodici apostoli (episodio riportato anche da Marco e Matteo). Luca riporta anche un secondo episodio che invece gli è proprio: l’invio in missione dei settantadue discepoli. L’intenzione è di mostrare che la missione non è unicamente affidata allo stretto gruppo degli apostoli, ma anche alla cerchia più vasta dei discepoli. Il compito di annunciare Cristo rientra nella vocazione cristiana di ogni battezzato e deve estendersi a tutta la terra: il numero settantadue richiama la tradizione giudaica che riteneva che le nazioni della terra fossero, appunto, settantadue.

L’evangelista introduce l’episodio collegandolo ai detti sulla sequela: “Li mandò a due a due…”. La missione suppone un invio e di questo il missionario (in questo caso, ogni cristiano) deve essere consapevole che ha ricevuto un incarico che deve portare a compimento con fedeltà e nei termini stabiliti.

Nel concetto di inviare c’è anche l’idea del viaggio, della partenza, della dispersione: “Andate!”. Non sono i popoli che devono incamminarsi verso i discepoli, ma i discepoli che devono correre verso i popoli. Questo modo di pensare la missione accentua fortemente l’idea di universalità e di servizio.

Ma quali sono i comportamenti e i sentimenti che Gesù pretende dai suoi missionari?

1)     Anzitutto, la consapevolezza dell’urgenza e della vastità del compito: “La messe è molta…”. Da questa consapevolezza sgorga la necessità della preghiera: “Pregate il padrone della messe…”. L’urgenza e la vastità del compito sono sottolineate anche da un altro avvertimento: “Per via non salutate nessuno”. Non c’è tempo per conversazioni inutili, per cose secondarie. Il discepolo si concentra tutto sull’essenziale e non ha tempo da perdere.

2)     Il secondo atteggiamento suggerito è la povertà: “non portate né borsa né bisaccia…”. Si tratta di una libertà indispensabile perché la purezza del vangelo sia salvata ed è il modo di vivere che rende credibile il vangelo stesso. Mostra, infatti, davanti al tutti, la fiducia che il missionario ha nel Padre.

3)     Infine, terzo atteggiamento, la consapevolezza e l’accettazione di una situazione di sproporzione: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. Lo scontro col mondo non è ad armi pari, ma il cristiano deve avere fede nella Parola che annuncia, anche se questa sembra inadeguata al compito. Spesso è la mancanza di fede che impedisce alla Parola di manifestare la forza di Dio che essa nasconde.

Nella conclusione del discorso di Gesù (10, 10-12) compare il tema del giudizio e del rifiuto, due situazioni che riflettono le molteplice esperienze di ostilità e rifiuto fatte dalle comunità missionarie nelle città giudaiche prime e in quelle pagane poi. Ma sono parole che insistono nuovamente sul tema dell’urgenza: né il successo né il fallimento possono trattenere il missionario. Anche Gesù fu respinto dai samaritani. L’espressione “scuotere la polvere” è un richiamo all’urgenza e all’unicità dell’evento: è l’ultimo appello.

TORNA ALL'INDICEd)    Le città impenitenti (10, 13-16)

Al discorso missionario seguono due detti di Gesù, che in origine erano certamente separati, ma che qui trovano una eccellente collocazione. Essi sottolineano, riferendosi non più ai missionari ma a chi ascolta il loro annuncio, la necessità dell’ascolto con fede e l’urgenza della conversione.

Corazin, Betsaida e Cafarnao sono le tre città nelle quali Gesù ha portato avanti la sua attività con maggiore intensità. I loro abitanti hanno udito l’annuncio e hanno visto i miracoli, ma non si sono convertiti, mentre Tiro e Sidone, città pagane, avrebbero accettato il vangelo. Il giudizio su Cafarnao è poi particolarmente severo. Citando Isaia 14, 13-15 – un testo ironico sulla caduta del re di Babilonia – Gesù accusa la città di essere arrogante e idolatra come Babilonia.

Per chiudere il discorso, Gesù si rivolge nuovamente ai missionari ricordando loro un principio del giudaismo rabbinico: “L’inviato di un uomo è come se fosse lui stesso”. Ascoltare l’inviato, cioè accogliere il suo insegnamento e metterlo in pratica (6,47), è come ascoltare Gesù in persona, che a sua volta è l’inviato del Padre. Allo stesso modo, contrastare l’inviato è in definitiva opporsi al disegno salvifico di Dio stesso.

TORNA ALL'INDICEe)     Il ritorno dei settantadue (10, 17-24)

Gli inviati riferiscono al Signore il loro successo negli esorcismi. Il potere di guarigione che Dio ha dato a suo Figlio, si è dimostrato efficace in loro quando hanno invocato il nome di Gesù (cf. At 3,6).

Gesù esprime in modo simbolico la propria convinzione che gli esorcismi testimoniano l’impero del male crolla. E ne esporrà i motivi in 11,20: il regno di Dio sta sopraggiungendo e occupa il posto di Satana. Ormai i discepoli possono confrontarsi senza timore con le diverse manifestazioni del male, poiché esse sono sottomesse a un potere che proviene da Gesù stesso.

Ma il vero motivo della gioia dei rappresentanti di Gesù non va cercato però nel loro potere sulle forze infernali, ma nel fatto che Dio ha scritto i loro nomi nel libro della vita che non avrà fine.

Pieno di gioia per la venuta del regno testimoniata dagli esorcismi, Gesù pronuncia allora un rendimento di grazie al Padre, che si rivela ai “piccoli”.

Quando Gesù parlava, l’espressione “i sapienti e gli intelligenti” designava le élites religiose di Israele, rabbini e farisei che restavano ciechi di fronte all’annuncio di Gesù. I “piccoli”, invece, erano gli uomini senza cultura, senza competenza religiosa.

Infine Gesù si rivolge ai discepoli (“volgendosi ai discepoli, in disparte”), i quali devono essere consapevoli della fortuna che li ha raggiunti, cioè la fortuna di vedere la vittoria sul male (la caduta di satana), la fortuna di essere chiamati alla conoscenza del Padre e del Figlio e la fortuna di constatare che le valutazioni di Dio capovolgono le valutazioni degli uomini.

TORNA ALL'INDICEf)      Il buon samaritano (10, 25-37)

Il tema del discepolato continua con un quesito posto da un dottore della legge che chiede a Gesù cosa debba fare per avere la vita eterna. La risposta di Gesù indica quale dovrebbe essere la condotta del vero discepolo.

Le due direzioni dell’amore – a Dio e al prossimo – si toccano profondamente, ma non al punto da far scomparire la differenza. La misura dell’amore di Dio è la totalità, la misura dell’amore del prossimo è “come te stesso”. Anche nell’amore Dio resta Dio e il prossimo resta il prossimo.

La scriba ha risposto bene perché si è riferito a un testo del Deuteronomio (6,5) e a un testo del Levitico (19,18), ma il Dottore della legge desidera che il concetto di “prossimo” sia ulteriormente precisato perché vuole essere sicuro di ottenere la vita eterna.

Nella parabola, un sacerdote e un levita, evitano di soccorrere il ferito, non tanto per durezza di cuore, quanto piuttosto per il desiderio di mantenere la propria purezza cultuale. Era infatti prescritto – ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio – di mantenersi puri, e il sangue contaminava. Ma Gesù fa intendere che il culto non deve essere a scapito della carità e la purezza che Dio vuole è la purezza dal peccato, dall’ingiustizia, non dal sangue di un ferito. E’ chiaro che Gesù non intende negare il valore del culto e della preghiera, ma vuole semplicemente ricordare che occorre stare attenti che il culto non distragga dai doveri dell’amore e della giustizia.

Come modello Gesù non prende un fariseo osservante ma un samaritano disprezzato. Nella parabola nulla è detto del ferito: non viene evidenziata la sua identità, ma il suo bisogno. Il “prossimo” è qualsiasi bisognoso che ti capita di incontrare, anche uno sconosciuto. Questa universalità della nozione di prossimo ha il suo fondamento nell’intero vangelo e cioè nell’universalità dell’amore di Dio. Il problema non è tanto quello di chiedersi chi sia il mio prossimo, quanto piuttosto quello di farsi prossimo di chiunque si incontra sulla propria strada.

TORNA ALL'INDICEg)    Marta e Maria (10, 38-42)

Luca ha collocato questo episodio subito dopo la parabola del samaritano per illustrare le due facce dell’unico comandamento: l’amore per il prossimo e l’amore per il Signore. Nei confronti del prossimo il servizio e la carità, nei confronti del Signore l’ascolto e il discepolato.

Le parole con le quali Gesù risponde a Marta ricordano che il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l’ascolto. Il servizio della tavola non è più importante dell’ascolto della Parola, come suggerisce anche un passo degli Atti degli Apostoli (6, 1-2).

Affannarsi e agitarsi è l’atteggiamento dei pagani (12,29), non perché è pagano l’oggetto della ricerca (in questo caso Dio e il prossimo), ma è pagano il modo di cercare: affannoso, inquieto, agitato.

La ragione di tanta agitazione sono le “troppe cose” (10,41), la tensione, cioè tra il troppo e l’essenziale, il secondario e il necessario. Il troppo è sempre a scapito dell’essenziale. Le troppe cose impediscono non soltanto l’ascolto, ma anche il vero servizio. Fare molto è segno di amore, ma può anche far morire l’amore. L’ospitalità ha bisogno di compagnia, non soltanto di cose. Perfino il troppo “dare”, anche per amore, rischia di togliere spazio elle relazioni.

TORNA ALL'INDICEh)    Il Padre Nostro  (11, 1-13)

E’ l’esempio di Gesù che fa nascere nei discepoli il desiderio di pregare e Luca facendo scaturire la preghiera del discepolo da quella di Gesù, vuole ricordarci che la nostra preghiera deve assomigliare a quella di Cristo.

Il Padre nostro è soprattutto la preghiera del discepolo (“Quando pregate dite”), cioè di colui che ha lasciato tutto per seguire Gesù e ha fatto del Regno l’unica ragione della sua esistenza. Questa preghiera non è una formula fissa da trasmettere con fedeltà letteraria, ma atteggiamento interiore di povertà e dipendenza.

“Padre”: nella sua brevità (Matteo aggiunge invece “nostro” e “che sei nei cieli”) Luca indica che la preghiera del discepolo ha lo stesso tono e la stessa confidenza di quella di Gesù. L’invocazione “Padre” – priva di ogni altro aggettivo – è infatti tipica sulle labbra di Gesù: esprime la sua filiazione (22,42; 23, 34.36). Il discepolo deve pregare in unione a Cristo, in qualità di figlio. Sta proprio in questo rapporto di figliolanza l’originalità cristiana (Gal 4,6; Rm 8,15).

“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”: il verbo è al passivo, secondo l’uso ebraico ciò significa che il protagonista è Dio, non l’uomo. La preghiera è semplicemente un atteggiamento che fa spazio all’azione di Dio. L’espressione “santificare il nome” deve essere letta alla luce dell’Antico Testamento, in particolare di Ez 36, 22-29. Non indica un riconoscimento generico di Dio, ma un permettere a Dio di svelare il suo volto nella storia della salvezza e nella vita della comunità. Il discepolo prega perché la comunità diventi un segno trasparente che lascia scorgere la presenza di Dio. Per capire la seconda invocazione (“venga il tuo regno”) bisogna rifarsi a tutta la predicazione di Gesù. Il Regno di Dio ha una presenza oggi e ha, allo stesso tempo, un compimento alla fine. L’uso dell’aoristo (“venga”) sta a indicare che qui si ha di mira lo stadio ultimo (escatologico) del Regno. Il discepolo chiede e aspetta tutto questo come un dono ma insieme chiede il coraggio di costruirlo.

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: il verbo (“dacci”) è all’imperativo presente e indica un’azione ripetuta, giorno per giorno. C’è qui un riferimento alla manna, il pane del cielo che aveva rifocillato il popolo di Dio durante l’esodo, ma i giudei si aspettavano un nuovo pane offerto come nutrimento alla comunità degli ultimi tempi.

“Perdonaci i nostri peccati”: Luca ha cambiato il termine “debito” che ai greci non sarebbe apparso nel suo significato religioso, con il termine “peccato”. Ma ha conservato però il termine “debito” per indicare il perdono al prossimo ( qui il termine “debito” è carico di significato concreto: bisogna condonare anche i debiti, non solo le offese morali). Il perdono di Dio precede il nostro, si modella sul suo e ne è la risposta.

“Non lasciarci soccombere nella tentazione”:  di quale tentazione si parla? In Luca questo termine “peirasmos” orienta in tre direzioni:

a)     La tentazione di Gesù nel deserto (4, 1-11) che secondo Luca è il tipo delle   tentazioni della chiesa: la continua scelta tra il servizio, la debolezza della croce, e la ricerca della sicurezza umana.

b)    Le tentazioni che la comunità credente incontrerà nel tempo della passione e della persecuzione, del dubbio e del turbamento (cfr. 22,28). Gesù ha pregato perché i discepoli non abbiano a soccombere: ma è necessario, a differenza di Pietro, che il discepolo non sia presuntuoso.

c)     Infine tentazione è tutto ciò che può appesantire il cuore del discepolo così che la Parola viene in esso soffocata: tentazioni sono le prove quotidiane che, alla lunga, logorano il coraggio iniziale (8, 13-14). Il discepolo chiede di essere liberato da tutto questo. Non chiede di essere esente dalla tentazione, ma di essere aiutato a superarla.

La parabola successiva (11, 9-13) indirizzata ai discepoli (“E disse loro”), fa parte di una più ampia catechesi sulla preghiera, il cui centro è costituito dal Padre nostro. La conclusione che Gesù trae dalla parabola è la certezza di essere esauditi. Come è certo che quell’amico, per una ragione o per l’altra, finirà con l’alzarsi, così è certo che Dio ascolta chi lo prega.

A questo punto, però, sorge una domanda che Luca avverte nella sua catechesi: se è vero che l’ascolto è certo, perché l’uomo non ottiene da Dio ciò che gli chiede? L’evangelista risponde che Dio ascolta sempre, ma a modo suo.

I paragoni a cui Gesù ricorre per illustrare questo concetto sono sorprendenti e catturano l’attenzione: l’uomo è come un bambino che a volte non sa quello che chiede, e Dio è come un padre che non concede sempre al figlio ciò che questi gli domanda: gli dà soltanto ciò che sa essergli utile.

C’è però un dono che Dio non nega mai: lo Spirito Santo (11,13).

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i)       Gesù e Beelzebul (11, 14-28)

Il racconto si apre con un esorcismo, qui non viene ricordato alcun particolare e alla rapidità della guarigione propriamente detta segue una reazione diversificata dei presenti. E’ dalla folla, ormai divisa, che l’ostilità emerge per la prima volta. Alcuni accusano Gesù di magia, mentre altri vogliono metterlo alla prova esigendo da lui dei “segni”. Gesù replicherà immediatamente all’accusa di magia, mentre per la richiesta del segno occorrerà aspettare 11,29 (il segno di Giona).

L’originalità degli esorcismi di Gesù sta nell’espressione “dito di Dio”, che nell’A.T. ha la sua origine in Es 8,15 e indica l’intervento concreto e diretto di Dio sul mondo. La prova suprema che dimostra che Gesù non agisce in nome di Satana è che la sua predicazione si riferisce al regno di Dio. L’ultima prova viene offerta sotto forma di una parabola che dimostra la vittoria di Gesù su Satana (vv. 21-22). Quest’ultimo è “l’uomo forte” che fa la guardia alla sua casa e al suo regno, ma c’è uno “più forte” che sconfigge – con i suoi esorcismi – i suoi fanatici seguaci (i demoni).

Non tutti la pensano come i farisei. Una donna del popolo, colpita dal gesto di Gesù, è entusiasta e grida forte la propria ammirazione  (11, 27-28). E’ un’ammirazione che si esprime in modi tipicamente femminili, e nasce dalla capacità di intuire la bellezza e l’orgoglio di essere madre di un simile figlio. Gesù, però, corregge quell’entusiasmo: non è la parentela fisica che conta, ma unicamente l’adesione di fede, l’ascolto e l’osservanza della Parola.

