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VANGELO DI LUCA

Ultimo Aggiornamento: 23/11/2008 16:21
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23/11/2008 16:10

c)     La vocazione di Levi  (5, 27-32).

La chiamata del pubblicano Levi è un breve racconto che riproduce tutte le strutture essenziali della sequela: l’iniziativa di Gesù (“notò”), il distacco radicale (“lasciato tutto”), la prontezza della risposta, l’imperativo del seguire.

La sequela non è un’azione puntuale che si apre e subito si chiude, come una decisione che si prende una volta per sempre, ma un’azione che si prolunga nel tempo, un cammino, una decisione continuamente ripresa.

Nella chiamata di Levi c’è una nota diversa rispetto alla chiamata dei primi discepoli: Gesù chiama al suo seguito anche i pubblicani e i peccatori. I pubblicani, cioè gli esattori delle tasse alle dipendenze di Roma, erano considerati alla stregua dei pubblici peccatori.

Oltre a chiamare i peccatori al proprio seguito, Gesù siede anche a mensa con loro, un gesto, questo, ritenuto gravissimo e scandaloso, perché violava le prescrizioni della purità che vietavano la comunanza di mensa con stranieri e peccatori.

Frequentare i peccatori è un comportamento che svela  la ragione della venuta di Gesù: “Sono venuto per i peccatori”. Non è, quindi, un fatto occasionale o accidentale. Già sappiamo che l’universalità della sua missione non permette a Gesù di lasciarsi rinchiudere dalla folla (4, 42-43): Egli è venuto per predicare anche alle altre città. Ora ci viene detto che la sua missione non gli permette neppure di lasciarsi rinchiudere nello schema del puro e dell’impuro, del giusto e del peccatore.

Una discussione sul digiuno (5, 33-35)

Agli scribi che gli domandano perché i suoi discepoli non digiunano, Gesù risponde parlando di se stesso. Dopo aver detto di essere il Figlio dell’uomo che ha autorità di perdonare i peccati e il medico venuto a guarire i peccatori e poi, più avanti, di essere il Signore del sabato (6,5), in questa controversia sul digiuno proclama di essere lo “sposo”, cioè il Messia atteso. Lo sposo e le nozze sono due classiche metafore messianiche.

Le cinque controversie contengono una rivelazione cristologica, cioè una rivelazione della identità di Gesù. Chi è costui che si arroga diritti che appartengono a Dio e trasgredisce comportamenti da tutti accettati? Questo è il vero nodo di ciascuna controversia. Solo chi comprende chi è Gesù percepisce la verità delle sue parole e dei suoi gesti.

Gesù non si limita ad affermare la sua messianicità, ma predice volutamente anche il martirio che lo attende: “Quando lo sposo sarà tolto…”. In quel tempo anche i discepoli digiuneranno, e il digiuno che distingue i discepoli di Gesù, è la partecipazione al suo martirio.

Il vino e gli otri (5, 36- 39)

Il punto sul quale cade il peso dei due paragoni, è che non si può mettere insieme il nuovo e il vecchio. Si finisce col rovinarli ambedue.

Probabilmente i farisei si aspettavano un Messia che si sarebbe limitato a correggere alcuni aspetti del loro sistema religioso, Gesù invece non è venuto per rattoppare il loro vecchio mondo religioso. Lo rompe. Occorre dunque il coraggio di cambiare gli otri e il vestito.

Gesù non si cura di spiegare di quale novità si tratti, perché tutto è già spiegato con chiarezza dal contesto: il perdono, l’accoglienza dei peccatori, la libertà di fronte al digiuno, il sabato per l’uomo. E’ una novità teologica non morale. Infatti non introduce semplici correttivi sul modo con cui l’uomo deve onorare Dio, ma racconta come Dio guarda l'uomo.

TORNA ALL'INDICEd)    Dispute sul sabato (6, 1-8).

Le ultime due polemiche riguardano il sabato. Il riposo sabbatico rimanda esplicitamente al riposo che Dio si concesse dopo aver creato il mondo (Es 20, 8-11). Comunemente raccogliere le spighe in giorno di sabato era già ritenuto una violazione del comandamento. Luca rafforza la violazione aggiungendo che “le sfregavano con le mani”. L’osservanza del sabato era uno dei precetti divini più chiari, quasi una tessera di riconoscimento del vero credente. Non sorprende che i farisei chiedano ai discepoli spiegazioni: “Perché fate ciò che non è lecito fare di sabato?”.

