È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva

Storie di conversioni

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2010 19:43
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
07/07/2009 17:25

Storie di conversione:  Sigrid Undset

Conquistata da una «pittoresca rovina»


di Claudio Toscani

"È venuto a cercarmi nel deserto":  così Sigrid Undset, narratrice e saggista norvegese (1882-1949) e premio Nobel per la letteratura nel 1928, descrive il suo incontro con Cristo. È il momento determinante della sua conversione al cattolicesimo, poco più che quarantenne, culminata nel 1924 durante un viaggio a Montecassino, dopo aver seguìto consigli e preparazione del padre Karl Kjelstrup.

Una conversione non folgorante, e neanche romantica (nel senso di estetico-decadente o sentimentalmente estenuata) così come non filosofica né di razionalistico ripudio ma, dicono gli studiosi - padre Ferdinando Castelli, ad esempio, o un illuminato intellettuale poeta come Davide Rondoni - dopo inquietanti esperienze giovanili e un lungo percorso di maturazione religiosa.



Una conversione del cui preparatorio iter spirituale è assente ogni diretta documentazione:  non una crisi mistica, dunque, ma un lungo, serio, "agostiniano" cammino verso un progressivo svelarsi della "realtà dell'eternità e dello spirito, e della provvisorietà del tempo e dei fenomeni".

Ma non è che l'opera non parli, anzi, si può trovare a ogni pagina, da un certo momento in poi, ovviamente, lo stigma del dono:  "Allora a Kristin - si legge nel libro maggiore della Undset - si svelarono in tutta la loro verità le parole dell'insegnamento divino (...) Una riconoscenza infinita le gonfiava il cuore, poiché ora sentiva che, nonostante tutto, la sua anima inquieta si illuminava pallidamente dei riflessi dell'amore che aveva acceso l'anima del padre:  calmo e luminoso come il cielo al limite del lago".

Nata a Kalundborg, in Danimarca, da madre danese e padre norvegese, alla scomparsa del genitore, celebre archeologo, l'undicenne Sigrid è costretta a lasciare gli studi e a impiegarsi presso una azienda di commercio di Oslo. Dieci anni dura per lei questo poco soddisfacente lavoro, fino a quando, pubblicati i due suoi primi libri (Madame Marta Oulie nel 1907, e L'età più bella l'anno successivo) decide di dedicarsi interamente alla scrittura. L'amore umano, l'essere donna e la famiglia, sono i suoi primi, ma poi ricorrenti temi.

Durante un viaggio a Roma incontra il pittore Andrea Svarstad e lo sposa nel 1912, ma deciderà di lasciarlo, madre di tre figli, nel 1919. Prima del grande evento del 1925, da Poveri destini (1912) sino al capolavoro assoluto Kristin, figlia di Lavrans (la trilogia del 1920-1922), la Undset trascorre dal mondo delle antiche saghe nordiche al mondo contemporaneo, ferme restando un'idea profonda e severa della vita interiore, la difesa delle peculiarità femminili e la concezione religiosa della vita.

Dentro il risveglio spirituale postbellico dopo la prima guerra mondiale, che in quei Paesi nordici a larghe libertà civili andava configurandosi tra approfondimento dell'ortodossia luterana, reviviscenza di ordini riformati, evoluzione morale di certo femminismo, misticismo popolare esente da dogmi, la Undset sceglierà un non formale ritorno alla Chiesa romana. Dal momento che il problema religioso si era insediato al centro della sua creazione artistica - c'è chi a tal proposito ha ricordato il celebre dilemma di Barbey d'Aurevilly:  "Il colpo di pistola o la Croce" -, se non è possibile affermare che tale dilemma si sarebbe stemperato nella certezza della nuova fede, stavano comunque apparendo in lei, di libro in libro, un profondo lavoro di rinnovamento interiore, il tenace orgoglio neofita, l'imperativo morale e i postulati metafisici cristiani. È il dramma della coscienza a imporsi ormai nella sue pagine:  l'antitesi tra amor sui e amor Dei, eternamente attuale nell'anima umana, che tra gioie, sofferenze, speranze e sconforti acquista, prima, senso di graduale, faticosa, oscura realtà ultraterrena; poi, di presente certezza dell'eterno. Vive un tempo di iniziale agnosticismo, sia pure nata e cresciuta in ambiente luterano, la Undset, non assorbita più di tanto dalla cultura laica del momento, tra evoluzionismo, scientismo e positivismo. Comunque non crede in Dio, nega la divinità di Cristo ("genio religioso", non altro), considera la Chiesa una "pittoresca rovina" e la religione un "affare di gusto".

Seguono poi anni di dubbi tormentosi, studi appassionati e di sismiche epifanie intellettuali, ideali, speculative e spirituali. A cominciare dalla scoperta della presenza del cattolicesimo nella Norvegia del basso medioevo; non furono le imprese dei vichinghi, ma i contatti con l'Europa e l'assimilazione della civiltà cristiana a integrarla con il resto del continente.

L'esclusivo umanesimo dei "teofobi" si sgretola di fronte all'avanzante verità e bellezza della fede cattolica. Ogni conversione è un insindacabile tocco della Grazia, ma la Undset confessa che fra i segni tangibili del suo accostarsi al cattolicesimo c'è quello della "solidarietà umana così assoluta fra le cellule viventi del corpo mistico di Cristo"; c'è la convinzione che "Dio ci ha salvati prendendo la nostra carne e il nostro sangue"; c'è l'evidenza che nel culto dei santi e della Vergine sta "la realizzazione delle intenzioni di Dio su di noi".

E ci sono l'onore e la dignità che la Chiesa cattolica riserva alla verginità, nonché la certezza che "in Cristo, Dio ha fondato la sua Chiesa quale agli uomini occorreva". Sul piano storico, poi, senza la presenza del cristianesimo, nel Nord come ovunque, il mondo sarebbe stato solo teatro di violenza, di sopraffazione e di menzogna, mentre eccessi, dolori, peccati e altre umane traversie trovano la loro più valida alternativa nella Parola della carità, della verità e della speranza.

Nel periodo in cui la Undset conferisce alle sue opere maggiori la potenza delle geniali creazioni dello spirito, oltre a un'impressionante intensità rappresentativa, la sua vita religiosa si manifesta con l'avvincente verità di una conquistata santificazione dell'anima. Pur ispirandosi ampiamente al mondo della saga - sin da adolescente lei si era nutrita, sulle orme del padre, di medioevo nordico "crescendo nella storia" - queste opere, sia per struttura e per atmosfera che per stile, sono percorse da quell'inesausto respiro simbolico in cui solo culminano espressioni e complessità di eterno significato umano.