TORNA ALL'INDICEj)      La richiesta di un segno (11, 29-36)

Abbiamo visto che qualcuno cercava dei segni (11,16), evidentemente diversi e più convincenti di quelli offerti da Gesù. Il segno di Giona, diversamente dall’interpretazione che ne dà Mt 12,40 (il segno di Giona è la risurrezione: come Giona fu liberato dopo tre giorni dal pesce, così il Cristo sarà liberato dopo tre giorni dalla morte), in Luca questo “segno” non è altro che l’appello alla conversione lanciato da Giona ai Niniviti, uno dei popoli pagani più crudeli dell’antichità, e che raggiunge in pieno il suo obiettivo quando il re, gli uomini e anche gli animali fecero penitenza digiunando e coprendosi di sacco. Anche “questa generazione” non avrà altro segno che il Figlio dell’uomo e la sua predicazione, l’unico segno, quindi, è l’invito alla conversione.

Anche la regina del mezzogiorno è venuta da lontano per ascoltare la parola di Salomone, il re famoso per la sua sapienza, invece “questa generazione” rifiuta Gesù che è più sapiente di Salomone. Per questo i Niniviti e la regina del mezzogiorno sorgeranno, nel giorno del giudizio, ad accusare “questa generazione”.

Nasce un interrogativo: come mai questa generazione rifiuta la luce?  (11, 33-36). La colpa, dice Gesù, non è della lampada, perché essa illumina e nessuno la compra per nasconderla ma perché faccia luce, in altre parole, la colpa non è di Dio e del suo messia. La colpa è dell’occhio immerso nelle tenebre, se l’ascoltatore al quale Gesù si rivolge rifiuta la luce del Vangelo, tutto il suo essere è nelle tenebre.

TORNA ALL'INDICEk)    Contro Scribi e Farisei (11, 37-54)

Questa è una delle pagine più severe di tutto il Nuovo Testamento, paragonabile in parte al cap. 23 del Vangelo di Matteo. Si tratta indubbiamente di detti pronunciati da Gesù in contesti diversi, raccolti qui la Luca e collocati nel contesto di un pranzo a casa di un fariseo.

- In primo luogo (11, 39-42) Gesù rimprovera ai farisei l’ipocrisia, che confonde il rigorismo minuzioso dell’osservanza del dato secondario ed esteriore con l’autentica fedeltà a Dio. Ci sono due forme di ipocrisia che Gesù rimprovera: l’osservanza della purezza esteriore a scapito del profondo rinnovamento interiore, e l’osservanza dei precetti marginali a scapito dell’amore di Dio. Non è questione di pulire il piatto, ma, secondo una delle traduzioni possibili, di donare ai poveri quanto vi è contenuto. Non dare, cioè ai poveri il superfluo, ma quello che c’è dentro il piatto, cioè tutto.

- In secondo luogo (11, 43-44) Gesù rimprovera ai farisei la vanità. Ed è appunto per vanità che essi, ipocritamente, curano l’esterno e trascurano l’interno: puliti fuori e sporchi dentro.

- A questo punto uno studioso della legge decide di intervenire: tu insulti anche     noi (1,45). Egli si sente coinvolto e a ragione: gli scribi erano i maestri della teologia e della spiritualità, le guide spirituali del popolo e degli stessi farisei. I rimproveri rivolti ai farisei valgono a maggior ragione per loro. Ma contro di loro si aggiungono altri rimproveri: l’incoerenza tra ciò che pretendono dagli altri e ciò che pretendono da sé: severi con gli altri e indulgenti con se stessi.

- Un altro rimprovero (11, 47-51): gli scribi innalzavano monumenti ai profeti e si ritenevano per questo diversi dai loro padri che invece li avevano uccisi. Ma è tutto ipocrisia: al tempo di Gesù, infatti, gli scribi veneravano i profeti solo perché costoro erano lontani. Se i profeti fossero stati presenti li avrebbero uccisi, prova è il fatto che uccideranno Gesù, profeta scomodo.

- Un ultimo rimprovero (11,52): la cavillosità nella speculazione teologica e      nell’interpretazione della morale. Si tratta di un difetto che porta a due sfasature: innanzitutto rende complicata l’osservanza della legge, turbando in tal modo la coscienza dei semplici (li carica di pesi insopportabili); insegna poi a mettere in pace la coscienza, salvando lo schema della legge e tradendone la sostanza.

TORNA ALL'INDICEl)       Il lievito dei Farisei (12, 1-12)

Gesù mette in guardia i discepoli dal “lievito dei farisei che è l’ipocrisia”. E’ un aggancio al brano precedente. Ma a parte l’avvertimento, il tema di fondo di queste parole rivolte al discepolo è il coraggio: bisogna avere il coraggio di parlare chiaro, di proclamare apertamente il messaggio di Gesù, di non avere mai vergogna di Lui di fronte agli uomini.

All’invito al coraggio si uniscono i motivi che devono sostenere tale coraggio: la certezza che gli uomini nulla possono fare per toglierci la “vita”; la certezza che la persecuzione è un’occasione in cui lo Spirito di Dio si fa presente con la sua luce e con la sua forza; la certezza del premio futuro.

Si noti la contrapposizione tra il discepolo che difende ora Gesù davanti al tribunale degli uomini e Gesù che, a sua volta, difenderà un giorno il suo discepolo davanti al tribunale di Dio (12, 8-9).

Circa il peccato contro lo Spirito Santo (12,10) non è detto esplicitamente di quale preciso peccato si tratti, ma è certo che si tratta di un peccato voluto, consapevole , lucido, scelto al punto da capovolgere le prove a favore di Gesù in ragioni contrarie. E’ il rifiuto della verità ad occhi aperti.

TORNA ALL'INDICEm)  La parabola del ricco stolto (12, 13-31)

Gesù rifiuta il ruolo di mediatore tra due fratelli che vogliono dividere l’eredità, perché ambedue sono vittime della stessa illusione, ed è questa la radice cattiva che deve essere strappata: “Tenetevi lontano da ogni avidità…”. Ecco la stortura di fondo che guida la vita di ambedue i fratelli e li spinge a litigare. Gesù non parla semplicemente di possesso, ma di desiderio smodato. Non è la ricerca del necessario che è sbagliata, ma l’egoistico e sciocco desiderio di possedere sempre di più, e l’illusione di trovare in questo possesso la propria sicurezza.

L’insegnamento di Gesù è già chiaro da queste parole, tuttavia egli insiste su questa argomento, illustrando la parabola del ricco “stolto”. Sembra che Gesù abbia trasformato in parabola un detto sapienziale (Sir 11, 18-19). Ma la parabola di Gesù non si limita a costatare la vanità delle cose e non intende disincantare l’uomo liberandolo dal fascino del possesso. Indica più profondamente la vera via della liberazione: “Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce per Dio”. Ma che significa in concreto arricchire “per Dio?”. Nel greco l’espressione è un moto a luogo (“verso Dio”) e indica perciò una direzione. Dunque non si tratta di arricchire a vantaggio di Dio, ma di usare i beni secondo una logica da Lui voluta.

L’evangelista si è preoccupato di rendere concreta la parabola, e per questo ha situato qui alcuni insegnamenti del Signore (12,22) allo scopo, appunto, di esemplificare il significato di quel “per Dio”. I suggerimenti sono almeno tre.

1)     Il primo è di sottrarsi alla tentazione dell’affanno, dell’ansia, come se tutto dipendesse da noi. Si tratta di una vera mancanza di fede, nella quale anche il discepolo può facilmente incorrere. Nella ricerca della “sicurezza”, il discepolo deve essere consapevole di “avere un Padre che conosce i suoi bisogni” (12,30). L’atteggiamento ansioso appartiene ai pagani, non ai discepoli.

2)     Il secondo suggerimento è di cercare anzitutto il regno di Dio (12,31). Se si pone al primo posto il Regno, resta spazio anche per le altre cose. La fiducia nel Padre apre la possibilità per una vita serena, che permette di godere dei beni che Egli ha profuso nel mondo. Una vita affannata accumula le cose, ma non le gode.

3)    Il terzo suggerimento lo si trova più avanti (12,33): “Vendete le cose che possedete e usate il ricavato per soccorrere i poveri”. Il retto uso dei beni deve fare spazio alla solidarietà. E così il “per Dio” trova la sua concretezza nel “per gli altri”.

TORNA ALL'INDICEn)    Vigilanza e fedeltà (12, 32-48)

Dopo le direttive sull’uso dei beni, la parole che Luca ha qui raccolte entrano  più direttamente sul tema della vigilanza, che non è un elenco di cose da fare, ma una tensione dello spirito, un orientamento di fondo nei confronti delle situazioni della vita.

Al “piccolo gregge” Gesù rivolge tre inviti.

1)     Il primo è quello di eliminare ogni forma di ansia e di paura. “Non aver paura”. Vigilanza sì, fortezza e impegno, ma tutto in un clima di fiducia e tranquillità. Perché ciò che è più importante è già al sicuro: il Padre vostro si è compiaciuto di darvi il regno” (12,32b).

2)     Il secondo invito è quello di non cadere nella spirale del possesso, ma condividere i propri beni con i poveri: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina” (12,33). E’ questa la vera ricchezza che non viene meno, a differenza di quel possedere sempre di più di cui parlava la parabola del ricco stolto.

3)     Infine un terzo invito, il più importante: orientare il proprio cuore verso il giusto tesoro (12,34). Che voglia o no l’uomo ha bisogno di un tesoro per il quale orientare tutte le scelte: l’importante è che questo tesoro sia al posto giusto, tale da non deludere. Un simile tesoro non può essere che Dio stesso “dove i ladri non arrivano e la ruggine non consuma”.

Il passo evangelico sulla vigilanza prosegue (12, 35-40) con alcuni esempi:

a)     la cintura ai fianchi, ricorda l’uso dei lavoratori che sollevavano e ripiegavano le lunghe vesti orientali sotto la cintura per avere più scioltezza nei movimenti e per camminare meglio. Ma i “fianchi cinti” ricordano anche la cena pasquale: “Lo mangerete con i fianchi cinti, i calzari ai piedi…” (Es 12,11). L’immagine indica l’atteggiamento pellegrinante e vigile del popolo di Dio, la sobrietà (1 Pt 1,13) e la libertà nei confronti di quelle realtà che ingombrano lo spirito e rendono sedentari, a scapito della speranza. Essa non è solo attesa dell’aldilà, ma anche capacità di trasformare le cose di quaggiù: la speranza è essere in cammino.

b)    Il ladro che viene all’improvviso. Luca non ha qui di mira il problema della morte, il fatto, cioè, che la vita di ciascuno può fermarsi all’improvviso, e quindi bisogna essere sempre pronti. L’evangelista sta pensando, invece, alla presenza del regno nella storia, alle occasioni di salvezza che il Signore offre ogni giorno. Soltanto chi è vigile è nella possibilità di scorgerle e valutarle, i distratti, i superficiali, invece, giudicano irrilevanti queste occasioni.

a)     L’amministratore fedele (12, 41-48). Il tema della vigilanza viene arricchito di un nuovo atteggiamento: la fedeltà nell’amministrazione dei beni del padrone, il senso di responsabilità, qualità richieste in proporzione della conoscenza che ciascuno ha del padrone: più grande è la conoscenza, più grande deve essere la responsabilità. La fedeltà e la responsabilità sono soprattutto richieste ai credenti.

b)    Il fuoco, la pioggia e il vento (12, 49-59). In questo passo sono visibili diversi tratti tipici dell’apocalittica: il fuoco della terra, la divisione all’interno delle famiglie, il discernimento dei segni dei tempi. Ma ancora una volta Luca non pensa alla crisi finale, ma all’oggi della storia. Il “d’ora innanzi” di 12,52 non lascia dubbi. Il fuoco simboleggia la divisione fra gli uomini, la lotta che il cristiano e la chiesa devono sostenere. La venuta di Gesù e il suo messaggio si scontrano contro tutto ciò che è nemico di Dio e obbliga gli uomini a pronunciarsi pro o contro. La lotta è tanto radicale che penetra nelle stesse famiglie. Il vangelo non può essere soggetto a compromessi. Non è neutrale. Gesù conclude, con un po’ di ironia,  rimproverando le folle ponendo una domanda: come mai sapete interpretare i segni atmosferici e non sapere interpretare “questo tempo”, cioè  le realtà profonde e decisive della storia e della vita? Si tratta di questo tempo presente, non un lontano futuro. E non si tratta di un tempo speciale accanto a quello ordinario, né una storia speciale accanto a quella ordinaria, ma la qualità che ha assunto il tempo che scorre (il krònos) con la venuta di Gesù. Infatti con la sua continua presenza (il kairòs ) nella vita e nella storia dell’uomo, anche il tempo ordinario diventa “straordinario”. Questa è la mancanza di discernimento delle folle. 

TORNA ALL'INDICEo)    Il fico sterile (13, 1-9)

L’ultima esortazione di questa sezione è un appello alla penitenza e un richiamo alle conseguenze della mancanza di pentimento.

Mentre Gesù stava parlando, qualcuno lo mise al corrente di una notizia sconvolgente: un gruppo di giudei, probabilmente rivoluzionari zeloti, sono stati massacrati da Pilato mentre stavano compiendo il sacrificio. Nel ricordo di tutti è ancora viva un’altra disgrazia: diciotto operai che lavoravano per il tempio furono seppelliti sotto il crollo di una torre. La gente ragionava così: se Dio li ha castigati, vuol dire che essi erano peccatori. Ma questo non è il modo di interpretare gli eventi. Quegli uomini, afferma Gesù, non erano peggiori degli altri, tutti sono peccatori e devono convertirsi prima che nella loro vita sopraggiunga il giudizio di Dio. E la parabola del fico sterile ha lo scopo di precisare la minaccia del giudizio imminente e il conseguente appello al cambiamento. Il tempo che si prolunga è un segno di misericordia, non assenza di giudizio. Il tempo si prolunga per permetterci di approfittarne, non per giustificare il rimando o l’indifferenza. Il tempo è decisivo, non perché breve, ma perché carico di occasioni decisive, qualunque sia la sua durata. Questa parabola è raccontata per noi, oggi.

TORNA ALL'INDICEp)    Guarigione di un’inferma e parabole del regno (13, 10-30)

Questo miracolo ha molti tratti in comune con la guarigione dell’uomo che aveva la mano paralizzata, già letto nel contesto delle controversie galilaiche (6, 6-11). È un giorno di sabato, Gesù sta insegnando nella sinagoga e guarisce di sua iniziativa la persona ammalata. Lo sdegno del capo della sinagoga è per Gesù ipocrisia profonda, perché si svuota alla radice proprio ciò che si dice di voler celebrare. L’osservanza del sabato non è forse la memoria della liberazione di Israele dalla schiavitù del Faraone? E allora perché si ritiene che liberare una persona da una situazione di schiavitù sia, al contrario, una violazione del sabato? Compiere un gesto di liberazione è la vera celebrazione del sabato, non la sua violazione!

Strettamente collegate a quanto precede, Luca introduce qui due parabole: il granello di senapa e il lievito, entrambe hanno come tema, il regno di Dio.

Luca legge la parabola quando la chiesa è già in espansione e osserva, meravigliato, gli umili inizi del grande albero: chi avrebbe potuto prevederlo?

Quando, invece, Gesù raccontava la parabola c’era soltanto il piccolo seme e il pizzico di lievito: due cose tanto piccole ma con grande potenzialità: la forza del Regno di Dio. Quella di Gesù era dunque una lezione di fiducia, di coraggio, e di speranza.

Ma le parabole sono anche un invito all’impegno, un ultimo richiamo all’importanza della situazione presente: è importante questa occasione, questo incontro. L’umiltà della situazione non deve divenire motivo di trascuratezza e di rifiuto. Non si tratta di rifiutare cose banali (come, appunto, la piccolezza esteriore potrebbe suggerire), ma di rifiutare occasioni dalle conseguenze incalcolabili.

Al tempo di Gesù, nelle scuole di teologia, si svolgeva un dibattito su chi si sarebbe salvato: alcuni rabbini sostenevano che tutto Israele si sarebbe salvato, e ciò in forza della fedeltà di Dio, che non può abbandonare il suo popolo. Altri più rigorosi sostenevano che solo pochi si sarebbero salvati. Ma Gesù, interrogato sull’argomento, non risponde e non si interessa a questo dialogo teologico. A lui non interessa il numero, ma togliere la falsa sicurezza derivante da un’errata concezione dell’appartenenza al Signore. La salvezza non è un fatto scontato per nessuno. L’imperativo che usa: “sforzatevi” e l’immagine che l’accompagna: “la porta stretta”, stanno a significare che non c’è tempo da perdere e che non bisogna arrivare in ritardo. Il padrone di casa, una volta chiusa la porta e iniziata la festa, non apre più a nessuno, nemmeno agli amici e non serve dire: “hai mangiato con noi…”. Dunque nessuna sicurezza ma vigilanza, fiducia e anche un po’ di serenità perché ci riconosciamo indegni di meritare un così grande dono: la salvezza.

