È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

VANGELO DI LUCA

Ultimo Aggiornamento: 23/11/2008 16:21
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
23/11/2008 16:16

Il perdono (17, 3b-4) è necessario alla vita della comunità, come è necessaria anche la correzione. Ma deve trattarsi di una correzione fatta con discrezione. Luca ama sottolineare che Gesù è colui che perdona: alla donna peccatrice (7,48) e a coloro che lo crocifissero (23,34). Il saper perdonare è – secondo Luca – il distintivo del cristiano, la vera differenza tra il cristiano  e il pagano.

Dopo aver affermato la profonda verità del perdono, occorre onestamente ammettere che il problema non è così semplice, perché il perdono sembra spesso entrare in conflitto con altre esigenze non meno importanti, per esempio l’esigenza della giustizia, il ristabilimento della verità, la lotta per la conquista della libertà o per la difesa degli oppressi. Del resto lo stesso Gesù che ha insegnato e praticato il perdono, non ha esitato – in certe occasioni – a rimproverare e minacciare: “Razze di vipere… sepolcri imbiancati… guai a voi ricchi…”.

Dunque, il vangelo parla di perdono ma sa anche che la sua pratica non è senza problemi. Come conciliare il perdono con l’esigenza della verità e della giustizia? Come perdonare e insieme correggere? La risposta, ovviamente, va cercata nel concreto, caso per caso: un compito che impegna la coscienza e il discernimento di ciascuno. Ma almeno tre indicazioni sono evangelicamente chiare:

1)     La prima è che la disponibilità al perdono deve essere la base di fondo, il quadro irrinunciabile entro cui collocare ogni altro atteggiamento, pur legittimo e doveroso. C’è chi cerca nell’odio la forza per lottare in favore della giustizia, dei diritti legittimi, degli oppressi e c’è chi, invece, la cerca nell’amore. Solo il secondo può dirsi cristiano.

2)     La seconda indicazione è che si deve nutrire profonda avversione per l’errore e l’ingiustizia, ma non per gli uomini: un conto è l’errore, un conto l’uomo; un conto il peccato, un conto il peccatore.

3)     La terza è che il perdono evangelico è amore, non un lasciar correre. Anzi il perdono è amore esigente. E’ donato per cambiare, per convertirsi, non per lasciare le cose come stanno. Tale è infatti il perdono di Dio: denuncia del male e nello stesso tempo offerta di una possibilità di cambiamento, esattamente come ha detto Gesù alla peccatrice: “Va” (ecco l’offerta di una nuova possibilità) e “non peccare più” (ecco un imperativo che è insieme denuncia e fiducia).

La fede (17, 5-6) è, quindi, necessaria per mettere in pratica le esigenze di Gesù. Non è certamente questo l’unico passo in cui si parla della fede. Luca ne parla con una certa frequenza, specialmente nei racconti di miracoli. Nella guarigione del paralitico (5,20), alla peccatrice in casa di Simone (7,50), all’emorroissa (8,48), al lebbroso straniero (17,19), al cieco di Gerico (18,42).

Gli interventi salvifici di Gesù sono sempre legati alla fede. E che tipo di fede bisogna avere? Anche se Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, è chiaro che non è la fede dell’uomo che salva, ma la potenza di Dio. La fede però ne è la condizione, senza la fede anche la potenza di Dio si annulla. Perché? Perché aver fede significa riconoscere la nostra impotenza e, nello stesso tempo porre tutta la fiducia nella potenza del Signore. La fede è il rifiuto di contare su di sé per contare unicamente sul Signore.  E’ questo lo spazio interiore necessario che il Signore vuole per donarci la salvezza e il coraggio di seguirlo. Ma se la fede è tutto questo, allora è anche chiaro che non è qualcosa che possiamo ricavare da noi o costruire da soli: anche la fede è, a sua volta, un dono. E non resta perciò che chiederla, come hanno fatto i discepoli: “Signore aumenta la nostra fede”. Lo ha fatto Gesù stesso nei confronti di Pietro: “Simone, ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno” (22,32).

All’insegnamento sulla fede segue ora una parabola (17, 7-10), esclusiva di Luca.  Indirizzata agli apostoli (v.5), questa parabola avverte i capi della Chiesa che essi non possono mai fermarsi e riposarsi nella convinzione di avere già lavorato abbastanza. Questa piccola parabola, non intende descriverci il comportamento di Dio verso l’uomo, ma indicarci come deve essere il comportamento dell’uomo verso Dio: totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti. Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: tanto di lavoro e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno. Dopo una giornata piena di lavoro, non dire “ho finito” e non accampare diritti. Non vantartene e non fare confronti con gli altri, ma dì semplicemente: ho fatto il mio dovere, sono soltanto un servo.

TORNA ALL'INDICEw)  I dieci lebbrosi (17, 11-19)

Gesù è in viaggio verso Gerusalemme e, ogni tanto, Luca si preoccupa di ricordarcelo (17,11). I dieci lebbrosi che incontrano Gesù si mostrano rispettosi della legge: si fermano infatti “a distanza” e “alzano la voce” (Lev. 13,46). Anche Gesù si mostra rispettoso della legge e li invia dai sacerdoti per farsi rilasciare il certificato della guarigione (Lev. 11,2-3). Contrariamente alla mentalità diffusa del suo tempo, Gesù non considera i lebbrosi come dei maledetti, degli impuri da evitare o come dei peccatori castigati, ma li accoglie e li guarisce, per lui non ci sono persone da escludere, persone che debbono fermarsi a distanza.