Come sempre, Gesù risponde direttamente, come se la domanda fosse stata rivolta solo a Lui. La sua risposta è in due tempi. Dapprima rinvia alle Scritture, citando un episodio che si legge in 1 Sam 21, 1-7. Il vostro ragionamento – sembra dire Gesù – è contraddetto dalle stesse Scritture che voi venerate.

Ma subito dopo afferma – ed è questa la vera risposta – che “il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato”. Sta qui il profondo contrasto tra i farisei e Gesù, che non si riduce a una maggiore o minore rigorosità nell’osservanza delle regole. Non si tratta di introdurre qualche eccezione in più in una regola che però resta immutata. Si tratta di cambiare la radice della legge. Gesù è signore del sabato e lo subordina al bene dell’uomo. Ha l’autorità per farlo.

Una guarigione di sabato (6, 9-11).

Guarendo in giorno di sabato un uomo che aveva la mano paralizzata, Gesù ribadisce quanto appena detto: è il Signore del sabato e subordina al bene dell’uomo la sua osservanza.

Anche il giudaismo ammetteva in giorno di sabato salvare la vita con la fuga, portare aiuto a un uomo in pericolo o a una donna colta dai dolori del parto o in caso di incendio, e così via.

Ma nel caso di Gesù non c’è traccia di urgente necessità. Il suo gesto era un’eccezione alla regola, ma cambia il quadro teologico della regola.

Scribi e farisei lo osservano per accusarlo. Gesù conosce i loro pensieri e li sfida, guarendo l’ammalato con il massimo della pubblicità: “Mettiti in mezzo”.

Nelle precedenti controversie sono gli scribi che pongono domande ai discepoli o direttamente a Gesù, qui è Gesù che pone loro una domanda, ma non rispondono. Sono persone che non si lasciano interrogare né intendono discutere. Hanno già deciso (6,11).

TORNA ALL'INDICEe)     La scelta dei dodici (6, 12-15).

Inizia una nuova tappa del cammino di Gesù e compare sulla scena un personaggio nuovo: i dodici. Gesù si separa dai discepoli per pregare in solitudine, per tutta la notte,  senza sosta, fermo davanti al suo Dio.

Luca è l’evangelista che ricorda che Gesù ha pregato in tutti i momenti importanti della sua missione, specialmente quando doveva prendere una decisione. La scelta dei dodici è uno di questi momenti.

Gesù sceglie i dodici dalla cerchia più ampia dei discepoli. La loro chiamata è descritta con tre verbi: chiamare, scegliere, dare il nome. Sono verbi che pongono in evidenza la libera e gratuita iniziativa di Gesù. Perché abbia chiamato loro e non altri, non è detto. Di Giuda, posto in fondo all’elenco, si dice che tradirà. Neppure il gruppo più scelto è immune dal male.

Anche Marco e Matteo sanno che i dodici sono apostoli. Soltanto Luca però precisa che è stato Gesù in persona a dare loro questo nome. E’ un nome che indica la loro principale funzione: l’Apostolo è l’inviato autorizzato, che parla a nome di chi lo invia ed è testimone della sua volontà. La nota che lo caratterizza è la fedeltà: l’Apostolo non è autorizzato a dire parole sue o ad esprimere una volontà propria ma è totalmente vincolato alla volontà di chi lo invia. Stando agli Atti degli Apostoli - dove Luca mostra concretamente la loro funzione - gli apostoli hanno il compito di guidare la comunità, annunciare il vangelo, vigilare sulla conservazione e la trasmissione della vera fede.


TORNA ALL'INDICEC.  INTENSO SVOLGIMENTO DEL MINISTERO (6,17-9,9)


La narrazione ordinata del ministero galilaico (4,14-9,50) ebbe inizio con due episodi tipici: uno a Nazaret per mettere in evidenza il rifiuto di Gesù da parte dei suoi stessi concittadini (4, 14-30); l’altro a Cafarnao, per simboleggiare la sua accoglienza entusiastica da parte di estranei (pagani) in una città in cui egli stesso era straniero (4, 31-44). Poi Luca continua la sua narrazione aggiungendo altri importanti dettagli nel racconto della costruzione del regno con: la chiamata di Pietro, la missione dei dodici e alcune dispute con i vari gruppi ostili. Resta così allestito il palcoscenico per una presentazione della parte culminante del ministero in Galilea.