Ritmo epico e splendore di vita; passato vichingo e patrimonio leggendario; studi storico-scientifici e tradizione pagana dei popoli scandinavi:  ecco i piani e le prospettive che si erano incontrati in lei e nella sua cultura con la dottrina cristiana, rivelando una forza spirituale viva e operante, oltre allo stimolo per una più profonda coscienza civile e sociale. Non la frattura ma il compimento; la correzione e il progresso anziché la cesura o la censura.

Il 1928 è l'anno del Nobel. Termina con queste parole la motivazione del riconoscimento:  "È nel pieno sviluppo del suo ingegno che Sigrid Undset lo riceve, omaggio reso a un poeta il cui genio non può avere le sue radici se non in uno spirito veramente grande e potentemente organizzato".

Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale la vita della Undset è colma ma serena. Romanzi ancora storici, ma anche romanzi contemporanei, raccolte di saggi, un'opera autobiografica e altre di memoria.
L'evento bellico la annienta. In seguito all'occupazione tedesca della Norvegia nell'aprile del 1940 - già dagli anni Trenta fiera oppositrice di Hitler - è costretta all'esilio, prima in Svezia, poi in America. Perde un figlio in guerra e una figlia per malattia. Quando torna in Norvegia, nel 1945, vive ancora quattro anni, ma senza più scrivere una sola parola.


(©L'Osservatore Romano - 6-7 luglio 2009)
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
17/07/2009 08:44

Storie di conversione:  Federigo Tozzi

In cerca di senso dove dominano le tenebre


di Marco Testi

"Quando si comprenderà che la religione è la nostra anima, una parte profonda della nostra rivelazione, un mistero di meno, tornerà in onore di servirsi di Tommaso d'Aquino per interpretare più esattamente la nostra anima.

Noi non possiamo negare  le  scoperte scientifiche, siano esteriori o interiori,  anzi  dobbiamo  prenderle  e  dare nuovo  nutrimento  alla  complessità  fondamentale della nostra fede:  le scoperte passano e si oltrepassano, e si superano; e la nostra religiosità si fa sempre più decisa  e più profonda, quasi trasportata dalla voluttà intellettuale di sempre più rinnovare e modificare le nostre conoscenze. (...) Non si capisce perché la scienza della forza elettrica debba diminuire la nostra anima!".



Se non fosse per il linguaggio datato si potrebbe pensare a un intervento dei nostri giorni sulla questione dei rapporti tra fede e scienza. In realtà chi scriveva queste righe non aveva ancora potuto leggere i fondamenti della relatività generale, che sarebbero stati divulgati nel 1916, e neanche, ovviamente, i nuovi princìpi della scuola di Copenaghen culminati con il Nobel per la fisica ad Heisenberg.

Il fatto è che Federigo Tozzi, scrittore a quel tempo isolato nella letteratura e nella vita, scriveva Quel che manca all'intelligenza nel 1913. Il saggio, da cui è estratto il brano citato, veniva pubblicato su "La Torre", rivista uscita a Siena quell'anno e diretta proprio da Tozzi e da Domenico Giuliotti, altro  isolato, che aveva avuto il merito di trascinare il  giovane senese Federigo nell'avventura dell'"organo  della reazione italiana", giudicato dai futuristi forcaiolo, retrivo, conservatore e "passatista".

Nel 1913 il futuro autore di uno dei capolavori della narrativa del Novecento italiano, Con gli occhi chiusi, era impegnato in una battaglia campale contro la società a lui contemporanea, accusata tra l'altro di ateismo e materialismo.
Scriveva la coppia Tozzi-Giuliotti sul primo numero de "La Torre", dal sintomatico titolo "La nostra fede":  "Noi vediamo che, quando l'uomo respinge Dio, diventa servo delle passioni, tiranneggiato dalla bestia interna, affumicato dall'ignoranza, pazzo. (...) Noi dopo avere ansimato, in una notte afosa, per viottoli serpeggianti che sboccavan su precipizi e in paludi, abbiamo ritrovato la Via, la Verità e la Vita. Per questo ci arroghiamo il diritto di rampognare gli erranti".

Facciamo grazia al lettore di alcuni passi, spesso giudicati scandalosi, di questa sorta di manifesto di un certo modo di intendere i rapporti tra cattolicesimo e mondo - come "la necessità del boia", la fede non come "inginocchiatoio", bensì come più pericoloso "coltello", l'elogio dell'intolleranza ("noi siamo intolleranti") - per soffermarci sull'aver "ansimato per viottoli serpeggianti che sboccavan su precipizi e in paludi". Questa caduta sulla strada di Damasco ci aiuta a capire come un socialista massimalista come Tozzi - appartenente cioè alla corrente di estrema sinistra dell'allora partito socialista, materialista e darwiniano dichiarato, spregiatore della borghesia tutta casa, famiglia e chiesa - sia potuto divenire il difensore a oltranza proprio di quella accezione della fede che egli aveva così tanto disprezzato da più giovane, tenendo conto che l'artista è morto nel 1920 a soli trentasette anni.

Dobbiamo ricorrere alla testimonianza di colei che ha contribuito più di altri al suo ritorno alla fede, Emma Palagi Tozzi, la Annalena di Novale, la raccolta di lettere di Federigo alla futura moglie. Secondo Emma, "per accertarsi dell'entità di questa fede sarà bene osservare che il Tozzi veniva da famiglia cattolica praticante, ed era stato da bambino ammesso ai sacramenti. Poi, adolescente, e specie nel periodo dell'entusiasmo socialista, non aveva voluto più credere. (...) Ma è da supporsi che i germi della fede deposti nell'anima del fanciullo, anche se non sembrava, avessero trovato dove mettere radice, perché appena egli riuscì a liberarsi dal socialismo e delle cattive amicizie la fede risorse. Da quel punto, che coincide con la sua malattia agli occhi (1904), torna ad ammettere l'esistenza di Dio; e ciò chiamerà poi conversione (...); ma non è da intendersi conversione nel senso di accettazione concreta del dogma cattolico. A ciò non arriverà che dopo aver imparato, con la propria esperienza, che la fede vuole essere accompagnata dall'azione perché solo in essa è la realtà".

Ma come? Proprio l'autrice del ritorno alla fede del rude, scontroso, estremista Federigo mette in dubbio quella che Tozzi in persona chiamò in un articolo del 1913 "la mia conversione"? Il fatto è che, come avviene anche per altri personaggi della letteratura e dell'arte, Tozzi ha due personalità. Nelle lettere private Verga plaudiva gli interventi dell'esercito contro gli scioperanti in piazza, ma nel cuore rovente della sua grande opera si chinava commosso - e insieme cronista impassibile - sul destino dei suoi poveri pescatori.