Il popolo di Dio può rimanere tagliato fuori dal banchetto messianico (13,28). Non è sufficiente la parentela con il Signore, non basta l’appartenenza alla stirpe di Abramo. Gesù descrive il Regno alla maniera giudaica, secondo l’immagine del festino messianico (Is 25,6, Lc 14,5.16-24; 22,16.18-30) in cui gli eletti sono radunati accanto ai patriarchi. Ma ciò che dà diritto a stare con i patriarchi non è la comunanza del sangue, ma la fede. E’ facile scorgere dietro tutto questo la constatazione dei primi cristiani che videro passare il regno dagli Ebrei ai pagani.

L’avvertimento di Gesù termina con una frase che nel vangelo ricorre altre volte, quasi fosse un riassunto di molti insegnamenti: “Alcuni degli ultimi saranno i primi…”. Questo detto afferma con forza e chiarezza che l’annuncio del vangelo porta con sé il sovvertimento dei vecchi criteri di valutazione. Molti di quelli che si credevano sicuramente ammessi al banchetto, si vedranno esclusi; altri (come ad esempio i pagani) verranno dall’oriente e dall’occidente e saranno ammessi. I criteri di Dio sono diversi da quelli dell’uomo, non bisogna giudicare la situazione degli altri, ma ognuno deve rispondere di sé stesso a Dio.


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q)    Ostilità di Erode (13, 31-35)

Gesù sta attraversando il territorio di Erode, che è una volpe, un uomo furbo, ma anche un uomo vile. Egli crede di sbarazzarsi di Gesù con l’astuzia, così come aveva fatto con Giovanni Battista. Ma Gesù va in Giudea non perché l’ha stabilito Erode, ma perché rientra nel piano di Dio: come tutti i profeti Gesù deve morire a Gerusalemme. Il cammino di Gesù non dipende da Erode né da nessun altro: è guidato da una divina necessità: “E’ necessario”.

Più avanti Luca ricorderà che Gesù ha pianto su Gerusalemme (19, 41-449. Qui, invece, dopo aver detto che la città lo avrebbe rifiutato e ucciso, afferma tre cose.

-         La prima è che il suo rifiuto non è un fatto isolato, ma inserito in una lunga storia di incomprensioni, di tradimenti e di assassini dei profeti. Gesù legge il suo martirio alla luce del martirio dei profeti.

-         La seconda cosa è che il suo rifiuto non è uno qualsiasi, ma il più decisivo. Per questo la condanna sarà più severa: la città di Dio resterà abbandonata. C’è qui un riferimento a Ger. 22,5.

-         La terza affermazione ricorda che non c’è soltanto l’ostinazione del rifiuto, ma anche l’ostinazione dell’amore del Signore, più premuroso dell’amore di una chioccia che protegge i suoi pulcini sotto le sue ali. La Croce di Gesù è, da una parte, il culmine del rifiuto, ma è al tempo stesso, il culmine dell’amore.

TORNA ALL'INDICEr)     Banchetto lucano (14, 1-24)

Luca organizza del materiale eterogeneo con un’unità esterna ed interna. Per quanto concerne l’unità interna, tutti gli episodi o narrazioni gravitano attorno a un banchetto. L’unità esterna, invece, è puramente redazionale, sempre imperniata sul banchetto. Luca collega la varie parti anche mediante una progressione cronologica artificiosa: essi entrano per mangiare (v. 1); scelgono i loro posti a tavola (v. 7); per un pranzo o una cena (v. 12); per una cena (v. 16). In tutto ciò, Luca segue le norme dello stile greco classico.

Questa sezione inizia con la guarigione di un idropico in giorno di sabato. L’episodio accade nella casa di un fariseo e Luca è il solo evangelista che racconta la presenza di Gesù a pranzo dai farisei (cfr. 7,36). Questo sta a significare che non tutti i farisei erano avversari di Gesù, come a volte si pensa. Questi incontri, tuttavia, non erano mai privi di tensione, come appunto mostra questo stesso episodio (14, 1-6). Le due domande poste da Gesù ai dottori e ai farisei tendono a smascherare la loro ipocrisia: è più importante un uomo o un asino? A una domanda così lucida non si può controbattere: o ci si arrende accettandone la verità, o ci si chiude in un silenzio ostile, tanto più ostile quanto più ci si accorge che l’avversario ha ragione: “Ed essi non seppero come replicare a questi argomenti”.

Nel secondo episodio del banchetto lucano (14, 7-11), Gesù non intende dare una lezione di galateo, ma prendendo lo spunto dalle buone maniere della tavola egli trae conclusioni concernenti il Regno di Dio: la partecipazione al banchetto dipende da un invito da parte di Dio, che invita coloro che riconoscono la loro umile condizione e il loro bisogno di salvezza.

Il consiglio che Gesù dà al padrone di casa (14, 12-14), è rivoluzionario, contrario a tutti gli usi abituali. Luca enumera, come invitati, tutte le categorie di emarginati: questo è il comportamento nuovo. Di fronte a Dio nessuno è emarginato, ma ciascuno è prossimo.

Nell’ultimo episodio: la parabola del grande banchetto (14, 15-24), Gesù invita tutti a entrare nel Regno di Dio. C’è chi rifiuta (scribi e farisei) e c’è chi accetta (peccatori ed emarginati). Gli invitati rifiutano ritenendo di avere cose più importanti da fare, come: aver cura dei propri affari, del lavoro e della famiglia, si tratta di occupazioni plausibili, persino doverose. Ma anche queste occupazioni doverose, se si assolutizzano, distraggono dall’accoglienza del regno: questo è il forte avvertimento della parabola. Nulla viene prima del regno di Dio e nulla è più importante: il padrone non attende, se gli uomini non rispondono subito al suo invito, egli occupa subito i loro posti con altre persone.

TORNA ALL'INDICEs)     Appello alla rinuncia (14, 25-35)

Non siamo più nella casa del fariseo durante un pranzo, ma sulla strada e Gesù non parla più a scribi e farisei, ma alla folla “che andava con Lui”.

Come appare dalle parole di apertura (14,26) e di chiusura (14,33), il tema è la “condizione necessaria per essere discepolo”.

Non è certamente un tema nuovo, ma è trattato con una forza e una radicalità che è difficile trovare altrove. La radicalità è un tratto caratteristico di Luca, ma un secondo tratto, tipicamente lucano, è lo sforzo di calare il messaggio di Gesù nel quotidiano.

Gesù invita il discepolo a rompere tutti i legami familiari, a rompere perfino il legame con se stesso (14,26).

L’inquietante invito di Gesù era senza dubbio, in origine, rivolto ai discepoli missionari itineranti, i quali, concretamente, dovevano abbandonare tutto per annunciare dovunque l’arrivo del regno. Matteo si mantiene in questa linea, collocando il detto nel discorso missionario, ma la comunità ha poi inteso questo detto come rivolto a tutti: è una condizione di ogni discepolo, non solo del missionario itinerante. E’ in questa seconda prospettiva che si pone Luca: l’invito è rivolto alle folle (14,25), cioè a tutti. Luca è più minuzioso nell’elencare i legami da rompere: non solo, come Matteo, i genitori e i figli, ma anche i fratelli, la moglie e perfino se stessi.

Anche le parabole che seguono (della torre e del re) devono essere lette nel contesto delle condizioni per seguire Gesù, cioè nel contesto della rinuncia: la sequela non è fatta per i superficiali, per gli irriflessivi e per i presuntuosi.

La conclusione (“così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo”) è probabilmente redazionale, costruita da Luca come conclusione delle due parabole e dell’intera pericope. Solo nel distacco dai beni è possibile essere discepoli, è possibile il dono totale (finire la torre e vincere l’esercito nemico).

Il paragone del sale (14, 34-35) – che sembra apparire qui all’improvviso – è in realtà una conclusione indovinata: non si può essere discepoli a metà. Se il discepolo non si dona nella sua completezza, è come il sale che perde sapore: non serve a nulla.

TORNA ALL'INDICEt)      Le tre parabole della misericordia (15, 1-32)

In questo capitolo Luca presenta tre parabole che hanno in comune la nota della misericordia divina verso i peccatori, egli ci offre in tal modo l’intima natura, il perfetto esempio della buona notizia: il vangelo nel vangelo. Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro e questo gli procura critiche e mormorazioni. E’ questo uno dei punti di costante tensione fra Gesù e i suoi avversari, come tutto il vangelo testimonia. Un primo esempio lo abbiamo già trovato in 5, 29-32 (la chiamata di Levi).

L’annotazione introduttiva alle tre parabole del capitolo 15 ricorda che l’accoglienza dei peccatori era un comportamento abituale di Gesù, come suggeriscono i verbi all’imperfetto: “Si facevano vicini a lui tutti i pubblicani e i peccatori”. Ma si tratta di un comportamento che spesso irrita i giusti: non soltanto quelli del tempo di Gesù (“scribi e farisei mormoravano”), ma anche i cristiani successivi, come Luca spesso ricorda negli Atti degli Apostoli (11,13). Non è che i farisei escludessero definitivamente i peccatori, volevano però che il comportamento di Dio nei loro confronti fosse severo e che, di conseguenza, i peccatori per ritornare nella comunità dovessero pagare un prezzo di penitenza, di opere e di osservanze. Non accettavano dunque il comportamento benevolo di Gesù, che rivela il vero volto del Padre, che attende i peccatori, li cerca e gioisce del loro ritorno. Ma a volte i “giusti” hanno invidia di questa misericordia di Dio e ne restano irritati: vorrebbero un altro tipo di padre, più severo, più giudice, meno padre.

In tutte e tre le parabole viene messa in evidenza la gioia di Dio per la conversione del peccatore.

1)     Nella conclusione della prima si legge: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza”.

2)     Nella conclusione della seconda: “C’è gioia davanti a Dio per un solo peccatore che si converte”.

3)     Nella terza parabola manca la parola gioia, però si parla di festa: “Facciamo festa, poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita”.

Dunque l’attenzione delle parabole si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore, non sull’azione del peccatore che si converte. Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare, il discorso è teologico non morale. La novità della rivelazione evangelica riguarda in primo luogo il comportamento di Dio (un Dio che cerca il peccatore e gioisce del suo ritrovamento), non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo.

TORNA ALL'INDICEIl pastore e la pecora

La parabola della moneta perduta e ritrovata (15, 8-10) è meno importante delle altre due: ripete semplicemente la prima, non aggiungendovi nulla. Diverso è invece il caso della parabola del pastore e della pecora (15, 4-7). Pastore e gregge sono un tema classico dell’AT. Il ritrovamento della pecora smarrita è un tratto abituale della salvezza: Mi 4, 6-7; Ez 34, 11-16, Ger 23, 1-4. Dio è il pastore che si oppone ai capi del popolo che sono “cattivi” pastori: cercano e difendono se stessi anziché servire il gregge e avere compassione di coloro che si smarriscono.

Questa parabola, oltre allo sfondo veterotestamentario, ha anche un parallelo in Matteo (18, 12-24), la cui prospettiva, però, è molto diversa. Matteo non inserisce la parabola in una polemica con i farisei, ma all’interno di una regola di comportamento per la comunità. Non insiste particolarmente sulla gioia del ritrovamento, ma sulla ricerca da parte del pastore. Così il punto di vista di Matteo si chiarisce: un invito alla comunità ecclesiale, e in particolare ai suoi responsabili, perché vadano alla ricerca degli smarriti, imitando in questo il Signore Gesù. Luca, invece, come già abbiamo detto, racconta la gioia di Dio nel ritrovare la pecora.

TORNA ALL'INDICEIl Padre e i due figli

Da qualunque angolatura si guarda la parabola del Padre e dei due figli (15, 11-32), ci si accorge che al centro c’è sempre la figura del padre, che dà unità all’intera narrazione. Il punto su cui la parabola concentra l’attenzione è come Dio si pone di fronte ai due figli – il peccatore e il giusto – e come i due figli si pongono davanti a Lui. In ambedue i casi, c’è un netto contrasto; qui sta la novità della teologia di Gesù. E’ in gioco il vecchio e il nuovo, il vino e gli otri, non c’è spazio per alcun rattoppo.

L’attenzione, dunque, indugia sulla figura del padre. Egli non cessa di amare il figlio che si è allontanato e continua ad attenderlo. A lui non interessa che il figlio gli abbia dissipato il patrimonio. Ciò che lo addolora è che il figlio sia lontano, a disagio. Quando il figlio ritorna, il padre gli corre incontro e gioisce del suo ritorno; quel figlio deve subito capire che nulla è cambiato nei suoi confronti: è un figlio, come sempre e quella casa è la sua casa. E’ questo il vero volto di Dio, il volto di un padre e basta, che Gesù ha inteso rivelare con la sua incondizionata accoglienza dei peccatori.

Il figlio minore esce di casa non perché ha bisogno di lavoro (il padre è ricco, ha campi e braccianti), ma perché vuole organizzarsi una vita indipendente. Lo stare in casa gli pesa come una schiavitù. Un vero padre è amore, ma è sempre anche  legge. E questo può a volte insinuare nei figli che egli sia un padrone, anziché un padre. Il peccato del figlio non è la vita libertina condotta lontano da casa. Questa è la conseguenza di un peccato precedente e più profondo, il peccato di pensare alla casa come a una prigione, la presenza del padre come ingombrante e mortificante e l’allontanamento dal padre come libertà. Questo è il vero peccato, la radice di tutte le infedeltà.

Ma è proprio con la partenza da casa che inizia la degradazione: una vita disordinata, poi la fame, poi il servizio presso un padrone pagano, poi l’umiliazione di pascolare i porci. Questo disagio del figlio peccatore non è un castigo inflitto dal padre (o da Dio), ma è una situazione in cui il figlio stesso si è posto. Un disagio che serve per risvegliare la sua coscienza e difatti il cammino di ritorno inizia con un mutamento interiore. Questo figlio non conosce ancora suo padre: è convinto di aver perso l’amore del padre e che debba di nuovo meritarselo lavorando come un servo. E invece il padre non ha mai smesso di amarlo, e quando il figlio gli chiede perdono, non lo lascia neppure parlare: il suo amore è prima del pentimento del figlio. Il padre è completamente diverso da come il figlio immaginava. La veste più bella, l’anello al dito, i calzari sono tutti segni dell’essere figlio. Il padre glieli offre prontamente, ma non per dirgli: sei di nuovo mio figlio, ma per dirgli: lo sei sempre stato.

Il figlio maggiore, anziché godere della gioia del padre, ne prova irritazione. La gioiosa accoglienza riservata al fratello minore gli dà l’amara sensazione che la sua fedeltà di rimanere in casa sia del tutto sprecata. Se il peccatore è trattato in quel modo, a che serve essere giusti? Questo figlio giusto e osservante non conosce suo padre e ragiona come se la fedeltà fosse un peso e la compagnia del padre una fatica. Assomiglia agli scribi e farisei che mormoravano perché Gesù accoglieva i peccatori.

Lo stesso amore che ha spinto il padre a correre incontro al figlio minore, lo spinge ora a uscire e a pregare il figlio maggiore di lasciar perdere le proprie rimostranze e di far festa insieme. Il padre vorrebbe riunire i due figli, unendoli a sé e tra di loro. Vorrebbe che scoprissero la sua paternità e la loro fraternità. Così è Dio.

Il figlio maggiore si è lasciato convincere? E’ entrato in casa a far festa? Non lo sappiamo. La conversione del giusto è, a volte, più difficile di quella del peccatore.

TORNA ALL'INDICEu)    Il cristiano e la ricchezza (16, 1-31)

In tutto il capitolo 16 – ad eccezione di una parabola sulla legge (16, 16-17) e di una parola sul divorzio (16,18) – Luca sviluppa il tema dell’uso cristiano della ricchezza. Non è il denaro che è di per sé negativo, ma l’accumulo della ricchezza. Il denaro ha due facce, una positiva e una negativa. È nato per servire l’uomo, ma ha la tendenza a trasformarsi in padrone.