TORNA ALL'INDICEa)    Le beatitudini (6, 17-26)

La cornice di questo discorso di Gesù è molto solenne (6,17). Gesù discende dalla montagna in un luogo pianeggiante (Matteo dice invece che salì sul monte) e pronuncia il suo discorso circondato da molti discepoli, dai dodici e dalle folle venute da ogni dove, perfino dalle contrade pagane di Tiro e Sidone. Il discorso è pronunciato davanti a tutti: non solo ai dodici e non solo al popolo giudaico, ma a tutti. Tuttavia è anche vero che il discorso è particolarmente rivolto ai discepoli, le folle sono sullo sfondo, in seconda fila: “Alzati gli occhi verso i suoi discepoli”.

In questa cornice universale, Gesù è presentato nell’interezza della sua missione: annuncia la Parola, guarisce i malati, libera dallo spirito del male.

Nel quadro grandioso che abbiamo descritto, le beatitudini assumono il senso di una proclamazione messianica: un annuncio che il regno di Dio è arrivato. Dietro le beatitudini, gli esegeti, hanno intravisto il testo profetico di Isaia 61,1ss, un passo già citato da Gesù nella sinagoga di Nazaret. I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo in cui Dio si sarebbe preso cura dei poveri, degli emarginati, degli affamati, dei perseguitati e degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza, per Gesù è un presente: oggi i poveri sono beati, e la ragione è una sola: la gioia del regno arrivato. E’ alla luce di questo regno, che ha capovolto i valori comuni, che si giustifica la paradossalità di queste parole di Gesù che proclamano “felici” persone che si trovano in situazioni di sofferenza.

L’aspetto più importante è forse ancora un altro: Gesù non si è accontentato di proclamare le beatitudini, le ha vissute per primo. Ha cercato i poveri e li ha amati. Egli fu povero, sofferente, affamato, perseguitato. Sta qui il senso profondo delle beatitudini. La vita di Gesù è la chiave che permette di entrare nel loro spirito e comprenderle.

Matteo elenca otto beatitudine, Luca invece ne elenca quattro: i poveri, gli affamati, coloro che piangono e i perseguitati.

Nella sua accezione originaria la parola “poveri” (ptochoi) indica i mendicanti, coloro che fanno gesti di implorazione, si rannicchiano. Non c’è soltanto il fatto della povertà, ma anche quello di essere trascurati, poveri accanto a gente ricca, oppressi.

Coloro che piangono e coloro che hanno fame sono, sostanzialmente, una ripetizione dei poveri

Non è possibile introdurre in queste beatitudini di Luca una dimensione etica e spirituale, Luca ha di mira delle situazioni.

La quarta (i perseguitati) è la beatitudine del discepolo: si stacca quindi dalle tre precedenti che non hanno direttamente di mira il discepolo ma semplicemente il povero e l’oppresso.

Già è possibile una prima conclusione: a differenza di Matteo, Luca sembra aver di mira delle situazioni di fatto di oppressione ed emarginazione e non atteggiamenti etici (poveri in spirito, affamati e assetati di giustizia, misericordiosi, puri di cuore).

Il messaggio delle beatitudini lucane sembra essere anzitutto un severo giudizio sul mondo ricco (aspetto rafforzato dall’aggiunta delle quattro maledizioni).

Nell’interesse della cristianità che ha di fronte (Luca scrive per delle comunità che vivono in seno al mondo pagano, in città ricche di benessere) l’evangelista stigmatizza il mondo dei ricchi, dei gaudenti.

Il messaggio vuole dunque invitare a capovolgere le valutazioni: i poveri contano presso Dio, ad essi appartiene il Regno. Si noti la precisa formulazione delle beatitudini: ai poveri non viene detto direttamente di farsi giustizia, ma che ad essi appartiene il regno, e questa promessa non è al futuro, ma al presente. Il discorso evangelico è religioso, non sociologico o politico.

Ma è proprio da questo valore religioso che scaturisce il diritto dei poveri ad avere giustizia: poiché sono amati da Dio e appartengono al Regno, pertanto sono ingiuste le emarginazioni in cui sono stati confinati.

E’ possibile anche un’altra conclusione: davanti a una folla di malati, venuti per essere guariti, Gesù proclama le beatitudini. A coloro che sono afflitti, piangono e soffrono, Egli addita anzitutto un futuro diverso, non promette un cambiamento presente: “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati”. Gesù compie miracoli, ma i miracoli sono segnali di speranza, non soluzioni. Nelle beatitudini, Egli non proclama che ora non ci sarà più la sofferenza, né le molte cause che la provocano, afferma, invece, la certezza di un mondo nuovo, e questo rende possibile vivere già ora in una luce totalmente diversa.