C’è un altro punto che bisogna sottolineare: i lebbrosi sono inviati ai sacerdoti prima ancora di essere guariti: “Appena Gesù li vide disse: Andate a presentarvi ai sacerdoti”, e mentre essi andavano furono sanati”. Con questa annotazione l’evangelista vuole sottolineare l’abbandono fiducioso di quei lebbrosi. Hanno pregato Gesù (“Gesù maestro abbi pietà di noi”) con tanta fiducia e poi obbediscono prima di vedere i frutti della loro preghiera, così la guarigione sembra un dono per la loro fiducia in Gesù. Questo insegnamento è comune a tutti i miracoli ma il nostro racconto lo sottolinea in modo esplicito.

Ma la lezione principale del miracolo è un’altra: un samaritano torna indietro per ringraziare Gesù. Questo samaritano è chiamato “straniero” da Gesù, cioè di “altra razza”, di “altra religione”. E’ proprio lui si ricorda di “dar gloria a Dio”, un privilegio questo, che molti giudei pensavano spettasse solo al loro popolo. Così un samaritano fa sfigurare i giudei. Non è l’unica volta che Luca sottolinea questo motivo: una prima volta Gesù si è meravigliato della fede di un pagano (7,9); un’altra volta, nella parabola, ha presentato un samaritano come modello di carità generosa (10,34) e non invece un sacerdote e un levita. Nei due casi lo straniero – che per la mentalità corrente era un miscredente – è presentato come un modello di fede e di amore. A volte i lontani sono più disponibili dei vicini.

Un’ultima riflessione: il samaritano, tornando indietro e ringraziando Gesù, ha capito qualcosa del suo mistero, ha intuito che il dono è giunto attraverso il suo incontro. Anche gli altri nove hanno avuto fiducia, ma non ancora vera fede, anche gli altri nove sono stati guariti, ma solo il samaritano è dichiarato “salvato”. Un conto è la guarigione e un conto è la salvezza. La salvezza evangelica avviene solo quando il cuore si apre alla conoscenza di Cristo, una conoscenza che rinnova e pone in cammino: “Alzati e va’”.

TORNA ALL'INDICEx)     Il giorno del Figlio dell’uomo (17, 20-37)

Tutto il brano è una raccolta di parole escatologiche del Signore, riunite da Luca intorno al tema del “giorno del Figlio dell’uomo”. Luca è molto interessato ai problemi riguardanti il ritorno del Signore. La domanda di partenza è introdotta dai farisei: “Quando verrà il Regno di Dio?”. Ma poi tutto il discorso è rivolto ai discepoli (17,22.37). Luca è convinto che si tratti di parole del Signore che riguardano soprattutto i cristiani. E’ frequente la tentazione e la curiosità di localizzare l’avvento di Dio nel tempo e nello spazio. Gli impazienti si interrogano spesso sul quando, sul dove e sul come. La prima preoccupazione dell’evangelista è che l’attesa del Signore non degeneri in speculazioni, fantasie e impazienze (17, 20-24). La venuta del Signore sarà un evento prevedibile e osservabile, e questo perché il Regno di Dio è già in mezzo a noi ed è di natura diversa (17, 20-22).

Previsioni e profezie (eccolo qui, eccolo là) sono sogni che non vanno inseguiti. Il Signore tornerà all’improvviso, come un lampo. Quando verrà sarà chiaro e tutti lo vedranno. Non servono indagini.

Il problema importante è un altro: capire che il Figlio dell’uomo (e con lui il discepolo) prima deve soffrire (17,25). Attendere il Signore significa seguirlo sulla via di Gerusalemme, non smarrirsi nella ricerca di segni premonitori.

Ciò che conta è essere pronti, non distrarsi, non lasciarsi sorprendere. Può accadere anche oggi quanto è avvenuto al tempo di Noè e di Lot: distratti dalla vita, gli uomini non sanno cogliere il momento propizio per la salvezza (17, 26-30).

A questo punto Gesù accumula paragoni vivacissimi (17, 31-36) per indicare la venuta improvvisa del giudizio e la sua radicalità. Non ci sarà neppure il tempo di entrare in casa e di tornare dal campo. E sarà un giudizio severo: “L’uno verrà preso e l’altro lasciato”, Gesù precisa questa volta che il giudizio farà distinzione tra persone che fino a quel momento erano unite. La fine sarà una catastrofe che separerà due che dormono in uno stesso letto, due donne impegnante nello stesso lavoro mattutino. Dio prenderà l’uno, lo sottrarrà alla distruzione e abbandonerà l’altro al suo destino e lo lascerà perire. In quel giorno le decisioni dovranno essere rapide e nette, possibili solo a chi si è preparato a lungo e con grande attenzione. Simili rapide decisioni non si improvvisano.