TORNA ALL'INDICE- Il fattore astuto (16, 1-18)

La parabola dell’amministratore scaltro ha sempre suscitato perplessità in molti lettori: possibile che il vangelo presenti un uomo disonesto come un modello da cui imparare? In effetti da una lettura più attenta le cose non stanno proprio così. Difatti Gesù non approva la falsificazione dei conti, ma l’elogio si riferisce alla “scaltrezza” e all’accortezza del comportamento, non alla disonestà. Si tratta di un’esortazione  che suggerisce ai discepoli come usare il denaro: con accortezza e nella prospettiva del regno. Se l’amministratore disonesto ha saputo servirsi delle ricchezze di questo mondo per farsi degli amici e provvedere così al suo futuro su questa terra, quanto più il cristiano deve pensare al suo avvenire eterno adoperando i suoi beni per aiutare quelli più poveri di lui, in modo che essi lo accolgono un giorno nel regno futuro (14,14).

Considerare il denaro come un mezzo e non come un fine vuol dire dimostrarsi scaltri. La ricchezza è “ingiusta”, ingannatrice perché può essere idolatrata e paragonata ai beni del regno futuro che sono veri ed eterni. Il regno del denaro avrà una fine… Alla disonestà che qualificava l’amministratore e il denaro, la parabola oppone la fedeltà richiesta giorno per giorno per amministrare sia i beni spirituali che quelli materiali.

Ma qui vengono improvvisamente introdotti come ascoltatori anche i farisei. E quanto si dice di loro è una sferzante ironia: “I farisei amavano il denaro”. Diversamente da Gesù, essi pensavano che i due servizi – al Signore e al denaro – potessero coesistere. Per molti di loro la ricchezza era il premio delle persone giuste, la povertà, il castigo dei peccatori. Ragionando in questo modo, si poteva servire Dio e il denaro. Tanto più che, secondo i farisei, si dà gloria a Dio con le osservanze e con le offerte al tempio. Per Gesù, invece, la gloria di Dio consiste nel mettersi a servizio dei fratelli.

Seguono poi tre detti indipendenti di Gesù (vv. 16-18) raggruppati qui sotto la parola-richiamo “legge”. Non è facile capire perché Luca le abbia inserite qui. In Mt 11,12 questo detto ha un contesto tutto diverso: rientra nel commento di Gesù su Giovanni il Battista.

Nel primo detto, Luca vede tre periodi della storia della salvezza: la legge e i profeti, Giovanni Battista e il Regno di Dio nella presenza di Gesù. Ma chi sono coloro i quali vogliono penetrarvi a forza? Forse si allude alla rottura violenta con se stessi e con l’ambiente e al radicalismo già illustrato attraverso l’esempio del fattore astuto.

Il secondo detto asserisce che la legge nel suo spirito autentico viene completata sotto ogni aspetto in Gesù, che non abolisce la legge antica, ma ne esprime il senso più profondo.

Il terzo detto è sul divorzio. Luca a differenza di Marco (10,11), non accenna ad alcuna eccezione sul divorzio.

TORNA ALL'INDICE- Il ricco e Lazzaro (16, 19-31)

In questo racconto riportato solo da Luca, Gesù si rivolge ai farisei, i quali pensavano di essere giusti solo perché osservavano meticolosamente la legge (11,37). Nella parabola c’è un duplice contrasto, al primo: il ricco e il povero, ne segue un secondo: il ricco all’inferno e Lazzaro nel regno di Abramo. Il primo elemento saliente della parabola è proprio questo capovolgimento: Dio giudica diversamente da noi e la storia va a finire diversamente da come i furbi immaginano. Aggiungiamo che, con ogni probabilità, viene qui contestata una convinzione diffusa in quel tempo: la ricchezza è segno della benevolenza di Dio. La parabola vuole, invece, insegnare che Dio è dalla parte dei più poveri e degli abbandonati.

Ma il racconto parabolico non si ferma qui. Segue un secondo quadro, nel quale è detto qualcosa di molto importante. Il ricco vorrebbe che i suoi fratelli fossero avvertiti della sua situazione, ma a quale scopo? Hanno Mosé, i profeti, non occorre altro. Gli insegnamenti non mancano, ciò che invece manca è il coraggio, la fede, ma soprattutto la libertà per vedere e comprendere. Chi vive da ricco è cieco e non vede il povero che pure gli sta accanto. Il ricco della parabola non osteggia Dio e non opprime il povero: semplicemente non lo vede. Ma proprio questo è il grave pericolo: il vivere da ricchi rende ciechi e indifferenti.

TORNA ALL'INDICEv)     Lo scandalo, il perdono, e la fede (17, 1-10)

Nelle sue istruzioni ai discepoli e alle folle che lo seguono lungo la strada, Gesù ha ripetutamente parlato delle dure esigenze che comporta il seguirlo. Le possiamo riassumere in due affermazioni: “Chi non preferisce me al padre, alla madre, alla moglie e ai figli, ai fratelli e alle sorelle e perfino alla propria vita non può essere mio discepolo” (14,26); e poi l’altra: “Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (14,33).

Ora il discorso verte sulle condizioni che rendono possibile la sequela: la fede e l’umiltà. Non è più il discepolo sulla scena ma l’intera comunità.

Lo scandalo (17, 1-3) nel vocabolario biblico non è semplicemente un cattivo esempio morale, ma un ostacolo al regno, un inciampo, qualsiasi cosa in grado di ostacolare la totale adesione a Gesù e al suo messaggio. La chiesa deve essere per tutti, soprattutto per i “piccoli”[36], un ambiente che faciliti la fede, non che la ostacoli. La severa condanna di Gesù è rivolta a quanti, all’interno o all’esterno, tentano di ostacolare la fede. Ma, soprattutto, è condannabile lo scandalo all’interno della comunità. Che la logica del mondo cerchi di ridurre la credibilità del vangelo è ovvio, ma cosa pensare quando lo scandalo viene da coloro che si vantano di essere testimoni di Cristo?

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Il perdono (17, 3b-4) è necessario alla vita della comunità, come è necessaria anche la correzione. Ma deve trattarsi di una correzione fatta con discrezione. Luca ama sottolineare che Gesù è colui che perdona: alla donna peccatrice (7,48) e a coloro che lo crocifissero (23,34). Il saper perdonare è – secondo Luca – il distintivo del cristiano, la vera differenza tra il cristiano  e il pagano.

Dopo aver affermato la profonda verità del perdono, occorre onestamente ammettere che il problema non è così semplice, perché il perdono sembra spesso entrare in conflitto con altre esigenze non meno importanti, per esempio l’esigenza della giustizia, il ristabilimento della verità, la lotta per la conquista della libertà o per la difesa degli oppressi. Del resto lo stesso Gesù che ha insegnato e praticato il perdono, non ha esitato – in certe occasioni – a rimproverare e minacciare: “Razze di vipere… sepolcri imbiancati… guai a voi ricchi…”.

Dunque, il vangelo parla di perdono ma sa anche che la sua pratica non è senza problemi. Come conciliare il perdono con l’esigenza della verità e della giustizia? Come perdonare e insieme correggere? La risposta, ovviamente, va cercata nel concreto, caso per caso: un compito che impegna la coscienza e il discernimento di ciascuno. Ma almeno tre indicazioni sono evangelicamente chiare:

1)     La prima è che la disponibilità al perdono deve essere la base di fondo, il quadro irrinunciabile entro cui collocare ogni altro atteggiamento, pur legittimo e doveroso. C’è chi cerca nell’odio la forza per lottare in favore della giustizia, dei diritti legittimi, degli oppressi e c’è chi, invece, la cerca nell’amore. Solo il secondo può dirsi cristiano.

2)     La seconda indicazione è che si deve nutrire profonda avversione per l’errore e l’ingiustizia, ma non per gli uomini: un conto è l’errore, un conto l’uomo; un conto il peccato, un conto il peccatore.

3)     La terza è che il perdono evangelico è amore, non un lasciar correre. Anzi il perdono è amore esigente. E’ donato per cambiare, per convertirsi, non per lasciare le cose come stanno. Tale è infatti il perdono di Dio: denuncia del male e nello stesso tempo offerta di una possibilità di cambiamento, esattamente come ha detto Gesù alla peccatrice: “Va” (ecco l’offerta di una nuova possibilità) e “non peccare più” (ecco un imperativo che è insieme denuncia e fiducia).

La fede (17, 5-6) è, quindi, necessaria per mettere in pratica le esigenze di Gesù. Non è certamente questo l’unico passo in cui si parla della fede. Luca ne parla con una certa frequenza, specialmente nei racconti di miracoli. Nella guarigione del paralitico (5,20), alla peccatrice in casa di Simone (7,50), all’emorroissa (8,48), al lebbroso straniero (17,19), al cieco di Gerico (18,42).

Gli interventi salvifici di Gesù sono sempre legati alla fede. E che tipo di fede bisogna avere? Anche se Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, è chiaro che non è la fede dell’uomo che salva, ma la potenza di Dio. La fede però ne è la condizione, senza la fede anche la potenza di Dio si annulla. Perché? Perché aver fede significa riconoscere la nostra impotenza e, nello stesso tempo porre tutta la fiducia nella potenza del Signore. La fede è il rifiuto di contare su di sé per contare unicamente sul Signore.  E’ questo lo spazio interiore necessario che il Signore vuole per donarci la salvezza e il coraggio di seguirlo. Ma se la fede è tutto questo, allora è anche chiaro che non è qualcosa che possiamo ricavare da noi o costruire da soli: anche la fede è, a sua volta, un dono. E non resta perciò che chiederla, come hanno fatto i discepoli: “Signore aumenta la nostra fede”. Lo ha fatto Gesù stesso nei confronti di Pietro: “Simone, ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno” (22,32).

All’insegnamento sulla fede segue ora una parabola (17, 7-10), esclusiva di Luca.  Indirizzata agli apostoli (v.5), questa parabola avverte i capi della Chiesa che essi non possono mai fermarsi e riposarsi nella convinzione di avere già lavorato abbastanza. Questa piccola parabola, non intende descriverci il comportamento di Dio verso l’uomo, ma indicarci come deve essere il comportamento dell’uomo verso Dio: totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti. Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: tanto di lavoro e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno. Dopo una giornata piena di lavoro, non dire “ho finito” e non accampare diritti. Non vantartene e non fare confronti con gli altri, ma dì semplicemente: ho fatto il mio dovere, sono soltanto un servo.

TORNA ALL'INDICEw)  I dieci lebbrosi (17, 11-19)

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e, ogni tanto, Luca si preoccupa di ricordarcelo (17,11). I dieci lebbrosi che incontrano Gesù si mostrano rispettosi della legge: si fermano infatti “a distanza” e “alzano la voce” (Lev. 13,46). Anche Gesù si mostra rispettoso della legge e li invia dai sacerdoti per farsi rilasciare il certificato della guarigione (Lev. 11,2-3). Contrariamente alla mentalità diffusa del suo tempo, Gesù non considera i lebbrosi come dei maledetti, degli impuri da evitare o come dei peccatori castigati, ma li accoglie e li guarisce, per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbono fermarsi a distanza.

C’è un altro punto che bisogna sottolineare: i lebbrosi sono inviati ai sacerdoti prima ancora di essere guariti: “Appena Gesù li vide disse: Andate a presentarvi ai sacerdoti”, e mentre essi andavano furono sanati”. Con questa annotazione l’evangelista vuole sottolineare l’abbandono fiducioso di quei lebbrosi. Hanno pregato Gesù (“Gesù maestro abbi pietà di noi”) con tanta fiducia e poi obbediscono prima di vedere i frutti della loro preghiera, così la guarigione sembra un dono per la loro fiducia in Gesù. Questo insegnamento è comune a tutti i miracoli ma il nostro racconto lo sottolinea in modo esplicito.

Ma la lezione principale del miracolo è un’altra: un samaritano torna indietro per ringraziare Gesù. Questo samaritano è chiamato “straniero” da Gesù, cioè di “altra razza”, di “altra religione”. E’ proprio lui si ricorda di “dar gloria a Dio”, un privilegio questo, che molti giudei pensavano spettasse solo al loro popolo. Così un samaritano fa sfigurare i giudei. Non è l’unica volta che Luca sottolinea questo motivo: una prima volta Gesù si è meravigliato della fede di un pagano (7,9); un’altra volta, nella parabola, ha presentato un samaritano come modello di carità generosa (10,34) e non invece un sacerdote e un levita. Nei due casi lo straniero – che per la mentalità corrente era un miscredente – è presentato come un modello di fede e di amore. A volte i lontani sono più disponibili dei vicini.

Un’ultima riflessione: il samaritano, tornando indietro e ringraziando Gesù, ha capito qualcosa del suo mistero, ha intuito che il dono è giunto attraverso il suo incontro. Anche gli altri nove hanno avuto fiducia, ma non ancora vera fede, anche gli altri nove sono stati guariti, ma solo il samaritano è dichiarato “salvato”. Un conto è la guarigione e un conto è la salvezza. La salvezza evangelica avviene solo quando il cuore si apre alla conoscenza di Cristo, una conoscenza che rinnova e pone in cammino: “Alzati e va’”.

TORNA ALL'INDICEx)     Il giorno del Figlio dell’uomo (17, 20-37)

Tutto il brano è una raccolta di parole escatologiche del Signore, riunite da Luca intorno al tema del “giorno del Figlio dell’uomo”. Luca è molto interessato ai problemi riguardanti il ritorno del Signore. La domanda di partenza è introdotta dai farisei: “Quando verrà il Regno di Dio?”. Ma poi tutto il discorso è rivolto ai discepoli (17,22.37). Luca è convinto che si tratti di parole del Signore che riguardano soprattutto i cristiani. E’ frequente la tentazione e la curiosità di localizzare l’avvento di Dio nel tempo e nello spazio. Gli impazienti si interrogano spesso sul quando, sul dove e sul come. La prima preoccupazione dell’evangelista è che l’attesa del Signore non degeneri in speculazioni, fantasie e impazienze (17, 20-24). La venuta del Signore sarà un evento prevedibile e osservabile, e questo perché il Regno di Dio è già in mezzo a noi ed è di natura diversa (17, 20-22).

Previsioni e profezie (eccolo qui, eccolo là) sono sogni che non vanno inseguiti. Il Signore tornerà all’improvviso, come un lampo. Quando verrà sarà chiaro e tutti lo vedranno. Non servono indagini.

Il problema importante è un altro: capire che il Figlio dell’uomo (e con lui il discepolo) prima deve soffrire (17,25). Attendere il Signore significa seguirlo sulla via di Gerusalemme, non smarrirsi nella ricerca di segni premonitori.

Ciò che conta è essere pronti, non distrarsi, non lasciarsi sorprendere. Può accadere anche oggi quanto è avvenuto al tempo di Noè e di Lot: distratti dalla vita, gli uomini non sanno cogliere il momento propizio per la salvezza (17, 26-30).

A questo punto Gesù accumula paragoni vivacissimi (17, 31-36) per indicare la venuta improvvisa del giudizio e la sua radicalità. Non ci sarà neppure il tempo di entrare in casa e di tornare dal campo. E sarà un giudizio severo: “L’uno verrà preso e l’altro lasciato”, Gesù precisa questa volta che il giudizio farà distinzione tra persone che fino a quel momento erano unite. La fine sarà una catastrofe che separerà due che dormono in uno stesso letto, due donne impegnante nello stesso lavoro mattutino. Dio prenderà l’uno, lo sottrarrà alla distruzione e abbandonerà l’altro al suo destino e lo lascerà perire. In quel giorno le decisioni dovranno essere rapide e nette, possibili solo a chi si è preparato a lungo e con grande attenzione. Simili rapide decisioni non si improvvisano.

Ma cosa dobbiamo fare per essere attenti e pronti nel momento decisivo? Come si deve vivere l’attesa? Su quale base avverrà il giudizio: uno verrà preso e l’altro lasciato?

Il riferimento ai contemporanei di Noè e di Lot ci aiutano a rispondere a queste domande. Questi abitanti non sono presentati qui come esempi di immoralità, ma soltanto di disattenzione. Non sono distratti a causa della sregolatezza o di bagordi o altro, sono distratti semplicemente per gli impegni della vita: mangiano bevono, si sposano, vendono e comprano. Anche la vita ordinaria può appesantire il cuore, se non si rimane vigilanti.