Le beatitudini ci insegnano come un vero discepolo deve guardare la folla dei diseredati che hanno circondato Gesù e che riempiono il mondo: con occhi nuovi, con gli occhi di Dio.

Per concludere: le beatitudini vanno anche lette alla luce degli Atti degli Apostoli. Luca, infatti, descrive la Chiesa ideale come la comunità in cui “non c’era nessuno che ritenesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era fra loro comune, poiché quanti possedevano campi o case, li vendevano e portavano il ricavato ai piedi degli Apostoli. Veniva poi distribuito a ciascuno secondo che ne aveva bisogno” (At 4, 32-35).

TORNA ALL'INDICEb)    Amore verso i nemici (6, 27-38)

La parte centrale del “discorso della pianura” è dedicato allo “specifico” del cristiano che è l’amore.

Matteo dedica due capitoli (5-7) al “Discorso della Montagna”, Luca, invece, solo 30 versetti dei 107 di Matteo. Luca si limita all’essenziale: la proclamazione delle beatitudini e il comandamento dell’amore.

Il discorso della pianura di Luca e il discorso della montagna di Matteo provengono da documenti della Chiesa che radunavano insieme varie affermazioni di Gesù.

Luca, diversamente da Matteo non è interessato a mostrare l’originalità della giustizia cristiana nei confronti di quella degli scribi e farisei, è però interessato a mostrare la differenza fra il discepolo e il mondo.

L’insistenza di tutti gli imperativi e dei paragoni che qui ricorrono, riguarda un solo punto: la legge dell’amore. Gesù, infatti, parla di un modo nuovo di regolare i rapporti: non più la vecchia giustizia della parità del dare e dell’avere, ma un nuovo criterio che rompe gli angusti confini costituiti dalla reciprocità.

Il criterio della reciprocità è del tutto stravolto, per esempio la modalità del perdono (6, 27-28), va molto al di là della semplice rinuncia alla vendetta. Nei confronti del nemico vengono suggeriti quattro atteggiamenti positivi da assumere: amare, far del bene, benedire e pregare.

L’aggettivo “vostro” è importante, perché rende tutto più concreto: si tratta proprio dei tuoi nemici, e la figura del nemico non è eccezionale, ma quotidiana: non solo i persecutori (che non si incontrano ogni giorno), ma chi parla male di te, ti odia e ti tratta male. Il nemico da amare è la persona ostile che sta sotto casa.

I paragoni (6, 29-30) che immediatamente seguono (offrire l’altra guancia, non rifiutare la tunica, prestare anche a chi non restituisce) confermano che si tratta di un modo nuovo di costruire i rapporti.

Spesso ci si riferisce a questi paragoni per proclamare la non violenza evangelica. Troppo poco. Qui vengono messe in discussione le regole che noi riteniamo giuste, le uniche capaci di costruire la convivenza. La legge dell’amore esce da questi schemi di reciprocità e tende alla gratuità. Questa è la differenza fra il “peccatore” e il “discepolo” (6, 33-34). Amare chi ci ama e prestare a chi ci restituisce è l’onestà dei peccatori, non del discepolo. Gesù ha un criterio molto diverso dal nostro per distinguere i peccatori e i discepoli.

Il criterio della giustizia di Gesù è il comportamento del Padre (6,35), il cui amore per l’uomo è gratuito e universale, “benevolo” anche verso gli ingrati e gli ingiusti. L’aggettivo “benevolo” (chrestos in greco) dice l’amore attento, mite, accogliente, che non fa pesare ciò che dona.

Tutto il discorso sulla “nuova giustizia” viene riassunto con l’espressione: “Siate misericordiosi come lo è il Padre vostro” (v. 36). La misericordia è l’amore ostinato, che rimane saldo anche se non corrisposto, addirittura anche se tradito. E’ quando si condividono gli stessi comportamenti del Padre che si dimostra – prima a se stessi che agli altri – di essere veramente figli di Dio. Il figlio assomiglia al Padre: la parentela con Dio (una realtà che non è visibile) è resa concreta e visibile dalla qualità dei nostri comportamenti verso gli altri.

I detti che seguono (6, 37-38) sembrano riportare il discorso all’indietro, verso un ideale di giustizia ancora richiuso nella parità del dare e dell’avere: non giudicate e non sarete giudicati, date e vi sarà dato, con la misura con cui misurate. Ma forse Luca vuole semplicemente affermare che la nuova giustizia, che rompe lo schema della parità, non è improduttiva e nemmeno impossibile, come invece molti (anche cristiani) ritengono. Il Signore ricambia l’obbedienza del suo discepolo con una abbondanza che va oltre la misura (6,38).