Tozzi era nel contempo pieno di Dio, un Dio tenuto dentro di sé, e tormentato dalla melancholia e dal dubbio. Anche nell'ultimo anno della sua vita salutava il padre cappuccino che aveva raccolto la sua confessione, pieno di ansia e di interrogativi. La sua era stata sì una conversione alla fede, ma questa si era innestata su un ceppo tarlato già in partenza da un conflitto insanabile tra individuo e società.
I viottoli serpeggianti, i precipizi e le paludi di cui parlano Tozzi e Giuliotti non sono pure figure retoriche. Per Federigo come per Domenico si trattava di un vero e proprio passaggio, reale e tangibile:  si erano trovati di fronte ai limiti precisi di una concezione della vita meccanicistica, a rapporti umani improntati unicamente al calcolo interessato, e si erano sentiti perduti. Hanno riascoltato una voce antica che non veniva da fuori, ma da dentro. Perché come scrive lo stesso Tozzi "cercare Dio - il corsivo è dell'autore - significa spingere l'anima fin dove le è concesso di arrivare; e più in là non è possibile. E io non temo nessuno, all'infuori di Dio che è in me".

Lo scrittore poneva l'accento su quel cercare:  voleva dire, con quella sottolineatura, che fondamentale era il viaggio, il movimento, la tensione verso, e non la tranquilla meta dove riposarsi una volta per tutte, proprio come, pochi anni prima, aveva scritto Carlo Michelstaedter.
Queste sono le strade della conversione di Tozzi:  quelle di un infinito processo che continua tutta la vita. Questo è, infine, il cristianesimo del senese:  una inesausta ricerca di senso laddove prevalgono le tenebre.

In questo sta il valore e non il limite della fede tozziana, che è pur sempre una dimensione tutta umana, sottoposta a tensioni, a dubbi, a revisioni:  nel cercare non dentro i confini già acquisiti, predicando e scrivendo per i già convertiti, ma spingendosi nelle terribili terre della violenza gratuita, dell'odio senza motivo, del ringhio contro gli altri, che risale alla bestia primigenia, del furore sordo contro se stessi.
Solo con questa sonda è possibile capire come mai un uomo che aveva conosciuto la grazia abbia potuto scrivere racconti nei quali essa sembra assente. Il regno del Podere è quello dello scenario archetipo dell'agnello sacrificale, che va inerme incontro alla morte, come se a quella morte aspirasse profondamente. Ma già in Con gli occhi chiusi lasciava intuire una visione profondamente intrisa di religiosità, anche se proprio questa ha fatto parlare alcuni di visione manichea, di Dio dello spirito contrapposto a quello della materia.

Nel suo capolavoro i nomi sono la chiave del significato perché davvero qui nomina sunt consequentia rerum:  Domenico, il padre, si aspetta che il figlio raccolga la sua eredità produttiva, mentre Pietro, il figlio recalcitrante e fuori dalla realtà, rimanda al tradimento. Quel tradimento continua nei figli che rigettano la realtà del padre, con tutto il portato simbolico che si nasconde dietro questo rifiuto.
A volte sembra che i personaggi tozziani non solo non vedano la realtà, ma vivano in un altro spazio, interiore e abissalmente legato alla psiche. In accordo con tutta una realtà culturale, scienza compresa, che iniziava a presentare il mondo non più come un compatto fuori-di-noi, ma come un magmatico e irrazionale rapporto tra l'io pensante e la materia, senza più precisi confini.

Non che non esistano nella grande narrativa tozziana sprazzi di redenzione:  il fatto è che essi esistono proprio in quanto esiste il grande problema del male. Si prenda la conclusione dell'ultimo suo libro:  Tre croci, una storia sulla dissoluzione di tre fratelli. I due unici personaggi esenti da una primitiva e spesso inspiegabile violenza, le nipotine Lola e Chiarina, "pregavano inginocchiate, con le mani congiunte vicino ai mazzetti di fiori:  e, in mezzo a loro, il morto doventava sempre più buono. Il giorno dopo spaccarono il salvadanaio di coccio e fecero comprare da Modesta tre croci eguali:  per metterle al Laterino", il camposanto di Siena.

Ecco dunque l'assoluta incisività di un passo che, pur semplicissimo, attinge a dinamiche profondissime della psiche. Come quel morto che "doventa" più buono, in virtù delle preghiere - le uniche nel romanzo - di due vere e proprie entità salvifiche, la cui apparentemente infima azione di piantare tre croci, tutta chiusa nella pagina finale, dà il titolo all'opera.


(©L'Osservatore Romano - 17 luglio 2009)
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
22/09/2009 06:45

La conversione di Charles Péguy

Guidato nel deserto soltanto dalla voce della memoria


di Edoardo Caprino


Racchiudere una complessa personalità in un piccolo saggio può spesso apparire una forzatura e un puro esercizio di stile incapace di riconsegnare al lettore un'immagine fedele.
Jean-Pierre Dubois-Dumée, uno dei più grandi giornalisti cattolici francesi - già direttore de "La Vie Catholique" e fondatore della rivista "Prier" - riuscì a presentare la figura di Charles Péguy focalizzando la sua attenzione sulla solitudine che sempre accompagnò il celebre scrittore, poeta e saggista. 
Una vita tormentata quella di Péguy, poco più di quarant'anni di esistenza intensamente vissuti, sintetizzabili in alcune immagini:  un abbandono, un cammino nel deserto e, infine, un ritorno alle origini; all'essenza di una fede ritrovata.

Nel saggio dato alle stampe nell'immediato secondo dopoguerra (1946) intitolato non a caso Solitude de Péguy, Dubois-Dumée esplora intensamente la vita di Péguy, le sue amicizie, le sue passioni e le conseguenti disillusioni e delusioni - un nome per tutti:  Jean Jaurès - personalità non facile quella dell'animatore dei celebri "Les Cahiers de la Quinzaine".
Péguy abbandona in giovane età la fede trasmessagli dalla madre. Affascinato dalle grandi personalità del mondo filosofico e politico di allora, - come dimostra Dubois-Dumée - insegue inconsciamente nel socialismo umano di Jaurès quegli ideali di povertà, di giustizia e di carità che appartengono alla fede cattolica da lui allora disprezzata e abbandonata.

Ma il fuoco arde sotto la cenere; il pensiero di Péguy rifugge una visione scientifica del socialismo; egli non può abbandonare il pensiero verso l'imponderabile, l'indefinibile. Anche in quei frangenti il suo pensiero appare quello di un mistico.
La sua sete di giustizia e verità si esprimerà nella battaglia in difesa di Alfred Dreyfus. Ma ormai lo scrittore di Jeanne d'Arc (1897) sta maturando il suo profondo cambiamento interiore; lontano e anzi avversario di tutti gli intellettualismi, Péguy appoggia e ammira il pensiero di Bergson come lotta contro il mondo moderno in quanto sente la necessità e l'urgenza di far recuperare alla Francia la sua anima più profonda, l'anima assetata di fede in Cristo risorto.