TORNA ALL'INDICEy)     La preghiera (18, 1-8)

Luca ha già parlato ampiamente della preghiera al capitolo 11, insegnando soprattutto che cosa chiedere (il Padre nostro) e come chiedere (la parabola dell’amico importuno). Ora conclude il discorso con la parabola del giudice e della vedova. L’introduzione della parabola appartiene alla redazione dell’evangelista e mostra che Luca utilizza questa parabola per educare il discepolo a una preghiera perseverante. La preghiera assidua non consiste nel moltiplicare la parole: “Quando pregate non sprecate parole come i pagani…” (Mt 6, 7-8). Non bisogna confondere la perseveranza con l’insistenza fastidiosa, né con la ripetizione meccanica e stucchevole. Tanto più che, se è vero che Dio ascolta sempre, è altrettanto vero che ascolta a modo suo. Non sempre ci dà quello che chiediamo, ma sempre quello che il suo amore gli suggerisce (11, 9-11). Perseverare nella preghiera significa sempre fidarsi di Dio, sia quando ci ascolta, sia quando sembra ignorarci. Ed è proprio questo il caso che Luca intende illustrare. Difatti non dice soltanto di pregare sempre, ma aggiunge “senza stancarsi”, e questo sottende una situazione di delusione, provocata dal comportamento di Dio che sembra, a volte, venire meno alle sue promesse.

Fin qui abbiamo commentato le parole introduttive, importanti per comprendere lo scopo per cui Luca ha raccontato la parabola. Ma se si legge la parabola con attenzione, ci si accorge che essa si muove in una prospettiva differente. La figura principale non è la vedova che con la sua preghiera ostinata induce il giudice a farle giustizia, ma il giudice stesso. L’insegnamento della parabola non va cercato nell’insistenza dell’uomo, ma nella prontezza di Dio nel fare giustizia ai suoi eletti.

L’espressione “fare giustizia” ricorre quattro volte in questo brano (18,3.5.7.8) e può essere presa come parola chiave per la sua interpretazione. La sete di giustizia costituisce l’atmosfera dell’intera parabola. Nella Bibbia la vedova è il simbolo della persona debole, indifesa, povera e maltrattata. E così comprendiamo che qui la vedova rappresenta i poveri che domandano giustizia, il bene che si vede sconfitto. La preghiera della vedova somiglia alla preghiera dei martiri di cui parla l’Apocalisse: “Fino a quando, o Dio santo, tarderai a fare giustizia e a chiedere conto del nostro sangue a coloro che abitano la terra?” (Ap, 5,10).

A questo punto l’orizzonte della parabola si è molto allargato: non più soltanto il problema della preghiera e della sua efficacia, ma il problema della giustizia di Dio che sembra molte volte essere messa in discussione dalla storia. Se Dio è un Padre amorevole, perché le disgrazie? Se Dio è giusto, perché l’ingiustizia trionfa sul mondo? Gesù risponde nella parabola: continuate a pregare con insistenza e con fiducia. L’intervento di Dio non è soltanto certo ma “pronto”. Il vero problema non è l’intervento di Dio (che Dio faccia giustizia nella storia è infatti certo), ma la nostra fede: “Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora fede sulla terra?”. In altre parole: non siate inquieti né scoraggiati perché Dio sembra tardare a fare giustizia: piuttosto preoccupatevi per la vostra fede.

TORNA ALL'INDICE- Il fariseo e il pubblicano (18, 9-14)

Il fariseo è un osservante scrupoloso della legge e il suo torto non sta nell’ipocrisia, ma nella fiducia nella propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, la sua salvezza come un dono, ma piuttosto come un premio dovuto per il dovere compiuto. Difatti la sua preghiera si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo atteggiamento non c’è nulla di preghiera. Non chiede nulla e Dio non gli dà nulla.

L’atteggiamento del pubblicano, invece, è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Dice infatti la verità: fa gli interessi dei romani invasori ed è esoso nell’esigere i tributi. La sua umiltà non consiste nell’abbassarsi, ma nella consapevolezza di essere peccatore  e nel sentirsi bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Conta su Dio non su se stesso, è questa l’umiltà di cui parla la parabola ed è questo l’atteggiamento che Gesù loda.

La conclusione è chiara e semplice: l’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio – nella preghiera e nella vita – è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Le opere buone le dobbiamo fare, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri. Il confronto con i peccati degli altri, per quanto veri essi siano, non ci avvicina a Dio.


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SEZIONE COMUNE CON MARCO (18,15-19,28)

a)    Gesù e i bambini (18, 15-17)

Nel mondo antico in generale, e anche in Palestina, il bambino era un essere debole e senza diritti, non aveva peso nella società, al punto che Gesù lo prenderà come “tipo” dell’emarginato, come la personificazione di colui che non conta. Il bambino può solo “ricevere” ed essere “accolto”, come qualsiasi povero, straniero, peccatore o donna. In netta antitesi con questa mentalità Gesù afferma che il regno “appartiene a quelli come loro”. Il bambino non è qui come rappresentante di una virtù (innocenza, purezza, semplicità), ma di una condizione di “emarginazione”.

C’è un secondo aspetto da mettere in luce. Gesù non si oppone soltanto alla mentalità del suo tempo, ma anche alla mentalità dei suoi discepoli. Questi li “rimproveravano”, mentre Gesù dice. “Non glielo impedite”. Gesù si ferma ed accoglie i bambini: perde tempo con loro. La serietà dl suo cammino verso Gerusalemme non lo distrae dai piccoli e dai poveri. Egli non ha cose più importanti da fare. La reazione dei discepoli tradisce, ancora una volta, una profonda incomprensione della natura del regno e della missione del loro maestro.

Ma cosa significa “accogliere il Regno come un bambino”? Luca non si cura di spiegarcelo, forse, a differenza degli adulti che si pongono mille problemi, il bambino si abbandona fiducioso, quasi per istinto, senza troppi perché. Entra nel regno chi è disponibile e fiducioso, senza calcoli, appunto, come un bambino.

TORNA ALL'INDICEb)    Il notabile ricco (18, 18-30)

Il racconto del ricco che interroga Gesù è sostanzialmente un dialogo: dapprima Gesù risponde al ricco che lo interroga (18,19), poi il suo discorso si allarga a tutti gli ascoltatori (18,26). Infine la sua parola è rivolta al discepolo. L’insegnamento riguarda tutti, ma in particolare Gesù pensa ai suoi discepoli.

In questione è il distacco per la sequela e dunque, ancora una volta, si tratta di una riflessione sulla ricchezza. Nel racconto si assiste però a un capovolgimento, che segnala una delle cose più importanti che il discepolo è chiamato a comprendere. Non un distacco ma un guadagno, non un lasciare ma un trovare.

La domanda sulle condizioni per ereditare la vita eterna non è certo nuova. Gli alunni la ponevano ai loro maestri: era un punto di discussione e di confronto tra opinioni teologiche diverse. Se il ricco si attendeva da Gesù un’opinione nuova, è rimasto certamente deluso, perché Gesù lo rinvia, infatti, ai comandamenti che già conosce. Può sorprendere il fatto che vengano elencati solo i comandamenti che riguardano il prossimo. E il primato di Dio? In realtà questo primato è già stato affermato con l’espressione iniziale di Gesù: “Nessuno è buono tranne Dio”.

Il ricco si dichiara giusto e osservante (18,21), ma la sequela richiede qualcosa di più: “Ancora una cosa ti manca” (18,22). Gesù invita alla sequela un uomo giusto, anche il giusto, infatti, ha un distacco da fare. Luca ne sottolinea, come è sua abitudine, la radicalità: “Vendi tutto quello che hai”, e poi precisa: “Distribuiscilo ai poveri”. Si lascia tutto per condividerlo, il discepolo non è chiamato alla povertà ma alla fraternità. E’ probabile che Luca, introducendo il verbo “diadidonai” (distribuire), pensi ai tratti di vita comunitaria da lui descritti negli Atti degli Apostoli (2, 44-45; 4, 34-35).

Di fronte all’invito di Gesù, il notabile se ne va “triste”. La molta ricchezza gli impedisce di cercare ciò che gli manca. Anche questo è un pericolo della ricchezza: non lascia spazio ti tempo e di libertà per la sequela. Di certo anche se ricchi si può essere giusti, più difficilmente però si può essere discepoli.

Il discorso di Gesù ora si allarga e riguarda tutti, ascoltatori e discepoli: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno di Dio”. La frase è paradossale e su di essa sono state scritte molte pagine (cfr. il commento al Vangelo di Marco). Che le parole siano dure, lo si deduce dalla sbigottita domanda degli ascoltatori: “Ma allora chi si può salvare?”. L’uomo no ma Dio può salvare, è questione di fede: ciò che non può essere raggiunto con le proprie forze, può essere raggiunto come un dono. Bisogna cambiare il modo di pensare la via della salvezza.

L’affermazione di Pietro (“Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”) permette a Gesù di sottolineare un ultimo capovolgimento: il distacco per la sequela non è una perdita, ma un guadagno. Non un guadagno semplicemente nell’altra vita, ma già ora, in questa vita.

TORNA ALL'INDICEc)     Il terzo annuncio della passione (18, 31-34)

E’ l’ultimo e il più particolareggiato. Gesù ricorda che sta salendo a Gerusalemme. Per Luca questo è importante. Sono qui enumerati tutti i quadri della passione, dai quali emerge molto nitida, la figura del Servo sofferente di cui parla Isaia 50, 6-7.

La passione di Gesù è “scritta”, non è dunque una cieca fatalità ma un disegno e Gesù l’affronta con consapevolezza, obbedienza e dono. Ma tutte le volte che ne parla, incontra l’incomprensione dei discepoli.

TORNA ALL'INDICEd)    Il cieco di Gerico (18, 35-43)

Sul punto di affrontare il momento decisivo della sua missione, Gesù non esita a fermarsi sulla strada per guarire un mendicante cieco. Non dimentica di servire i bisognosi, non ha mai cose più importanti da fare. Sorprendente è la trasformazione del cieco: era seduto e cieco e Gesù lo trasforma in un discepolo che segue e ci vede. Seguire e vedere sono due caratteristiche del discepolo.

Il primo miracolo di Gesù è stato la liberazione di un indemoniato (4,31ss.), l’ultimo, la guarigione di un cieco. Sono due gesti scelti con intenzione che illustrano la vittoria di Gesù sulle due forze ostili, che ostacolano la presenza di Dio nella storia degli uomini: il maligno e l’incredulità.

TORNA ALL'INDICEe)     Zaccheo (19, 1-10)

Zaccheo[37] è la figura del peccatore convertito, la cui conversione testimonia che “ciò che è impossibile per gli uomini, è possibile per Dio” (18,27). Anche il ricco può diventare un testimone del Regno. Zaccheo è anche la figura della potenza di Dio che sa trasformare un uomo facendogli cambiare vita: “ Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua”. Si noti la delicatezza delle parole di Gesù, che non dice: scendi perché voglio convertirti, ma: voglio essere tuo ospite. Gesù sembra farsi bisognoso per avere poi la possibilità di perdonare. Gesù accoglie Zaccheo prima della conversione. Non è la conversione che determina la simpatia di Gesù, ma è la l’amore di Gesù verso i peccatori che suscita la conversione. L’incontro con Dio è sempre, e allo stesso tempo, un dono e il compimento di una ricerca. L’incontro con Gesù cambia la vita.

Il pubblicano Zaccheo è la figura del discepolo cristiano che non lascia tutto, come altri, ma rimane nella propria casa, continuando il proprio lavoro, testimone però di un nuovo modo di vivere: non più il guadagno al di sopra di tutto, ma la giustizia (“restituisco quattro volte tanto”) e la condivisione (“dò la metà dei miei beni ai poveri”). C’è il discepolo che lascia tutto per farsi annunciatore itinerante del Regno e c’è il discepolo che vive la medesima radicalità restando nel mondo a cui appartiene.

Il racconto di Zaccheo riunisce i motivi che costituiscono le strutture della conversione.

1)     La prima è la “fretta”: l’occasione è vicina e bisogna afferrarla subito, non c’è tempo da perdere: “Zaccheo scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua; in fretta scese e lo accolse pieno di gioia”.

2)     Poi la disponibilità, cioè la ricerca, il desiderio: Zaccheo cerca di vedere, ma non gli riesce a causa della folla. Gesù approfitta di questa disponibilità di Zaccheo per inserirsi nella sua vita e cambiarla.

3)     In terzo luogo, la “rinuncia”, cioè il distacco dalle proprie ricchezze per distribuirle ai poveri.

4)     Infine la “gioia”[38]. Incontrare Gesù e accogliere la sua proposta è come trovare la perla per la quale vale la pena di vendere tutto, gioiosamente, convinti non di perdere ma di aver trovato.

Infine Luca non si dimentica di ricordarci che anche questo gesto di misericordia ha suscitato scandalo: “Tutti mormoravano”. Come se il Regno fosse solo per i giusti! E invece è il contrario.

TORNA ALL'INDICEf)      Parabola delle mine (19, 11-28)

La parabola di Luca delle mine[39] è simile a quella di Matteo dei talenti (25, 14-30).

Luca costruisce la sua parabola sullo sfondo di un fatto storico[40], che al tempo di Gesù era ancora vivo nella memoria della gente.

Ma questo è soltanto lo sfondo della parabola. Il suo significato, invece, è da ricercarsi nella storia dei beni lasciati in custodia: bisogna fruttificare i beni che Dio ha consegnato a ciascuno di noi, perché dobbiamo rendere conto.

Non si tratta semplicemente di conservare, di non perdere, ma di far fruttificare. Occorre vivere in attesa di un padrone esigente, che vuole raccogliere “dove non ha seminato”, cioè vuole dall’uomo intraprendenza e coraggio. L’uomo non è un semplice custode dei beni di Dio: ha il compito di commerciare per moltiplicarli.



TORNA ALL'INDICEVI.           IL MINISTERO A GERUSALEMME (19,29-21,38)


In questa sezione Gesù è visto nell’atto di prendere possesso di Gerusalemme, specialmente del tempio, e di purificarlo perché possa diventare un luogo consono al suo ministero. Luca sviluppa qui gradatamente la nozione teologica che la città e il tempio materiali non sono più i luoghi sacri della presenza di Dio: Gesù ha assunto in se stesso quella prerogativa e quell’onore.


TORNA ALL'INDICEA.  EPISODI ALL'INGRESSO DI GESU’ (19, 29-48)


Questi includono il suo ingresso messianico, il suo pianto su Gerusalemme e la purificazione del tempio.

TORNA ALL'INDICEa)    L’ingresso messianico (19, 29-40)

E’ il primo momento di trionfo di Gesù, ma è un trionfo che unisce insieme tratti di grandezza e tratti di umiltà. E’ la solita tensione che pervade tutta la vicenda del Messia.

Questa entrata di Gesù a Gerusalemme è certamente una scena regale, che ha come sfondo Zaccaria 9,9: “Esulta, figlia di Sion… ecco viene a te il tuo re… cavalca un asino[41]”. E’ una profezia regale, ma si parla di un re umile e il primo atto di questo re è il pianto su Gerusalemme: è un re che visita il suo popolo e il suo popolo lo rifiuta.

TORNA ALL'INDICEb)    Il pianto su Gerusalemme (19, 41-44)

Improvvisamente il canto regale di giubilo è interrotto dal pianto di Gesù; a Luca sono cari i forti contrasti: fariseo e pubblicano; il ricco e Lazzaro; beati e guai.

Gesù è impotente di fronte a coloro che lo rifiutano. Il suo pianto (il verbo greco “klaio” dice un pianto vero, che si vede e si sente ed è fatto di lacrime) esprime impotenza, sconfitta e delusione, ma anche amore e preoccupazione. Egli sa che verrà il castigo che gli darà ragione, ma come tutti i veri profeti, preferirebbe che non si avverasse. Non è motivo di gioia che venga punita la città che lo rifiuta, egli prova solo dolore, e piange.

Rifiutare Gesù è rifiutare la “visita” di Dio, la grande occasione che occorre afferrare. Questa occasione è indicata come “la via della pace”, ed è tutto il contrario di quello che poi accadrà. Rifiutare Gesù è rifiutare la pace (termine biblico che indica tutto ciò che l’uomo ha bisogno). Non è spiegato esplicitamente perché la città lo rifiuta, ma Gesù lo ha già detto in più occasioni: la città aspettava una visita trionfale, invece il Signore è arrivato umilmente.