TORNA ALL'INDICEc)     Alcuni paragoni (6, 39-49)

La terza parte del discorso della pianura è una raccolta di alcuni paragoni, il primo dei quali è chiamato “parabola” (6,39). Sono paragoni non uniti bene al testo precedente, in realtà non sono nemmeno ben collegati tra di loro. Sono detti staccati, pronunciati da Gesù in occasioni diverse, inseriti qui dall’evangelista perché, possono illustrare il tema della nuova legge e del vero discepolo.

Esaminiamoli uno per volta.

a) Primo paragone (6, 39-40): se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadono in una fossa. Per Matteo Gesù riferisce questa espressione ai farisei del suo tempo: guai a voi guide cieche (Mt 23,16). Per Luca, invece, il paragone non si riferisce soltanto ai farisei del tempo di Gesù, ma viene applicato direttamente ai discepoli successivi, ai maestri di oggi, che non devono essere guide cieche, ma discepoli della Parola dell’unico Maestro. La verità della parola del discepolo non sta nella sua abilità personale, ma nella sua fedeltà.

b) Secondo paragone (6, 41-42): la pagliuzza e la trave. Mettere in pratica le parole di Gesù significa anche trovare il coraggio della correzione fraterna. Ma si può incorrere in alcuni pericoli: quello ad esempio, di usare due pesi e due misure, una per gli altri e una per sé; più indulgenti verso se stessi e più rigidi verso gli altri. La conclusione del paragone è che occorre l’accortezza di incominciare la critica da se stesso. E’ nella critica di sé che si trova la giusta misura su cui regolare la nostra critica verso gli altri.

      c) Terzo paragone (6, 43-45): l’albero buono e l’albero cattivo. La prima impressione è che Gesù stia richiamando l’attenzione sulle opere. Sembra voler dire: sarete giudicati non in base al messaggio che offrite, ma in base ai segni che saprete costruire. Il paragone, però, può avere un’altra direzione: è dall’interno che provengono le azioni, buone e cattive. Il vero problema, perciò, è di cambiare l’interno, la sorgente. Difatti in 6,45 si ricorda che è dal cuore che derivano le azioni.

La conclusione del discorso (6, 46-49), verte ancora su un ultimo paragone: una casa costruita sulla roccia e l’altra sulla sabbia. E’ un paragone ricco di echi veterotestamentari. La roccia, che dà stabilità alla casa, è il Signore, la parola di Dio, la fede, il Cristo. L’inondazione nel linguaggio biblico è spesso il simbolo del giudizio di Dio. Con questo paragone l’evangelista vuole indicare le condizioni necessarie perché la vita cristiana possa svolgersi con costanza e fedeltà. La prima condizione è la necessità di appoggiarsi a Cristo (la roccia), l’unico capace di rendere incrollabile la fede del discepolo, di sottrarla alla fragilità dell’uomo. La seconda condizione è la necessità di fare la volontà di Dio. Alla dimensione della fede deve seguire la dimensione morale. Il vero cristiano è descritto da Luca con tre verbi: venire, ascoltare, fare (6,47). Il tratto delicato e decisivo è il terzo: trasformare le parole ascoltate in parole fatte, in gesti concreti.

L’affermazione che si legge in 6,46 (“perché mi chiamate: Signore, Signore, ma non fate ciò che vi dico?”) forse è una polemica contro un culto formalista che si esauriva nelle parole dimenticando la carità.

Non è da escludere che i fatti che immediatamente seguono il discorso della pianura (“Quando ebbe finito di rivolgere al popolo queste parole”) abbiano lo scopo di provare la verità delle parole dette da Gesù. Sono parole confermate dalla potenza di Dio, come mostrano il miracolo della guarigione del servo del centurione (7, 1-10) e la risurrezione del figlio della vedova di Naim (7, 11-17).

Ma l’idea principale è probabilmente un’altra: Gesù ha proclamato la grande legge dell’amore, ed ecco che Egli la osserva per primo, utilizzando la sua potenza per compiere gesti di bontà: guarisce, ridona la vita, ai messaggeri del Battista presenta come credenziali i suoi gesti di salvezza (7, 18-30), accoglie il pentimento di una peccatrice (7, 36-50), chiama a far parte del suo seguito anche alcune donne (8, 1-3).

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