Nel 1907 la svolta; solo pochi amici - tra cui Jacques Maritain e Joseph Lotte - vengono a conoscenza della crisi che Péguy sta vivendo. Una svolta vissuta in solitudine; un lento, inesorabile lavorio interiore; un autentico cammino di grazia avvenuto senza l'aiuto di un sacerdote.
Anzi, Péguy riconquistando quella fede accantonata negli anni precedenti, non abbandonerà le sue critiche contro certe espressioni di clericalismo e di intellettualismo presenti  nella Chiesa francese di allora.
Proprio per questo la sua conversione, la sua autentica riscoperta di fede in Cristo, verrà guardata sempre con disagio dai vertici ecclesiastici; Péguy arrivò infatti a domandare una nuova teologia.

La sua riscoperta della fede fu autentica, verace, ma vissuta nella contraddizione familiare ove i figli non furono battezzati in quanto lo scrittore dubitava che la sua scelta di vita fosse approvata dalla consorte.
Péguy per due anni non pubblicò più nulla all'interno dei suoi "Cahiers". È questo il segno del suo cammino interiore, di quella "voce della memoria" che lentamente si faceva sempre più presente in lui.
Dubois-Dumée evidenzia come sia improprio parlare di conversione per Péguy; per il giornalista francese scomparso nel 2001 siamo di fronte "a un'adesione a una fede nuova".
Siamo ben lontani dall'illuminazione che colpì Paul Claudel. Quello di Péguy è uno scavo silenzioso, solitario, all'interno della sua persona, per riscoprire la fede vissuta da bambino. Péguy non ha bisogno di consigli:  lascia parlare il suo cuore, si lascia attrarre dal mistero della carità che sarà incarnato da Giovanna d'Arco e dalle poche altre figure che animano la celebre opera del 1910.

Proprio Le Mystère de la charité de Jeanne d'Arc presenta plasticamente il passaggio dell'autore - rispetto alla prima edizione - dall'azione alla contemplazione, con una visione totalmente rivolta al Cristo, ormai vero maestro e compagno di vita. Leggendo quest'opera, come le successive, si può ammirare attraverso le preghiere e le riflessioni, in esse inserite, il rapporto diretto che Péguy crea direttamente con Gesù e con sua Madre. Un rapporto franco; una fede genuina, animata dalla ricerca di vivere il grande mistero di amore per l'uomo, la passione per la giustizia che si fa preghiera e intercessione per i peccatori affinché tutti possano vivere l'azione della Grazia.

La Giovanna d'Arco del Mistère è per Dubois-Dumée l'imitazione di Cristo a cui Péguy si ispira; Giovanna è quindi l'intercessore tra Péguy e Cristo. La fede per Péguy non sarà automatico approdo alla pace; le vicende familiari, l'abbandono degli amici accresceranno la sua solitudine; il cristianesimo che traspare dal Mistère non è approdo, ma continua ricerca alle domande profonde dello scrittore. Come ricorda Dubois-Dumée la fede di Péguy "è totale e senza riserve" provata nel quotidiano, capace di riconoscere i propri limiti umani e di affidarsi alla Vergine per proteggere i suoi figli.

La fede di Péguy, come scrisse in Un nouveau théologien, si rispecchia in quei cattolici rimasti puri, alieni ai domini temporali e alla ricerca della povertà. Una fede radicale e lontana dalle mediazioni; e Péguy troverà la pace e la serenità, da lui disperatamente cercate, poche settimane prima di morire in guerra a Villeroy. In una lettera a un amico egli confidò di aver lasciato Parigi con le mani pure. Pure, come quell'animo di fanciullo che connotava la sua fede tanto faticosamente raggiunta trovando pienezza nella preghiera.


(©L'Osservatore Romano - 21-22 settembre 2009)
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
05/11/2009 18:38




Storie di conversione

Ludovico di Breme e la nausea per la «filosofia del tornaconto»


di Roberto Pertici

Nel 1798 François-René de Chateaubriand era un "emigrato" che viveva stentatamente in Inghilterra, dove aveva pubblicato l'anno avanti un Essai sur les Révolutions. Uno degli ultimi capitoli del libro era intitolato Quale sarà la religione che sostituirà il cristianesimo? giacché egli era convinto del suo crollo imminente:  "Le religioni nascono dai nostri timori e dalle nostre debolezze, ingrandiscono nel fanatismo, muoiono nell'indifferenza". Nel luglio dell'anno successivo, ricevette una lettera della sorella Julie che annunziava la morte della madre:  "Se tu sapessi quante lacrime hanno fatto versare alla nostra venerabile madre i tuoi errori, quanto deplorevoli siano apparsi agli occhi di chi pensa e fa professione non solo di pietà, ma di buon senso".

Quando quel messaggio raggiunse René al di là della Manica, anche la sorella se n'era andata:  "Le due voci uscite dalla tomba - avrebbe ricordato lo scrittore - la morte che faceva da interprete alla morte, mi hanno colpito. Sono diventato cristiano. Non ho ceduto, lo riconosco, a grandi luci soprannaturali:  la mia convinzione è sgorgata dal cuore, ho pianto e ho creduto". Da questa conversione sarebbe scaturito il Génie du Christianisme pubblicato nel 1802:  un'opera il cui enorme successo segna veramente l'avvento di un nuovo clima spirituale.

Mentre la cultura europea del Settecento era stata caratterizzata in gran parte dall'"irreligione", culminata nell'immenso trauma rivoluzionario, proprio la "dura scuola delle rivoluzioni" (l'espressione è di Tocqueville) avrebbe provocato un mutamento profondo, soprattutto nelle classi in cui quell'"irreligione" si era tanto diffusa:  l'aristocrazia e gli ambienti intellettuali.

Della prima - fra i numerosi esempi che si potrebbero addurre - uno dei più studiati in ambito italiano è quello della famiglia di Camillo Cavour; la più celebre e feconda fu quella di Alessandro Manzoni, che (secondo una tenace tradizione) ebbe il suo atto finale nella chiesa parigina di San Rocco il 2 aprile 1810, ma era maturata lentamente nel quinquennio precedente. Un percorso parzialmente diverso presenta il "rinnovamento" di Ludovico di Breme, di poco posteriore, avvenuto ancora nel mondo del nascente romanticismo italiano, di cui l'abate piemontese sarebbe stato uno dei più geniali teorizzatori e apologeti.
 