TORNA ALL'INDICEc)     Purificazione del Tempio (19, 45-48)

L’episodio della cacciata dei venditori del tempio è riportato da tutti e quattro i vangeli. Sul significato storico di questo episodio le opinioni sono differenti. La più diffusa è che Gesù non abbia voluto colpire il tempio in sé, ma piuttosto il modo con cui gli uomini nel tempio trattavano Dio. Letto così, il gesto polemico di Gesù non andrebbe oltre la tradizione dei profeti, i quali hanno sempre criticato il culto al tempio ogni volta che, con la scusa di onorare Dio, diveniva un mercato vantaggioso per gli uomini. Le due citazioni di Gesù: Isaia 56,7 (“La mia casa sarà casa di preghiera”) e Geremia 7,11 (“Ne avete fatto una spelonca di ladri”) sembrano andare in questa direzione.

La riflessione neotestamentaria – che raggiunge il suo vertice in Giovani – tende sempre più a scorgere nell’episodio un significato più radicale: non la purificazione del tempio, ma la sua abolizione. Alla base c’è una convinzione, che si è fatta strada molto presto nella fede dei primi cristiani: il vero spazio della presenza di Dio fra gli uomini non è più il tempio, ma il Signore Gesù.

Che si tratti di un episodio che va oltre un semplice gesto di purificazione è suggerito anche da un’altra annotazione. I venditori di animali e i cambiavalute non costituivano una presenza illegale, al contrario, la loro presenza era necessaria per il normale svolgimento del culto: i numerosi pellegrini che giungevano da ogni parte dovevano comprare animali per offrire i sacrifici prescritti e per le offerte in denaro era necessario che le monete straniere (ritenute impure) venissero cambiate in monete ebraiche. Il gesto di Gesù sembra dunque impedire il normale svolgimento delle funzioni, ma  questo gesto, ha invece un altro significato: l’economia della salvezza rappresentata dal Tempio è ormai decaduta.

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B.  DISPUTE SU GERUSALEMME (20,1-21,4)

In questa sezione Luca segue accuratamente il contenuto di Mc (11,27-12,44). Queste narrazioni di dispute possono aver avuto luogo precedentemente, seguono, infatti, lo stile che si riscontra nel racconto del primo ministero. Collocando in questo punto tali episodi, Luca intensifica il senso di ostilità contro Gesù da parte dei capi ufficiali del giudaismo.

a)    L’autorità di Gesù (20, 1-8)

Gesù ha compiuto un gesto inconsueto, e soprattutto insegna nel tempio senza nessuna autorità, infatti non è uscito da nessuna scuola riconosciuta, non ha un incarico ufficiale e non appartiene a nessuna istituzione.

Egli si rifiuta di rispondere alle domande insidiose, perché sarebbe inutile, ma Gesù pone, a sua volta una domanda sull’autorità del Battista. Sacerdoti e scribi rifiutano di rispondere per non compromettersi, essi , infatti, non cercano la verità, ma la popolarità e il quieto vivere. Con persone così Gesù non discute.

TORNA ALL'INDICEb)    La parabola dei vignaioli omicidi (20, 9-19)

Il popolo eletto è frequentemente paragonato a una vigna che Dio pianta e poi l’affida ai capi per coltivarla: Is 5, 1-7; Ger 2,21; Ez 15, 1-6; 19, 10-14.

La parabola di Gesù ricalca il canto della vigna di Isaia (5, 1-7), con alcune precisazioni:

1)     La prima è che nella parabola, la questione posta non è la differenza tra frutti buoni e frutti cattivi, ma il rifiuto dei diritti del padrone. I contadini non vogliono riconoscere il padrone come tale. Si comportano come se la vigna appartenesse a loro.

2)     La seconda precisazione è che i contadini della parabola non soltanto rifiutano gli inviati del padrone, ma il figlio stesso.

3)     La terza novità, infine, è che il castigo consisterà nel fatto che la vigna sarà data ad altri. Non viene precisato chi siano questi “altri”. Ma certamente Luca pensa ai pagani e successivamente ai cristiani.

Nella conclusione che segue la parabola, Luca fa intendere che la parola rivolta inizialmente al popolo, in realtà era soprattutto contro i capi, come essi ben capirono (20,19). E si insiste sulla gravità del giudizio e della condanna, affermando – con la citazione del Salmo 118, 22-23 – che rifiutare Gesù significa rifiutare la pietra angolare. La metafora sembra alludere non alla pietra che fa da fondamento, ma alla pietra che è la chiave di volta dell’intera costruzione. Se si rifiuta Gesù, il disegno di Dio resta incomprensibile.

TORNA ALL'INDICEc)     Il tributo a Cesare (20, 20-26)

In Marco gli interroganti sono “farisei e alcuni erodiani”; in Matteo “i farisei”; in Luca essi sono designati come “spie”, che cercano soltanto di conoscere ciò che Gesù considera legittimo, in modo da poter decidere quale condotta tenere nei suoi confronti.

La risposta di Gesù al loro quesito è completamente inattesa e coglie di sorpresa i suoi interlocutori. La preoccupazione di Gesù è anzitutto di salvaguardare, in ogni situazione politica, i diritti di Dio, perché la causa di Dio coincide con la causa dell’uomo. L’affermazione del primato di Dio è la radice della dignità dell’uomo e della libertà di coscienza.

Ad ogni modo, è chiaro che Gesù non entra direttamente nella questione della legittimità o meno della dominazione romana. Il problema che gli interessa è più ampio e più profondo. Riconosce che lo Stato non può erigersi a valore assoluto: ogni potere politico, romano o no, non può arrogarsi i diritti che competono solo a Dio, non può assorbire tutto l’uomo, non può sostituirsi alla coscienza. Il discepolo deve rifiutare di far coincidere la sua coscienza con gli interessi dello Stato. Dal primato di Dio discendono sia la libertà dell’uomo di fronte allo Stato, sia i doveri verso lo Stato stesso.

d)    La risurrezione dei morti (20, 27-40)

Gesù, come sempre, nelle polemiche con scribi e farisei risponde a modo suo. Lo scopo della domanda dei sadducei è di mettere in imbarazzo Gesù. Con un esempio concreto  (Dt 25,3 ss.) cercano di dimostrare che l’idea di risurrezione è ridicola. Nella risposta di Gesù si scorge anzitutto un metodo originale, diverso da quello rabbinico e sadduceo di leggere le Scritture[42]. In altri termini, Gesù non cerca testi che parlano della risurrezione, prestandosi in tal modo alle contestazioni dei sadducei, riducendo la risurrezione a una questione esegetica e a una disputa di scuola. Egli cita sorprendentemente, Esodo 3,6 che è un testo di Dio e non sulla risurrezione. Ma sta proprio in questo l’originalità di Gesù: egli si rifà al centro delle Scritture, cioè alla rivelazione del Dio vivente e riconduce il dibattito sulla risurrezione all’amore di Dio e alla sua fedeltà: se Dio ama l’uomo, non può abbandonarlo in potere della morte.

Fin qui la risposta di Gesù è contro i sadducei, che respingevano la fede nella risurrezione: la loro dottrina fa morire le anime con i corpi, nega la sopravvivenza dell’anima come anche i castighi e i premi nel regno dei morti, e sostenevano la loro dottrina citando Gen 3,19: “Sei polvere e in polvere ritornerai”. Ma la polemica è diretta anche contro i farisei, che concepivano la risurrezione in termini materiali: i defunti risorgeranno con i loro vestiti, con le stesse infermità, sordi, ciechi, zoppi, in modo da poterli riconoscere. Nella sua replica, Gesù afferma che la vita dei morti sfugge agli schemi di questo mondo presente: è una vita diversa perché divina, eterna: verrebbe da rassomigliarla a quella degli angeli (20,36).

Luca, però, ha voluto adattare la risposta di Gesù a un ambiente ellenistico, il quale non accettava la risurrezione del corpo: il corpo, dicevano, è la prigione dell’anima e la salvezza consiste nel liberarsene. Il pensiero greco è fondamentalmente dualista e parla volentieri di immortalità ma non di risurrezione. Questo rappresenta una prima e sostanziale differenza dal pensiero giudaico.

Inoltre la riflessione greca cerca la ragione dell’immortalità nell’uomo stesso: nell’uomo c’è una componente spirituale, incorruttibile, per sua natura capace di sopravvivere al corpo corruttibile. Questo costituisce una seconda differenza dal pensiero giudaico, che ama invece, come si è visto, cercare la ragione della vita nelle fedeltà di Dio.

Di fronte alla mentalità greca, che rischiava di tradire nel profondo l’insegnamento di Gesù e la speranza da lui portata, Luca si preoccupa, anzitutto, di togliere un possibile equivoco: la “risurrezione” non significa in alcun modo un prolungamento dell’esistenza presente. La risurrezione non è la rianimazione di un cadavere, è, invece, un salto qualitativo. Ecco perché egli distingue con cura “questo” mondo e “l’altro” mondo (20,34). Dunque si deve parlare di una nuova esistenza, di un altro mondo. Ma in questa nuova esistenza è tutto l’uomo che entra, non solo lo spirito. Luca parla di “risurrezione” non di immortalità. Alla cultura dei greci egli preferisce la solidità delle parole di Gesù. La promessa di Dio ci assicura che tutta la realtà della persona entra in una vita nuova e proprio perché entra in una nuova vita, tale realtà viene trasformata. E’ questo che Luca tenta di dire,

TORNA ALL'INDICEe)     Il figlio di Davide (20, 41-44)

In questo dibattito, Gesù afferma che il Messia non può essere semplicemente figlio di Davide, dal momento che Davide stesso, nel Salmo 110, lo chiama “mio Signore”.

L’espressione “figlio di Davide” era un titolo messianico, ed evocava non soltanto l’origine del Messia (dalla stirpe di Davide), ma anche un progetto messianico (una restaurazione religiosa e politica che avrebbe riportato Israele allo splendore del tempo davidico). Nel vangelo di Luca il titolo è già stato rivolto a Gesù: per esempio l’angelo dell’annunciazione e il cieco di Gerico (18, 38-39). Ma ora Gesù intende criticarlo: “figlio di Davide” non esprime l’origine decisiva di Gesù, né il suo vero progetto messianico: egli è il Figlio di Dio.

TORNA ALL'INDICEf)      Ipocrisia degli Scribi (20, 45-47)

Il Maestro rimprovera anzitutto ai dottori della legge i diversi modi in cui vanno alla ricerca di onori. I due atteggiamenti denunciati sono gravi: questi uomini divorano le case delle vedove in molti modi, ad esempio assumendosi l’incarico, secondo la volontà dei defunti e per cospicue somme di denaro, di vigilare sui beni delle loro vedove. Allo stesso modo, ostentano nel fare lunghe preghiere, ma si tratta solo di apparenze che ingannano. Per questo motivo Gesù non rimprovera direttamente gli scribi, ma si rivolge ai discepoli (“disse ai discepoli”) e denuncia con tanta insistenza questi comportamenti pericolosi che non sono tollerabili nei cristiani. Già in 17, 7-10, egli aveva sentito il bisogno di ricordare agli apostoli che non dovevano aspettarsi particolari onori dall’esercizio della loro carica. Eppure, nonostante questo, già dall’ultima cena, questi stessi apostoli discuteranno per sapere “chi doveva essere considerato il più grande” (22,14.24-27).

TORNA ALL'INDICEg)    L’obolo della vedova (21, 1-4)

Questo racconto è strettamente collegato al precedente: il comportamento degli scribi e dei dottori della legge e il comportamento della vedova povera. I discepoli sono invitati a confrontarsi e a riconoscersi. E’ su di lei che Gesù richiama l’attenzione dei discepoli con parole che il vangelo riserva per gli insegnamenti più importanti: “In verità vi dico…”. Gesù ha trovato un gesto autentico e vuole che i discepoli lo imparino. Ciò che l’ha colpito non è soltanto l’assenza di ostentazione, ma soprattutto la totalità del dono: non ha dato il superfluo, ma “tutto quello che aveva per vivere.


TORNA ALL'INDICEC.  DISCORSO SULLA CADUTA DI GERUSALEMME (21, 5-38)


Il lungo discorso che si legge in Luca 21 appartiene al genere apocalittico: vengono descritti gli ultimi tempi come tempi di guerre e di divisioni, di terremoti e di carestie, di catastrofi cosmiche. Questo linguaggio ampiamente presente nel discorso di Gesù, non è il messaggio, ma semplicemente il mezzo espressivo che tenta di comunicarlo. Nessuna di queste frasi deve essere presa alla lettera.

Il discorso apocalittico nasce dalla convinzione che la storia cammina, sotto la guida di Dio, verso una salvezza piena e definitiva. Le delusioni e le continue contraddizioni della storia non riusciranno mai a demolire tale speranza, anzi serviranno a purificarla e a insegnare che la salvezza  è, al di là dell’esistenza presente, opera di Dio e non solo dell’uomo.

Il discorso apocalittico invita i credenti – che ora sono i cristiani coinvolti nelle persecuzioni e amareggiati dall’odio del mondo – a rinnovare la loro fiducia nella promessa di Dio e a perseverare nelle scelte di fede e a non cadere in compromessi: “neppure un capello del vostro capo perirà”.

Il discorso di Gesù in Luca 21 è un intreccio di notizie e di avvertimenti.

Le notizie: falsi profeti pretenderanno parlare in suo nome e assicurare che la fine è vicina: ci saranno guerre e rivoluzioni, popolo contro popolo e regno contro regno. Questi avvenimenti - eresie, guerre e persecuzioni – non esauriscono il panorama della storia e delle sue contraddizioni, ma Gesù li considera come situazioni tipiche e ricorrenti, situazioni che il discepolo deve essere pronto ad affrontare.

Gli avvertimenti, sono pochi e semplici: non lasciatevi ingannare, non vi terrorizzate, non preparate la vostra difesa. Il vero discepolo rimane ancorato alle parole del suo Maestro e non ha bisogno d’altro. Le novità non lo attirano, né cede alle previsioni di chi pretende conoscere il futuro. Per orientarsi gli bastano le parole del Signore.

Di fronte alle guerre e alle paure che così spesso angosciano gli uomini, il vero discepolo non si fa illusioni e non cade in facili ottimismi, tuttavia rimane fondamentalmente sereno e fiducioso.

La persecuzione, le divisioni, l’odio del mondo non sono i segnali di un’immediata fine del mondo, ma un’occasione di testimonianza e di perseveranza. Si attende il Signore testimoniando e perseverando, non fantasticando sulla vicinanza della fine del mondo.

Luca, conforme a tutta la tradizione evangelica, ripete che la liberazione è vicina (21,28). Questo non significa che il ritorno del Figlio dell’uomo sia oggi o domani, perché i segni premonitori (guerre e persecuzioni) sono i fenomeni presenti in ogni momento della storia. In altre parole Luca vuol dirci che il tempo presente è ricco di occasioni salvifiche che Dio stesso ci offre. Vigilare, quindi, significa non avere il cuore “appesantito”. Il ritorno del Figlio dell’uomo non sarà preceduto da segni premonitori prevedibili e rassicuranti: giungerà all’improvviso. Ciò che conta, dunque, è stare attenti a non lasciarsi sorprendere.


TORNA ALL'INDICEVII.       LA PASSIONE E LA GLORIFICAZIONE DI GESU’ (22,1-24,53)


La sezione più lunga in ognuno dei quattro vangeli è il racconto della passione. Questo racconto sembra anche sia stato il primo ad acquistare una forma definitiva nell’ambito della Chiesa primitiva.

Nel vangelo di Luca, il lettore non è tanto invitato ad assistere a questo dramma di Gesù da lontano, oppresso dalla tristezza (Mc), ma a seguire l’esempio di Simone di Cirene, nel prendere il suo posto accanto a Gesù e portare egli stesso, vicino a lui, la sua croce. Il lettore vede se stesso nella debolezza di Pietro e nella speranza del buon ladrone.


TORNA ALL'INDICEA.  LA CENA PASQUALE (22, 1-38)


L’ultima cena ha costituito un momento importantissimo della vita di Gesù, si può dire addirittura che è stato il momento più riassuntivo e trasparente della sua rivelazione e della sua missione.

La comunità, fin dalle origini, ha ricordato e riprodotto quel gesto, circondandolo di parole del Signore e di riflessioni proprie, così da renderlo sempre più chiaro ed esplicito nel suo significato e nelle sue conseguenze.

L’ultima cena non costituisce soltanto l’inizio della passione, ma è la chiave che permette di interpretarla: la cena evidenzia l’intenzione che ha orientato l’intera esistenza di Gesù ed evidenzia, nel contempo, il progetto di vita che il discepolo è chiamato a condividere.