Ma cosa dobbiamo fare per essere attenti e pronti nel momento decisivo? Come si deve vivere l’attesa? Su quale base avverrà il giudizio: uno verrà preso e l’altro lasciato?

Il riferimento ai contemporanei di Noè e di Lot ci aiutano a rispondere a queste domande. Questi abitanti non sono presentati qui come esempi di immoralità, ma soltanto di disattenzione. Non sono distratti a causa della sregolatezza o di bagordi o altro, sono distratti semplicemente per gli impegni della vita: mangiano bevono, si sposano, vendono e comprano. Anche la vita ordinaria può appesantire il cuore, se non si rimane vigilanti.

TORNA ALL'INDICEy)     La preghiera (18, 1-8)

Luca ha già parlato ampiamente della preghiera al capitolo 11, insegnando soprattutto che cosa chiedere (il Padre nostro) e come chiedere (la parabola dell’amico importuno). Ora conclude il discorso con la parabola del giudice e della vedova. L’introduzione della parabola appartiene alla redazione dell’evangelista e mostra che Luca utilizza questa parabola per educare il discepolo a una preghiera perseverante. La preghiera assidua non consiste nel moltiplicare la parole: “Quando pregate non sprecate parole come i pagani…” (Mt 6, 7-8). Non bisogna confondere la perseveranza con l’insistenza fastidiosa, né con la ripetizione meccanica e stucchevole. Tanto più che, se è vero che Dio ascolta sempre, è altrettanto vero che ascolta a modo suo. Non sempre ci dà quello che chiediamo, ma sempre quello che il suo amore gli suggerisce (11, 9-11). Perseverare nella preghiera significa sempre fidarsi di Dio, sia quando ci ascolta, sia quando sembra ignorarci. Ed è proprio questo il caso che Luca intende illustrare. Difatti non dice soltanto di pregare sempre, ma aggiunge “senza stancarsi”, e questo sottende una situazione di delusione, provocata dal comportamento di Dio che sembra, a volte, venire meno alle sue promesse.

Fin qui abbiamo commentato le parole introduttive, importanti per comprendere lo scopo per cui Luca ha raccontato la parabola. Ma se si legge la parabola con attenzione, ci si accorge che essa si muove in una prospettiva differente. La figura principale non è la vedova che con la sua preghiera ostinata induce il giudice a farle giustizia, ma il giudice stesso. L’insegnamento della parabola non va cercato nell’insistenza dell’uomo, ma nella prontezza di Dio nel fare giustizia ai suoi eletti.

L’espressione “fare giustizia” ricorre quattro volte in questo brano (18,3.5.7.8) e può essere presa come parola chiave per la sua interpretazione. La sete di giustizia costituisce l’atmosfera dell’intera parabola. Nella Bibbia la vedova è il simbolo della persona debole, indifesa, povera e maltrattata. E così comprendiamo che qui la vedova rappresenta i poveri che domandano giustizia, il bene che si vede sconfitto. La preghiera della vedova somiglia alla preghiera dei martiri di cui parla l’Apocalisse: “Fino a quando, o Dio santo, tarderai a fare giustizia e a chiedere conto del nostro sangue a coloro che abitano la terra?” (Ap, 5,10).

A questo punto l’orizzonte della parabola si è molto allargato: non più soltanto il problema della preghiera e della sua efficacia, ma il problema della giustizia di Dio che sembra molte volte essere messa in discussione dalla storia. Se Dio è un Padre amorevole, perché le disgrazie? Se Dio è giusto, perché l’ingiustizia trionfa sul mondo? Gesù risponde nella parabola: continuate a pregare con insistenza e con fiducia. L’intervento di Dio non è soltanto certo ma “pronto”. Il vero problema non è l’intervento di Dio (che Dio faccia giustizia nella storia è infatti certo), ma la nostra fede: “Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora fede sulla terra?”. In altre parole: non siate inquieti né scoraggiati perché Dio sembra tardare a fare giustizia: piuttosto preoccupatevi per la vostra fede.

TORNA ALL'INDICE- Il fariseo e il pubblicano (18, 9-14)

Il fariseo è un osservante scrupoloso della legge e il suo torto non sta nell’ipocrisia, ma nella fiducia nella propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, la sua salvezza come un dono, ma piuttosto come un premio dovuto per il dovere compiuto. Difatti la sua preghiera si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo atteggiamento non c’è nulla di preghiera. Non chiede nulla e Dio non gli dà nulla.

L’atteggiamento del pubblicano, invece, è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Dice infatti la verità: fa gli interessi dei romani invasori ed è esoso nell’esigere i tributi. La sua umiltà non consiste nell’abbassarsi, ma nella consapevolezza di essere peccatore  e nel sentirsi bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Conta su Dio non su se stesso, è questa l’umiltà di cui parla la parabola ed è questo l’atteggiamento che Gesù loda.

La conclusione è chiara e semplice: l’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio – nella preghiera e nella vita – è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Le opere buone le dobbiamo fare, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri. Il confronto con i peccati degli altri, per quanto veri essi siano, non ci avvicina a Dio.


__________________________________________________

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 13:21. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com