Ludovico Arborio Gattinara dei marchesi di Breme era nato nel 1780 da una delle più importanti famiglie del regno di Sardegna, proprietaria di buona parte del Novarese. Figlio cadetto, si era avviato alla carriera ecclesiastica e nel 1804 era stato ordinato sacerdote. È difficile stabilire quanto questa scelta sia stata frutto di una genuina vocazione o abbia corrisposto a un'affermata convenzione sociale e ancora più arduo valutare la qualità della sua fede religiosa di questi anni. Egli avrebbe in seguito sottolineato di averla compiuta in tempi duri per la religione, dopo l'invasione francese e la fine della monarchia sabauda (1798):  "Presi la veste nera quando molti ecclesiastici se ne spogliavano; allorché un numero ancora maggiore come minimo provava imbarazzo a indossarla, poiché essa esponeva al disprezzo e alla vergogna". Non si capisce la personalità di Breme senza tenere sullo sfondo questa situazione:  cioè la gravissima lacerazione religiosa operata dalla rivoluzione francese e dalla sua espansione in Europa e le enormi difficoltà attraverso cui, anche dopo il concordato napoleonico del 1801, poté riprendere una vita ecclesiastica "normale". Anche perché - com'è ben noto - il nuovo padrone d'Europa condusse una politica di assoggettamento dell'istituzione ecclesiastica, giungendo fino al tentativo di scisma.

Fin da subito, Breme si trova di fronte agli effetti della scristianizzazione rivoluzionaria:  all'indomani del concordato, entra come cappellano in un ospedale militare francese, dove nelle prime settimane viene accolto dagli scherni antireligiosi che i soldati ricoverati ricavavano dalla letteratura libertina settecentesca e solo poco alla volta riesce a conquistarne il rispetto e l'amicizia. È quindi probabile che agli inizi della sua carriera ecclesiastica, il suo zelo religioso avesse ancora slancio e freschezza, che tuttavia si appannarono negli anni successivi. Come quella di Cavour, la sua famiglia apparteneva a quella frazione dell'aristocrazia piemontese che si era inserita nel nuovo ordine napoleonico:  mentre i Cavour restarono a Torino, i di Breme si trasferirono a Milano.

Il giovane sacerdote bruciò le tappe di una folgorante carriera alla corte del viceré Eugenio:  nel 1807 è membro del Consiglio di Stato, poi elemosiniere della corte, vicegovernatore della Casa dei paggi (dove venivano educati i rampolli delle grandi famiglie del regno) nel 1811 cavaliere della corona di ferro.
Ma se si scorrono le sue Lettere, pubblicate nell'ormai lontano 1966 da Piero Camporesi, ci si rende conto che la sua religione di questi anni è puramente esteriore e pienamente inserita nel clima del concordato napoleonico:  nelle sue numerose missive all'arcivescovo di Ravenna Antonio Codronchi, il giovane sacerdote trasmette puntualmente la volontà del Governo all'autorità ecclesiastica.

Una religiosità di questo tipo si può coniugare con una vita sociale brillante e anche con qualche passione amorosa, come quella per la contessa Anna Serbelloni, moglie di uno dei più grandi aristocratici lombardi, il conte Luigi Porro.
Eppure fra il 1811 e il 1812, il tono delle lettere comincia a mutare:  il suo interlocutore nelle questioni di religione è un uomo della generazione di suo padre, l'abate Tommaso Valperga di Caluso, grande amico di Vittorio Alfieri, filosofo, matematico e studioso di lingue orientali. In materia di religione, Caluso, che pure era credente e sacerdote, non era propriamente un entusiasta:  tuttavia ebbe sempre la delicatezza di non ostacolare la ricerca religiosa del suo più giovane amico.

Fra il 1812 e il 1813, Ludovico vagheggia un'opera sur l'Esprit et les moeurs du jour, di cui ci sono rimasti diversi frammenti:  vi conduce un'insistita polemica contro l'ateismo, il deismo, il materialismo illuminista.
Nega - con un procedimento che poi sarà anche quello della Morale cattolica di Manzoni - che gli errori, le degenerazioni, le collusioni col potere di molti ministri di Dio possano discendere dalle verità del Vangelo. In un punto soprattutto Breme ha oltrepassato il secolo XVIII:  nel rifiuto del sensismo, dell'empirismo di Locke e della filosofia degli idéologues. La loro scienza - scriverà nel 1817 - lascia fuori di sé troppi indiscutibili "fatti spirituali"; accetta dell'uomo solo ciò che è passibile di analisi, cioè di dimostrazione; lo considera un insieme di sensazioni, non un centro di attività autonomo e spontaneo.

Il sensismo conduce a concepire la possibilità dell'ateismo, a identificare la virtù con l'utile immediato, a sottoporre l'arte alle regole e ai canoni. Il nuovo spiritualismo di Breme riconosce invece che nell'uomo è vivo un "senso intimo" che gli suggerisce il sentimento della divinità, una virtù non frutto di calcolo, l'esigenza di una creazione artistica libera.

Probabilmente queste suggestioni platonico-agostiniane giungevano all'abate piemontese dall'opera del cardinale savoiardo Hyacinthe Sigismond Gerdil, il massimo esponente di quella linea italo-francese di filosofi cristiani sulla scia di Malebranche di cui Étienne Gilson e il nostro Del Noce hanno poi più volte sottolineato l'importanza.

Tuttavia queste importanti acquisizioni intellettuali e la diffusa stanchezza per gli obblighi della vita di corte non sarebbero state sufficienti a far precipitare la sua crisi religiosa, che emerse invece dopo la prematura scomparsa di Anna Serbelloni il 25 giugno 1813. Quella morte destò in lui "spaventose inquietudini" sullo "stato delle anime che, come la sua, sono involate alla presente misera vita senza aver mai, durante quella, fatto uno studio assiduo di cose sante e, quel che è più, avendo anzi tenuto alcuni dubbi su certi punti rivelati", come confidava al Caluso. Il vecchio studioso rimase sconcertato da queste paure, dal fatto che l'abate di Breme volgesse ormai "alla religione tutti i più caldi affetti", ma al solito non volle contrariarlo:  tutt'al più si impegnò ad "arginare" questo suo nuovo atteggiamento. Ludovico sentiva riaffiorare con forza la fede ritrovata e lo scriveva all'amico, quasi con intima meraviglia:  "D'onde avvenga che dopo la sera del venerdì 10 corrente e più persuaso io mi senta delle cose cattoliche, e più desideroso di vivere e morire in quella persuasione, non lo so intendere". Per coloro che non si sentono investiti dallo sguardo di un "Dio giudice e Padre" le grandi verità morali perdono il loro più fermo sostegno:  "Siam consigliati ad ogni tratto dalle sociali circostanze di sacrificarle al momentaneo tornaconto ed al più pressante interesse dell'amore proprio". La lettera si concludeva con un drammatico accenno alla redenzione:  "... quel sangue dell'Uom-Dio, oh sì quel Sangue... più della carta che mi manca, m'impedisce di proseguire la commozione...".