TORNA ALL'INDICEa)    Il complotto (22, 1-6)

Il breve racconto del complotto è la porta d’ingresso di tutto ciò che segue. I personaggi sulla scena sono molti: Gesù, Satana, i sommi sacerdoti e i capi delle guardie, Giuda, il popolo. Tutti sono contro Gesù e hanno deciso di eliminarlo, l’imbarazzo riguarda solo il modo.

L’annotazione temporale (“era vicina la festa degli azzimi, chiamata pasqua”) ha in realtà un valore teologico. Dice subito il contesto liturgico nel quale tutto deve essere letto e compreso, risurrezione inclusa.

Satana si ripresenta sulla scena abbandonata dopo la tentazione nel deserto (4,11). La sua comparsa significa che inizia un tempo di lotta e di prove, non solo per Gesù, ma anche per i discepoli (22, 31-38). A differenza del deserto, qui Satana non compare apertamente davanti a Gesù, ma si insinua nel gruppo dei discepoli.

La ragione per cui Giuda tradisce il suo Maestro non è detta. E’ un silenzio che dice più delle parole: le ragioni per cui si può tradire il Signore sono molte, ognuno cerchi la sua.

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b)    I preparativi per la cena pasquale (22, 7-13)

L’ambiente per la celebrazione dell’ultima cena è solenne e festoso (“una sala grande e addobbata”). Al tempo di Gesù la cena pasquale presentava un doppio aspetto: uno rivolto al passato (il ricordo della liberazione dall’Egitto) e uno rivolto al futuro (l’attesa della liberazione messianica). La tensione verso il futuro era vivissima, ma anche contaminata da attese messianiche ambigue. E’ in questo contesto festoso che Gesù celebra la sua pasqua e la sua novità. In contrasto con le attese popolari, la sua pasqua passa però attraverso la via della Croce.

TORNA ALL'INDICEc)     La cena pasquale (22, 14-23)

La cena è subito legata alla passione: “Prima del mio patire” (22,15) ed è subito seguita da un’espressione che colloca la passione in un disegno stabilito: “Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stato stabilito” (22,22). Ciò non significa che Gesù è stato vittima di un disegno prestabilito, ma che Lui è soggetto di questa scelta.

Gesù è a mensa con i soli discepoli, ciò sottolinea la comunitarietà e l’intimità dell’evento. Il pane e il vino sono “il corpo” e “il sangue” di Cristo, cioè la totalità della sua persona e della sua esistenza. La sua vita è riassunta in due punti essenziali: anzitutto il dono di sé e poi il martirio. Il sangue “versato” indica una morte violenta, che da un lato costituisce il vertice del dono e dall’altro il suo apparente fallimento.

Gesù non parla, però, del senso della sua morte, ma della forza dell’amore, della logica del dono che pare una sconfitta secondo la logica della malvagità e della morte, ma che, invece, proprio nel martirio manifesta tutta la sua potenza.

Gesù compie i suoi gesti all’interno di una ricorrenza ebraica e all’interno di un pasto festoso, che tutto il popolo celebrava. Dunque all’interno di una tradizione che egli assume, ma che la spezza, il gesto del pane e del vino e le parole che pronuncia sono una novità: questi gesti parlano di Lui, non direttamente di Dio, né delle sue meraviglie né del suo popolo.

TORNA ALL'INDICEd)    Disputa sul più grande (22, 24-30)

Inserendo il racconto dell’istituzione in una cena di testamento, Luca ha l’opportunità di legare l’eucarestia all’esistenza del discepolo e al futuro della comunità. Luca è molto interessato a collegare l’eucarestia alla vita cristiana, sia nella sua logica di servizio, sia nel suo aspetto di prova e di lotta, come anche nel suo aspetto di speranza.

Il contrasto fra il gesto di Gesù e la loro preoccupazione (“chi dovesse essere il più grande”) è enorme. Non hanno capito ancora che seguire il Signore significa servire.

Gesù afferma la sua presenza nella comunità (“Io sono in mezzo a voi”) che serve (“Colui che serve”): è il tratto della Croce, del dono di sé. Il volto del Signore è sempre determinato dalla logica dell’amore che serve.

TORNA ALL'INDICEe)     Predizione del rinnegamento di Pietro (22, 31-38)

Gesù ha visto Satana cadere dal cielo come la folgore (10,16): dunque Satana è già sconfitto, tuttavia è ancora presente e attivo: spinge Giuda al tradimento e scuote i discepoli. Satana è attivo, dunque il pericolo non è cessato, ma nessuna paura perché Satana è già sconfitto.

Satana scuote i discepoli e li butta in aria, come il contadino fa con il grano (22,31). Gesù, invece, ha pregato per loro. Tuttavia Pietro lo rinnegherà e i discepoli lo abbandoneranno. La preghiera di Gesù, di certo efficace, non sottrae Pietro all’infedeltà né i discepoli alla fuga. Dio può salvare l’uomo, ma non può sottrarlo alla sua libertà. Dio ci salva nelle nostre infedeltà, non ponendoci al di fuori di esse.



TORNA ALL'INDICEB.  LA PASSIONE, LA MORTE ELA SEPOLTURA (22, 39-23,56)


L’insegnamento di Gesù, specialmente quello offerto all’ultima cena, era destinato a rimanere avvolto nel mistero fino a quando i discepoli costatarono che egli lo visse totalmente nella sua morte e glorificazione. Ma tali eventi finali della vita di Gesù avvolsero le sue parole di un mistero ancora più profondo fino al momento in cui egli inviò lo Spirito che li mise in grado di vivere a loro volta lo stesso mistero.

TORNA ALL'INDICEa)    Il Getsemani (22, 39-46)

Il racconto di Luca è molto diverso da Matteo e Marco, non solo è più breve, ma anche differente nell’impostazione, nel vocabolario e nella concezione teologica.

Omissioni di Luca: non riporta il nome preciso del luogo e dice semplicemente “il monte degli ulivi”. Non ricorda la duplice separazione dei discepoli. Non descrive direttamente l’angoscia di Gesù e tralascia “la mia anima è triste da morire”. Nel suo racconto non c’è il triplice e inquieto andare e venire di Gesù. I discepoli sono rimproverati una sola volta e anche la preghiera è detta una sola volta. Luca ignora il detto: “lo spirito è pronto ma la carne è debole”. E non conclude il suo racconto dicendo che l’ora è giunta e il traditore vicino.

Aggiunte: l’angelo che conforta Gesù, la preghiera che nel momento dell’agonia si fa più forte e insistente, il sudore di sangue.

Le precisazioni: Gesù si reca al monte degli ulivi “come era sua abitudine”. Si allontana dai discepoli quanto “un tiro di sasso”, non prega prostrato per terra ma “in ginocchio”, i discepoli si sono assopiti “per la tristezza”.

Luca introduce la narrazione con l’imperativo “pregate per non soccombere nella prova”, che poi viene ripetuto alla fine. Il tema della necessità della preghiera per superare la prova, posto all’inizio e alla fine della scena, forma una vera e propria cornice. All’evangelista importa molto insegnare alla sua comunità che, se si vuole superare la prova, occorre pregare come ha fatto Gesù.

Marco e Matteo descrivono prima l’angoscia e la tristezza di Gesù e poi la sua preghiera. Luca fa il contrario e pone la preghiera al primo posto. Una preghiera che rivela sì una tensione interiore, ma non una lacerazione. Più che l’allontanamento della prova, Gesù sembra chiedere la forza per superarla. Questo, per lo meno, è ciò che risulta dall’insieme: il Padre non allontana il calice da Gesù, ma invia un angelo a confortarlo.

Come ogni uomo, anche l’uomo Gesù non trova in se stesso la forza per superare la prova, ma l’implora dal Padre. Così l’uomo sperimenta nello stesso tempo la debolezza e la forza, la fatica della prova e la consolazione di Dio.

Per descrivere lo stato d’animo di Gesù, Luca non ricorre al vocabolario della tradizione di Marco e Matteo (sbigottimento, angoscia, tristezza), ma a una parola presa in prestito dal linguaggio sportivo: agonia. Propriamente, questa parola indica lo stato di tensione dell’atleta nell’imminenza della gara o, anche, nel momento in cui, ormai vicino al traguardo, raccoglie tutte le sue forze in un ultimo slancio.

Sul piano della metafora, agonia può indicare la lotta che il giusto deve sostenere per praticare la virtù in modo eroico. E’ in questo senso che Luca intende agonia. Rispetto a Marco e Matteo la figura di Gesù è trasformata. Non più un uomo “impietrito” (come in Marco) o “prostrato” (come in Matteo), ma un uomo “proteso”. Il sudore di sangue non sgorga per la paura, ma per lo sforzo.

Sembra che Luca, pur conoscendo l’intero racconto di Marco, ne sottolinei soltanto la parte finale, quando Gesù – superato lo smarrimento – dice ai discepoli: “Alzatevi, andiamo. Colui che mi consegna è vicino” (Mc 14,42).

TORNA ALL'INDICEb)    L’arresto di Gesù (22, 47-53)

Il primo tratto di cui il lettore attento si accorge sono i silenzi. Luca dice che Giuda “si accostò per baciarlo”, ma non dice che di fatto lo baciò. Nessun accenno, poi, all’arresto e nessun accenno alla fuga dei discepoli. Certo tutti questi gesti sono chiaramente supposti nel contesto, ma resta il fatto che non vengono detti. Sembra che Luca pur supponendo le cose più umilianti che Gesù ha subito, voglia tacere. E come se la malvagità degli uomini non lo toccasse. Gesù è tradito, arrestato e abbandonato, ma è sempre il Signore glorioso e irraggiungibile.

Per Luca Gesù è il misericordioso, colui che perdona sempre. Solo lui, infatti, nota che Gesù “gli attaccò l’orecchio e lo guarì”. Gesù è colui che sempre “guarisce”, in ogni occasione. Anche nel momento tragico dell’arresto non pensa a se stesso. La potenza che non usa per salvare la propria persona, la usa per salvare un nemico. Alla violenza risponde con l’amore e a chi gli fa del male, risponde facendo del bene. Gesù non è stato piegato dagli uomini, ma dalla sua carità.

TORNA ALL'INDICEc)     Il rinnegamento di Pietro (22, 54-62)

Luca ha certamente costruito il racconto del rinnegamento di Pietro sulla base della tradizione comune a Marco e Matteo. Ha cambiato la collocazione del racconto, ma non la sua struttura e i suoi personaggi.

La figura di Pietro è tutta raccolta in tre momenti: il tentativo di seguire Gesù senza lasciarsi coinvolgere dalla sua morte (“da lontano”), poi il totale rinnegamento nel vedersi identificato; infine, il ricordo e il pentimento.

Luca non annota che Pietro accompagnò le sue negazioni con imprecazioni e giuramenti. In tal modo evita di appesantire la figura dell’apostolo più del necessario.

Non è più il canto del gallo che suscita il ricordo della parola che salva (Luca usa l’espressione “parola del Signore”), ma lo sguardo di Gesù. E’ il Signore direttamente che suscita il ricordo e fa nascere il pentimento.

TORNA ALL'INDICEd)    Le derisioni (22, 63-65)

La breve scena degli oltraggi è in Luca collocata diversamente rispetto a Marco. Non segue l’interrogatorio, ma lo precede. Questa differente collocazione ne muta parzialmente il senso. In Marco gli oltraggi sono la reazione alla condanna a morte. In Luca sono semplicemente un passatempo delle guardie.

Luca tace il fatto che Gesù fu deriso dai membri del Sinedrio per non sottolineare maggiormente l’indegno comportamento nei confronti di Gesù. Tralascia anche di riferire che sputarono in faccia a Gesù e che lo schiaffeggiarono. Tali insulti sono sintetizzati nell’unica espressione “molte altre ingiurie”.

TORNA ALL'INDICEe)     Il processo davanti al Sinedrio (22, 66-71)

Dopo il racconto della cattura di Gesù, Luca abbandona l’ordine della narrazione di Marco e Matteo, collocando gli episodi diversamente: prima il rinnegamento di Pietro (22, Errore. Non è stata trovata alcuna voce d'indice.54-629, poi la scena degli oltraggi (22, 63-65), da ultimo l’interrogatorio davanti al sinedrio (22, 66-71).

Oltre che per la diversa collocazione delle scene, il racconto lucano si distingue anche per alcune vistose omissioni. Nessun cenno all’affannosa ricerca di testimonianze contro Gesù. Nessun testimone si alza ad accusare Gesù di voler distruggere il tempio, nessuna accusa di bestemmia, né la condanna a morte.

L’annotazione temporale: “Quando fu giorno, si radunò il consiglio”, ha una grande importanza storica, perché precisa meglio il susseguirsi degli eventi. Subito dopo la sua cattura, Gesù è condotto nel palazzo del sommo sacerdote (22,54), dove si svolse, probabilmente, un primo interrogatorio informale, alla presenza del sommo sacerdote e di alcuni autorevoli componenti del sinedrio. Di tutto questo, però, Luca non fa menzione, dando l’impressione che Gesù sia stato semplicemente custodito in attesa dell’alba. E’ durante questo tempo che Pietro lo rinnega e le guardie si divertono a fargli scherzi. Passata la notte, al mattino presto si raduna l’intero sinedrio e si svolge il vero e proprio interrogatorio.

Nel racconto lucano le domande poste dal sinedrio a Gesù sono due: alla prima non risponde direttamente, perché teme di essere equivocato; alla seconda, invece, risponde direttamente (“Lo dite voi stessi: io lo sono”). Non tocca a Gesù dare la risposta sulla sua identità, tocca a loro dedurla dalle sue azioni e dalle sue parole.

TORNA ALL'INDICEf)      Gesù dinanzi a Pilato (23, 1-7)

Nel racconto del processo di Gesù davanti a Pilato, Luca ha ampiamente modificato lo schema di Matteo (che a questo punto riferisce ciò che accade a Giuda) e Marco. Anche questo caso, come tutti gli altri, è difficile ricostruire il reale svolgimento dei fatti. L’intenzione di Luca è di portare davanti alla croce, coinvolgendoli, tutti gli avversari di Gesù: sacerdoti e anziani, Erode, Pilato, la folla.

Il racconto è composto di tre scene: la folla conduce Gesù da Pilato, Pilato lo manda da Erode (che a sua volta lo rimanda da Pilato), infine, Pilato lo consegna alla folla.

Le accuse contro Gesù sono sostanzialmente tre: sovverte il popolo, contesta il dovere di pagare le tasse a Cesare, si proclama re. L’accusa principale, in un certo senso, è la prima, tanto è che è ripresa più avanti (23,5) dagli accusatori (“costui solleva il popolo”) e dallo stesso Pilato (23,14). “Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo”. I capi giudei temono il sovvertimento religioso, tuttavia di fronte a Pilato lasciano intendere che il loro timore riguarda soprattutto il sovvertimento politico, come è chiaramente suggerito dalla seconda accusa (“impediva di dare tributi a Cesare”). E’ un malizioso rovesciamento di prospettiva che mostra la loro insincerità. In parte, però,  si tradiscono quando insistono dicendo: “Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fin qui” (23,5). Gesù non ha dunque sollevato il popolo organizzando gruppi di rivoltosi, o fomentando sommosse, come gli zeloti, ma insegnando. E’ la sua dottrina che fa paura.

TORNA ALL'INDICEg)    Gesù e Erode (23, 8-12)

La novità più importante del racconto lucano è la comparsa di Erode. Sostituisce la scena degli oltraggi degli altri vangeli. Luca ha parlato di Erode almeno in altre tre occasioni, qui è presentato come un re dissoluto. A lui interessa vedere qualche prodigio, non indagare sulla verità di Gesù. E’ un uomo a cui non interessa la verità, ma lo spettacolo. E Gesù non risponde  alle sue provocazioni. Gesù è pronto a spiegarsi con chi cerca la verità, ma non con chi ha già preso le proprie decisioni (come scribi e sacerdoti), o ha qualcosa da difendere più importante della verità (come Pilato), o è semplicemente mosso dal desiderio di vedere miracoli (come Erode).

Col suo silenzio di fronte a Erode, Gesù non nega la sua potenza di fare miracoli, ma mostra che essa è a servizio di un Dio che non si sottomette alle pretese degli uomini, neppure per affermare se stesso. La sua è la potenza dell’amore che si dona e salva, non la potenza di chi vuole impressionare e imporsi.

TORNA ALL'INDICEh)    Gesù di nuovo dinanzi a Pilato (23, 13-25)

Per Pilato Gesù è un innocente, che i giudei accusano per motivi che, in fondo, non lo riguardano. Ma non ha la forza, né un vero interesse, per resistere alle loro pressioni. Se nel primo quadro Gesù è rifiutato perché disturba, nel secondo è abbandonato al suo destino: ci sono ragioni di ordine pubblico ben più importanti di lui.