Il ritorno di Breme alla fede non fu privo di incertezze e di ricadute:  raggiunse la sua pienezza soltanto negli ultimi istanti della sua vita, a metà dell'agosto del 1820. Ancora pochi giorni prima, aveva chiamato al suo capezzale l'amico Manzoni, che stava passando da Torino di ritorno dalla Francia, "per aprirgli i suoi dubbi su cose di religione". Nella sua ultima lettera all'amico Pellico, Breme aveva però accennato al faccia-a-faccia a cui si stava avviando:  "Vorrà vedere Iddio perché il cuore mio è pieno d'amore".


(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2009)
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
01/01/2010 10:41



Storie di conversione:  Ada Negri

Fammi uguale a quelle foglie nel sole


di Cristiana Dobner

"Pace, lavoro, pane!". Questo grido di una giovane donna di ventidue anni non nasce da un'astrazione o da una vaga azione politico sociale, sgorga dall'esperienza di quella maestra che porta il nome di Ada Negri, detta Dinin.

Lodigiana, figlia di un manovale e di una tessitrice, "madre operaia", semplice popolana, Ada Negri passò l'infanzia nella portineria del palazzo del conte Barni, coniuge del famoso soprano Giuditta Grisi, di cui la nonna della bimba era governante. Due stili di vita opposti che si incisero nel suo immaginario psicologico, creando una sensibilità molto viva per i poveri e i diseredati; in filigrana tutto trasparirà nel romanzo autobiografico Stella mattutina del 1921.

Fu la madre, con il duro lavoro in filanda - il padre era morto quando la bimba aveva solo un anno - a consentire alla sua intelligenza di svilupparsi. Ada diventerà maestra elementare e riscatterà la sua condizione sociale, ma rimarrà sempre un "fringuello" che canta "a gola perduta nella piccola gabbia appesa al sole".

Lo sfruttamento e il confronto con la borghesia scossero l'animo della bimba e la resero sensibile al bisogno altrui; fu ostile alla Chiesa proprio per la difficoltà dei poveri, degli emarginati.
Dai diciotto anni Ada insegnò, tanto da guadagnarsi l'appellativo di "maestrina di Motta Visconti", scrisse però anche articoli per "Il Secolo" e "Il Corriere della Sera", rimanendo nel profondo  una  poetessa  tanto  da  riunire, nel 1892, le sue composizioni dense di liricità apparse dapprima nella "Illustrazione popolare", nella raccolta Fatalità.

La fama le arrise immediatamente e fu  un  trionfo, tanto  da  ricevere  dal ministero dell'Istruzione il titolo, ad honorem, di docente nelle scuole di ordine superiore. Ada, insieme alla madre, si trasferì così a Milano all'Istituto Gaetana Agnesi.
Fin dall'esordio ebbe il plauso dei lettori, riconoscimenti da parte di editori, giornalisti e professori. Penetrò nelle scuole. Due autorevoli critici però la criticarono:  Croce e Russo.
Il Partito socialista italiano l'attirò e entrò in contatto con i suoi membri di spicco:  Filippo Turati, Benito Mussolini e Anna Kuliscioff, che la sentì "sorella ideale". Se Ada si era fatta voce degli umili, con lo stesso vigore ed ardore abbracciò gli ideali sociali e fascisti, in vista di un riscatto sociale che tanto pesò sulla sua esistenza.

Ada Negri fu insignita del Premio Milli per la poesia nel 1894, anno in cui uscì la seconda raccolta di poesie:  Tempeste. La somma legata alla vittoria era una rendita annua che le consentì una tranquillità economica.
Una natura melanconica, vibrante di sentimento, di fantasia e originalità. Una solitaria anche se partecipe delle tensioni politiche e sociali. La denuncia sociale del mondo della fatica e della miseria che lavora tredici ore al giorno, è il basso continuo della sua scrittura e della sua poesia, la tematica che più la colpisce, venne definita quindi "poetessa del Quarto Stato".

"Il Giornale d'Italia" le riserva ben poco spazio, aggiornando solo sulle sue pubblicazioni con due soli articoli. Il 15 febbraio 1904 vengono stampate, per concessione dell'editore Treves, alcune poesie tratte dalla raccolta Maternità suscitata in lei dalla nascita della prima figlia.
Ada fu solitaria per scelta perché amava  affermare "i veri scrittori e poeti non appartengono a gruppi e chiesuole".

La vita sentimentale di Ada Negri non fu felice, il matrimonio nel 1896 con l'industriale tessile biellese Giovanni Garlanda fallì nel 1913, lasciandola con la figlia Bianca e il dolore della morte di Vittoria a un solo mese di vita. Iniziò così il suo periodo dei viaggi, con residenza in Svizzera dove la figlia era stata mandata a studiare lingue e Ada aveva deciso di seguirla per non rientrare più in patria.
La poesia di Ada fu trasformata da queste dolorose vicende e divenne più introspettiva, come si nota in Maternità e in Dal Profondo. L'esilio a Zurigo rese il suo amore di patria più vivo e fece virare la sua passione sociale in passione patriottica.

Ada non rimase indenne da un'altra passione d'amore che si concluse rapidamente perché colui che amava morì di spagnola nello stesso anno in cui lo conobbe e trovò la sua espressione in Il libro di Mara per culminare nel romanzo autobiografico Stella mattutina del 1921 di cui Flora scrisse:  "Qui è la rapida scrittura piena, qui il franco stile intraveduto e voluto dalla Negri fin dal suo esordio (...) Qui è una prosa che canta e in ogni ritmo scopre la realtà:  qui nei periodi l'ispirazione ha il correre delle limpide acque che passando riflettono colori accesi, luci intense ed astri".

Nel 1940 il culmine del successo fu la nomina a membro dell'Accademia d'Italia quale unica donna ammessa. Sempre sotto l'ombrello del regime fascista. Il membro dell'Accademia era tenuto a notificare i suoi spostamenti in territorio italiano, in compenso poteva servirsi di una vettura di rappresentanza inviatale dal Prefetto. Ma un'altra amarezza si aggiunse alla sua già tormentata vita:  il rifiuto del premio Nobel, a cui era stata candidata dal governo italiano, probabilmente per la sua adesione al fascismo, che invece nel 1926 fu attribuito a Grazia Deledda.

A Capri, dove giunse dopo il viaggio in Sicilia nel marzo del 1923, mentre percorreva una scala scoccò per lei il momento della grazia:  "Dovrò pur salire gli scalini, arrivare fino a lassù, toccar con le mani la nube che s'affaccia a mezzo dell'arco. Nessuno è con me:  non vi sono appoggi:  non vi sono che le due muraglie scabre:  non v'è che questo candore. Quando sarò là in cima troverò Dio. Povera è la scala; e non la salgono, io ne sono certa, che piedi scalzi o difesi da umili suole di corda. Anch'io sono povera:  povera di tutto:  non ho chi mi ami, né chi mi protegga:  se non mi guadagno la mia giornata, non ho di che vivere. La scala è adatta ai miei piedi; ed io la salirò così divotamente, che Dio non mi respingerà".

Si appassionò a Caterina da Siena e scrisse un libro su di lei. Allo scoppio della prima guerra mondiale Ada lasciò la Svizzera e servì negli ospedali italiani. Da una lettera scritta nell'inverno di guerra, il 28 dicembre 1942, a una amica che prestava servizio come crocerossina, sappiamo dell'affinità della poetessa con Teresa del Bambino Gesù:  "La mia sorella celeste, guida ad ogni mio passo, ci ottenga il più assoluto e fiducioso abbandono allo Spirito di Dio".

L'ultima raccolta, Fons vitae, ormai trasuda il distacco dalla vita, che avverrà nel 1945:  "Fammi uguale, Signore, a quelle foglie / moribonde che vedo oggi nel sole / tremar dell'olmo sul più alto ramo. /  (...) Fa ch'io mi stacchi del più alto ramo / di mia vita, / cioè, senza lamento / penetrata di te come del sole".


(©L'Osservatore Romano - 1 gennaio 2010)
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
17/02/2010 11:46

Storie di conversione:  Daniel Rufeisen

Un ebreo infiltrato tra le SS


di Cristiana Dobner

Il nazismo, la sua ideologia e le stragi compiute in nome della purezza della razza sono una marea nera che ha inquinato la storia del xx secolo, in cui i valori umani sono stati stravolti e conculcati. Ma la dignità della coscienza ha avuto la meglio e ha vinto in tante persone che hanno accettato il costante tormento di rischiare la vita, perché hanno imboccato la via della verità umana e della Verità donata da Dio alla libertà umana.

Così fu per l'ebreo Oswald Rufeisen nel 1939:  poco più di un ragazzo - aveva infatti solo diciassette anni - nato a Zadziale in Polonia, poverissimo ma ricco di intelligenza e del dono delle lingue, fluente in tedesco tanto da passare per tedesco. L'intelligenza di Oswald si era dimostrata ben presto sui banchi di scuola, superando i coetanei per destrezza e profondità; gli ebrei allora non avevano facile e semplice accesso nelle istituzioni scolastiche, anche quando le famiglie erano in grado di sobbarcarsi l'onere delle spese. Fu anche membro di quel movimento sionista giovanile Akiva, allora non socialista ma orientato verso un'esperienza di vita in un kibbutz e, successivamente, verso il Partito liberale.
Al momento dell'invasione della Polonia, a Oswald e al fratello rimanevano ben poche chance:  la fuga verso il sud era impossibile, bloccata a tutte le frontiere, perciò la loro meta fu Vilna, dal momento che la Lituania godeva di un breve periodo di indipendenza politica. Breve perché due furono le ondate successive:  prima i sovietici, poi i nazisti.
Vilna, in quel momento, sembrava essere il punto focale di raduno per centinaia di giovani sionisti che volevano raggiungere l'Europa. Vivere allora significava sopravvivere in modo elementare, nutrirsi, lavorare dove capitava, trovare ospitalità sotto un tetto amico potendo specchiarsi e specchiare la propria angoscia in giovani volti che condividevano le stesse paure, le stesse ansie nella precarietà quotidiana. Con sotteso un interrogativo lancinante:  "Domani sarò ancor vivo?".

Quando i sovietici concessero qualche numero limitato di visti, Oswald volle che il suo giovane fratello raggiungesse la tanto agognata Palestina ed ebbe il coraggio di rimanere ancora nella trappola mortale. I nazisti lo ridussero a lavoratore-schiavo:  tagliava la legna nelle gelide foreste fuori città. Il ragazzo, piccolo di statura e magro, di modi affabili e gentili, trovò però un contadino disposto a rischiare nel proteggerlo, assumendolo come lavoratore. Del resto, sembrava davvero un tipico tedesco grazie alla sua ottima padronanza della lingua, ai capelli biondi e agli occhi azzurri. Oswald, quando il pericolo strinse le sue spire e la coscienza lo richiamò all'aiuto dei fratelli braccati, cambiò residenza; scappò dalla Lituania nella Russia Bianca, fermandosi a Mir, una cittadina di cinquemila abitanti a est della Polonia, vicino al confine russo, dove ancora vivevano molti ebrei rinchiusi in una sorta di ghetto nel diroccato palazzo del nobile polacco Mirsky, dopo un eccidio che era costato la vita a 1.500 ebrei.
Il giovane Rufeisen in fuga da Cracovia verso Mir aveva trovato dei documenti tedeschi in un fagotto abbandonato sull'orlo della strada, li prese e constatò come gli si addicessero:  biondo, occhi azzurri... ariano!

Poté così essere reclutato dalla Polizia e diventare l'organizzatore e il salvatore di tanti civili. Ne seguì l'addestramento, mentre l'ottima conoscenza della lingua locale fu determinante per la sua promozione:  nell'autunno 1942 divenne SS Oberscharführer.
Nervi saldi e prontezza di risposta e azione gli consentirono di lavorare nella polizia militare tedesca, il cui temibile capo Serafamovich terrorizzava la popolazione e gli ebrei. In quanto traduttore viveva al suo fianco, sempre con l'incubo che un minimo errore potesse svelare la sua origine ebrea.
Un giovane sionista in un uniforme tedesca! Così lo videro e riconobbero alcuni sionisti fuggiti ai massacri di Vilna. Berl Resnik, un rifugiato, entrò un giorno nell'ufficio di Oswald che gli chiese perché non lo avesse salutato dicendogli "shalom". Berl, tremando, pensò si trattasse di una trappola; quando Oswald gli rivelò la sua identità tirò il fiato.

Il doppio gioco non poteva che accrescere la tensione nel giovane Oswald, che però continuava a rischiare:  rubò fucili dai quartieri generali della polizia e li passò agli amici ebrei del ghetto. L'apice del rischio fu raggiunto dopo una telefonata che riuscì ad ascoltare fra il suo capo e le SS:  era fissata la data per la liquidazione del ghetto di Mir. Con mille stratagemmi, molta astuzia e un batticuore perenne, Oswald avvisò gli amici e menò il can per l'aia con la polizia tedesca conducendola a nord alla ricerca di partigiani russi. Almeno 300 ebrei riuscirono a fuggire dal ghetto e a trovare rifugio nelle foreste Nabuloki a sud.
Il sospetto cominciava a gravare su di lui per quella scomparsa improvvisa di tanti ebrei. Oswald fu interrogato quindi da un ufficiale delle SS e, vista la mala parata, una volta rimasto solo nell'ufficio, afferrò un fucile e scappò dalla finestra verso i campi aperti. Fu rincorso, gli spararono ma riuscì a fuggire e a raggiungere un convento dove le suore lo nascosero. Non fu una bravata il salvataggio di tanti ebrei ma un atto che costò a Oswald l'abbandono della sicura divisa tedesca per un abito religioso (per di più femminile).