L’ironia del baratto fra Barabba e Gesù (23, 18-19) è in Luca molto più appariscente che in Marco e Matteo. Accusano Gesù di essere un sedizioso e chiedono la liberazione proprio di un sedizioso! Così Luca, infatti, descrive Barabba: “Questi era stato incarcerato per una sommossa scoppiata in città e per omicidio”.

Nelle ripetute proclamazioni di innocenza da parte di Pilato e, al tempo stesso, nel suo finale abbandono, il credente vede che Gesù è un Messia politicamente innocente, che non ha voluto entrare nel gioco delle contrattazioni politiche. La via che egli ha scelto per cambiare il mondo è un’altra.

TORNA ALL'INDICEi)       La via della croce (23, 26-32)

Luca non parla della incoronazione di spine e dei dileggi da parte dei soldati romani; egli sviluppa ciò che negli altri vangeli è una breve notizia e lo trasforma in una via della croce.

La strada che conduceva dal palazzo del governatore al luogo dell’esecuzione, fuori le mura, non era lunga, forse non più di 500 m. Il condannato veniva però fatto passare attraverso le strade movimentate del centro cittadino: la condanna doveva, infatti, essere pubblica e servire da esempio. Lungo il tragitto la piccola scorta militare blocca Simone, un ebreo oriundo  di Cirene, che tornava dai campi. Marco usa un’espressione militare: lo “requisirono” (15,12). Luca adopera, invece, un’espressione più generica, di uso civile: lo “presero”. E continua: “Gli misero la croce sulle spalle perché la “portasse dietro a Gesù”. Questa frase, usata in tutta la tradizione cristiana, si riferisce al discepolo che porta la croce dietro il Maestro. Sembra, dunque, che nell’episodio del Cireneo, Luca voglia farci intravedere la figura del discepolo.

Le donne che seguono Gesù dimostrano, con la loro coraggiosa testimonianza, che egli non è un malfattore, ma un profeta che sta subendo la sorte di tutti i profeti: il martirio. Gesù non vuole la compassione ma la conversione. L’ora è grave, urgente. Se il giudizio (il fuoco) si abbatte su un innocente (il legno verde), che sarà del popolo colpevole (il legno secco)?

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j)      La crocifissione (23, 33-43)

Il Crocifisso di Luca non sta in silenzio, ma parla: alle folle, al Padre, al ladrone pentito. La prima parola di Gesù è stata per le donne, invitandole alla conversione. La seconda parola è per i suoi crocifissori: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (23,34). Gesù non solo perdona, ma scusa. Non muore minacciando il giudizio di Dio, ma perdonando e scusando. Il perdono non è certo solo rivolto ai romani, ma anche agli ebrei, a tutti. Questa misericordia di Gesù non sorprenda il lettore. Tutta la passione secondo Luca è infatti attraversata dalla misericordia: il gesto di Gesù che guarisce l’orecchio del servo del sommo sacerdote, lo sguardo a Pietro che lo rinnega, la parola del perdono ai crocifissori.

Morire perdonando è un tratto del martire cristiano. Luca lo ricorderà negli Atti degli Apostoli, raccontando il martirio si Stefano (7,60). Gesù sulla croce, però, non  è solo la figura del martire che perdona, ma la figura dell’amore di Dio  per l’uomo, non semplicemente dell’amore dell’uomo per Dio.

Ai piedi della croce ci sono il popolo, i capi dei giudei e i soldati. Ma l’attenzione non è mai distolta dal Crocifisso: a lui si guarda e di lui si parla, in questione è sempre la sua identità. Il popolo sta immobile a guardare, un guardare interessato, partecipe (theorein), non semplicemente curioso o indifferente. I capi e i soldati lo schernivano ripetutamente. I verbi usati sono di derisione per la sua pretesa messianica e il suo considerarsi amato da Dio con amore di predilezione (l’eletto). I soldati, invece, canzonano per la sua pretesa regalità. Collocato in questo punto preciso, anche il cartello con l’iscrizione della condanna sembra enfatizzare lo scherno.

Così sulla croce Gesù è raggiunto per l’ultima volta dalla tentazione, che però non è più Satana, ma dei capi, dei soldati, e subito dopo anche del malfattore crocifisso con lui: se sei l’eletto di Dio, perché non ti aiuta? Il suo silenzio non è la prova del tuo errore? Il fallimento della strada dell’amore che hai percorso non è il segno che la via di Dio è un’altra? Ma a queste domande il Crocifisso non risponde. Il silenzio di Dio è il segno di un altro modo di farsi presente e di parlare.

Luca prosegue raccontando una dopo l’altra le reazioni dei due malfattori “appesi” con lui. Le due figure sono radicalmente contrapposte. Il primo malfattore è probabilmente un indomabile zelota, che anche nella morte resta fedele alla sua scelta di ribellarsi al dominio straniero per instaurare il regno di Dio. Per lui un Messia che muore in croce e non salva se stesso, né quelli che hanno lottato per la sua causa, rappresenta uno sconfitto. Diversamente dal primo, il secondo malfattore confessa senza attenuanti la propria colpa, riconosce l’innocenza di Gesù e si affida a lui. Accogliendolo prontamente, Gesù compie nella sua morte ciò che ha fatto lungo tutta la vita: accogliere i peccatori (15,2). E mostra, al tempo stesso, che la sua salvezza è diversa da quella sognata dai capi, dai soldati e dal malfattore ostinato.

Si noti la solennità della promessa di Gesù (“in verità”) e la sua sicurezza (“ti dico”). Qui Gesù non prega, non chiede a Dio, ma garantisce una vita di comunione con lui (“sarai con me”) e subito (“oggi”).

TORNA ALL'INDICEk)    La morte di Gesù (23, 44-49)

Il grido di Gesù morente (23,46) riprende la preghiera del Salmo 31: è la preghiera piena di confidenza in Dio, che i rabbini raccomandavano di recitare la sera. E’ la preghiera di un povero abbandonato, smentito, che proclama la sua unica fiducia in Dio. Morire serenamente, fidandosi di Dio, è un altro tratto essenziale del martire cristiano (prima abbiamo ricordato quello del morire perdonando).

Diversamente da quanto raccontano Marco e Matteo, per Luca la vita di Gesù non finisce con un tragico interrogativo, ma nella serena convinzione di un compimento. Serenità, fiducia e abbandono, questi sono i sentimenti di Gesù morente. Come per Gesù, anche per noi non c’è stata salvezza dalla morte, ma una salvezza nella morte.

A sottolineare la “singolarità” della morte di Gesù ci sono i “segni” (le tenebre e la rottura del velo del tempio) che la precedono e le “reazioni” (del centurione e della folla) che la seguono. Luca dispone i particolari narrativi in modo che i segni straordinari accompagnino la morte di Gesù, non la seguano. Spiegano il significato di quella morte, ma non ne sono il frutto. L’evangelista non vede nelle tenebre un simbolo biblico, ma un fatto reale, per sottolineare la straordinarietà dell’evento e non il suo significato biblico.

Frutto della morte di Gesù sono il riconoscimento del centurione pagano (23,47) e la commossa partecipazione della folla (23,48). Dei conoscenti e delle donne, che lo avevano seguito dalla Galilea, si dice soltanto che assistevano da lontano: sono presentati nell’atteggiamento dei testimoni, non dei convertiti. Ciò che converte è la morte “svelata” nel suo significato di perdono e di fedeltà a Dio.

TORNA ALL'INDICEl)       La sepoltura (23, 50-56)

Deposto dalla croce, il corpo di Gesù viene avvolto in un lenzuolo, ma non si parla né di pulizia del cadavere né di unzioni (come dirà Gv 19,40). Precisando che è la vigilia di Pasqua – il nostro venerdì – Luca spiega per quale motivo il rito funebre risulta piuttosto ridotto, non portato a conclusione.

Il racconto della sepoltura lascia intendere che i discepoli non sono presenti. La sepoltura chiamerà in causa un nuovo personaggio del racconto, Giuseppe d’Arimatea, uomo ricco (possiede un sepolcro vuoto), un membro autorevole del sinedrio (ha l’autorità di presentarsi a Pilato), virtuoso e giusto, osservante della legge, è un pio giudeo che, sotto questo aspetto, ricorda Simeone.

Queste presenze positive, in qualche modo inaspettate, danno ancor più risalto alla totale assenza dei discepoli.



TORNA ALL'INDICEC.  LA RISURREZIONE E L’ASCENSIONE (24, 1-53)


Il confronto tra i quattro racconti evangelici della risurrezione può suscitare nel lettore molta perplessità. Tra le quattro narrazioni sussistono, infatti, numerose discordanze. Soltanto Matteo, ad esempio, ricorda l’episodio delle guardie poste a custodia della tomba. Luca colloca le apparizioni del Risorto in Giudea, Matteo in Galilea. Matteo e Marco parlano di un angelo, Luca e Giovanni di due. Giovanni, poi, segue uno schema completamente suo.

E’ chiaro che gli evangelisti si sono permessi nei riguardi degli eventi pasquali molta più libertà che nei racconti della passione. Sono evidentemente interessati al significato teologico degli eventi. Bisogna dunque leggere questi racconti nella loro ottica, non nella nostra. Questo non impoverisce la realtà degli eventi, ma l’arricchisce. La storicità non viene dissolta, al contrario viene approfondita, cogliendo i fatti nel loro significato salvifico, non solo nel loro accadimento.

Luca ha ordinato le varie tradizioni di cui disponeva in una narrazione letterariamente unita e tematicamente coerente. I racconti sono orientati verso il futuro, verso la chiesa. Si direbbe che Luca stia preparando i temi da svolgere poi negli Atti degli Apostoli.

TORNA ALL'INDICEa)    Le donne al sepolcro (24, 1-12)

Nell’episodio delle donne al sepolcro, Luca introduce tre modifiche (rispetto a Marco e Matteo), tutte raccolte nelle parole degli angeli (24, 5b-6).

La Galilea viene nominata, non come luogo dell’incontro con il Risorto ma come luogo delle predizioni della passione. Le apparizioni del Risorto, infatti, sono tutte ambientate  a Gerusalemme e dintorni. Luca non ha voluto turbare lo schema geografico e teologico nel quale ha racchiuso la sua intera opera (Vangelo e Atti): il Messia sale a Gerusalemme, qui si compiono gli eventi centrali della salvezza, da Gerusalemme la salvezza riprenderà il suo cammino verso il mondo.

Accanto alla formula tradizionale “è risuscitato” (verbo che di per sé significa “risvegliato”) Luca ne utilizza anche un altro: “Perché cercate tra i morti il Vivente?”. Si tratta di una formulazione paolina, più vicina alla mentalità greca. E’ una formulazione che chiarisce, se ce ne fosse bisogno, che Gesù non è tornato alla sua vita di prima, come un uomo che si è risvegliato. Il Risorto è entrato in una condizione di vita permanente: Egli è vivo e presente nella comunità.

La modifica più importante è però un’altra: le parole degli angeli concentrano esplicitamente l’attenzione sulla necessità della passione, un motivo prediletto dell’evangelista, tanto che nel nostro capitolo lo ritroveremo ancora altre due volte (24, 26.35).

TORNA ALL'INDICEb)    I due discepoli di Emmaus (24, 13-35)

L’apparizione del Risorto ai due discepoli di Emmaus è uno degli episodi più conosciuti del vangelo di Luca. Ma è soprattutto l’episodio chiave per ricordare la catechesi lucana sulla risurrezione. Il problema sembra essere questo: dove posso incontrare il Signore risorto e come posso riconoscerlo?

Tutto il lungo racconto è costruito sullo schema di un cammino di andata e ritorno, che si trasforma in un cammino interiore e spirituale: dalla speranza perduta (“speravamo”) alla speranza ritrovata, dalla tristezza (24,17) alla gioia (24,32), dalla Croce come scandalo che impedisce di credere alla Croce come ragione per credere.

La condizione essenziale per riconoscere il Risorto - senza la quale non lo si riconosce come un compagno di viaggio - è la comprensione della necessità della Croce (24,26), che a sua volta richiede l’intelligenza delle Scritture (24,27).

La crocifissione non ha spezzato il cammino di Gesù: questa è la cecità dei due discepoli che impedisce loro di credere. Tutta la catechesi che Gesù rivolge loro non ha altro scopo che quello di capovolgere il loro sguardo. Non è Lui che deve cambiare il volto perché possano riconoscerlo: è il loro modo di vedere la sua storia che deve capovolgersi. Difatti il gesto che apre  loro gli occhi è la frazione del pane, un gesto che riporta la memoria all’indietro, alla vita di Gesù terreno qui riassunto nel ricordo della cena (una vita in dono, un pane spezzato) e alla memoria della Croce che è il compimento di quella dedizione. Ma la “fractio panis” è anche un gesto che porta in avanti, al tempo della chiesa, in cui i cristiani continueranno a “spezzare” il pane. Spezzare il pane e distribuirlo (24,30) è un gesto riassuntivo che svela l’identità permanente del Signore: del Gesù terreno, del Risorto e del Signore presente ora nella comunità. In tutte le tappe del suo cammino Gesù conserva la medesima identità, quella che è svelata nel suo cammino terreno, resta  come punto di riferimento per riconoscerlo anche come Risorto. Il discepolo che ha capito questo non ha più bisogno di “vedere”; una volta riconosciuto, il Signore sfugge al possesso, ma il discepolo ormai sa quali sono i tratti essenziali che identificano la sua presenza e quale sia il luogo in cui incontrarla.

TORNA ALL'INDICEc)     L’apparizione agli apostoli (24, 36-49)

In questa scena soltanto Gesù agisce e parla: saluta, domanda, rimprovera, mostra le mani e i piedi e, perfino, mangia davanti ai suoi discepoli. Non si dice se hanno toccato Gesù e neppure, almeno esplicitamente, se hanno creduto. Di loro, però, sono descritti i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia.

Raccontando questo episodio l’evangelista ha certamente un’intenzione apologetica (elogio in difesa di una persona o di una dottrina) Gesù offre via via prove sempre più convincenti in una sorta di itinerario progressivo che proprio qui si conclude: il sepolcro vuoto, l’apparizione degli angeli alle donne, l’incontro con i due discepoli di Emmaus, l’apparizione a Pietro e, infine, a tutti gli undici riuniti. Qui Gesù mostra le mani e i piedi, si fa vedere come una persona in carne e ossa, mangia una porzione di pesce. Gesù è veramente risorto! La sua persona è reale e concreta, non un fantasma evanescente.

Il Risorto “dischiude loro la mente per comprendere le Scritture” (24,45). Senza l’intelligenza delle Scritture il discepolo può trovarsi accanto al Signore senza riconoscere chi Egli sia. E’ la terza volta che l’evangelista ritorna su questo discorso (24,7.26.46). Qui però c’è una precisazione in più. Gli eventi rinchiusi nella divina necessità non sono due ma tre: la passione, la risurrezione, la predicazione a tutte le genti. Anche la missione è inclusa nella divina necessità, non è ai margini dell’evento cristologico, ma ne fa parte. Destinatari dell’annuncio sono “tutte le genti”, dunque l’universalità più ampia possibile. E l’annuncio deve avvenire “nel suo nome”, cioè, deve poggiare sulla sua autorità, non su altro. Contenuto dell’annuncio è la conversione e il perdono. La conversione è in primo luogo la conversione della mente, una conversione teologica: il Crocifisso è rivelazione di Dio, non sconfitta. Annunciare il perdono dei peccati è proclamare che l’amore di Dio è più grande del nostro peccato. Annunciare la Croce significa annunciare un Dio che perdona.

TORNA ALL'INDICEd)    L’Ascensione (24, 50-53)

L’Ascensione conclude la storia evangelica ma nello stesso modo  apre la storia della Chiesa (Atti 1, 9-11). Per Luca l’Ascensione ha un duplice significato.

a)     E’ un salire al Padre (“veniva portato verso il cielo”), precisando in tal modo che la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi un passo all’indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un passo in avanti, nella gloria di Dio.

b)  L’Ascensione è però descritta come un distacco, una partenza (“si staccò da loro”):       Gesù ritira la sua presenza visibile, sostituendola con una presenza nuova, invisibile e tuttavia più profonda: una presenza che si coglie nella fede, nell’intelligenza delle Scritture, nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane e nella fraternità.


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