Un mese dopo, quando un partigiano che aveva ricevuto da Oswald un paio di stivali fu trovato morto e sfigurato  in  volto,  il  fuggitivo  fu dato per morto e il caso considerato chiuso.
Grazie al coraggio delle suore, da quel 16 agosto 1942 alloggiò nascosto nel solaio del fienile proprio nel cortile adiacente a quello della polizia che aveva "servito" fino a poco prima. Appena arrivato nel convento, completamente esausto, cadde in un sonno profondo di almeno ventiquattro ore. Risvegliatosi trovò vicino a sé una rivista in cui si raccontavano i miracoli avvenuti a Lourdes per intercessione di Maria Immacolata; incuriositosi chiese di poterne sapere di più. Oswald così racconta quei drammatici momenti:  "Poi chiesi il Nuovo Testamento e iniziai a studiarlo. Lessi pure diversi libri ebraici che avevo trovato nel solaio. Ero colmo di domande. Mi stavo chiedendo perché simili tragiche cose stessero avvenendo al mio popolo. Mi sentivo proprio un ebreo, mi identificavo con la difficile situazione del mio popolo. Mi sentivo pure sionista. Desideravo raggiungere la Palestina, il mio stesso Paese (...) con questo quadro mentale mi esposi al Nuovo Testamento, un libro che descrive eventi avvenuti nella mia patria, la terra cui anelavo. Tutto questo deve aver creato un ponte psicologico fra me e il Nuovo Testamento. Per quanto possa sembrare strano, avevo un diploma di scuola superiore polacca ma non avevo mai letto il Nuovo Testamento. Nessuno me lo aveva richiesto. Relativamente alla Chiesa conoscevo solo cose negative. Nutrivo pregiudizi contro la Chiesa. In convento, tutto solo, mi creai un mondo artificiale pretendendo che duemila anni non fossero mai passati. In questo mondo di credenza creato da me stesso venni a confronto con Gesù di Nazaret (...) se non lo comprenderete, non comprenderete la mia lotta per il diritto alla mia nazionalità ebraica (...) così ero di fronte a Gesù di Nazaret. Devi comprendere che non tutta la storia su Gesù è la storia della Chiesa. La storia di Gesù è un frammento della storia ebraica. Così seguii gli scambi di idee e di controversie fra Gesù e alcuni degli ebrei, diversi tipi di ebrei. Presto cominciai ad apprendere sempre di più sulla posizione assunta da Gesù.
 
Mi ritrovai in accordo con la visione e l'approccio di Gesù al giudaismo. I suoi sermoni mi toccavano fortemente. In questo processo in un certo qual modo trascurai quanto avvenuto più tardi nella relazione fra ebrei e cristiani. Nello stesso tempo avevo bisogno di un maestro, di qualcuno che mi indicasse la via, una guida, qualcuno forte (...) e così giunsi al momento in cui Gesù muore sulla croce e poi risorge. Improvvisamente, non so come, identificai la sua sofferenza e la sua risurrezione con la sofferenza del mio popolo e la speranza della sua risurrezione. Cominciai a pensare che se un uomo giusto muore, non per i suoi peccati ma per le circostanze, allora deve essere Dio, perché è Dio che lo riporta alla vita. Allora pensai che se c'era giustizia per Cristo nella forma della risurrezione, ci sarebbe stata pure una qualche forma di giustizia per il mio popolo. Ero tagliato fuori dalla mia ebraicità da circa un anno. Ero separato da tutto quanto era ebraico. Sentivo che per l'ebreo in questa Chiesa doveva esserci un posto riservato, non mi sbaglio su questo. Mi convinsi che forse io avevo una qualche speciale funzione da svolgere in questa Chiesa, forse migliorare, fissare la relazione fra ebrei e cristiani (...) alla fine il mio andare verso il cristianesimo non fu una fuga dall'ebraismo, anzi, al contrario, fu una via per trovare risposte al mio problema da ebreo. Quando compresi che mi trovavo di fronte alla decisione di abbracciare il cattolicesimo iniziò in me una battaglia psicologica. Avevo tutti i pregiudizi sugli ebrei che si convertono al cristianesimo. Ben consapevole di questo, temevo che il mio popolo, gli ebrei, mi avrebbero rifiutato. In realtà, non lo fecero. In ogni caso, la battaglia psicologica durò due giorni. Durante tutto questo tempo piansi molto, chiedendo a Dio la guida (...) non era una battaglia intellettuale, intellettualmente accettavo Gesù. L'intero problema riguardava la futura relazione con il mio popolo ebraico, mio fratello, magari con i genitori se erano vivi (...) avrei dovuto riportare gli elementi ebraici nel Nuovo Testamento, io stesso sarei stato uno di questi elementi ebraici, e altri come me. Ci sono molte persone come me, cristiani che si considerano ebrei".

Quando la madre superiora andò a far visita a Oswald il dialogo fu rapido e franco; le chiese di essere battezzato in quel giorno stesso "perché oggi è il compleanno di mio padre. Voglio dimostrare che c'è continuità, che non sto rifiutando l'ebraismo ma accettando la sua speciale forma".
"Ma non sai nulla del cristianesimo" obiettò la madre. Oswald rispose:  "Credo che Gesù fu il Messia. Per favore mi battezzi oggi".
In serata, una delle suore lo battezzò:  "Da quel giorno ebraismo e cristianesimo sono sempre stati il centro della mia stessa esistenza". Neppure tre settimane dalla sua spericolata fuga. Nell'inverno del 1944 Oswald dovette abbandonare temporaneamente il suo rifugio perché la polizia indagava troppo da vicino; incontrò un partigiano cui chiese notizie degli ebrei di Mir, questi lo portò al comando russo nella foresta e la vicenda di Oswald suonò strana, venne ritenuto una spia. Fu difeso però da Breslin che aveva soccorso e dovette provare la sua identità partecipando al sabotaggio di un treno carico di soldati tedeschi che fece saltare in aria.

La pressione nazista sulla cittadina cresceva, anche le suore della Risurrezione che si erano prodigate per aiutare la popolazione, e gli ebrei in particolare, furono costrette a evacuare l'edificio; a Oswald non restò che la fuga nella foresta. Ancora una volta divenne traduttore, questa volta fra partigiani e prigionieri tedeschi. Quando l'Armata Rossa avanzò verso occidente, per Oswald fu facile identificare i collaboratori dei nazisti, a questo proposito egli testimoniò anche nel 1982.
Nella Polonia occupata, travolta dalla guerra, Oswald trovava via via rifugi precari, lavori dimessi e faticosi, persone che coprivano la sua identità, datori di lavoro che intuivano ma tacevano, con grande pericolo. Ignorava la sorte degli amati genitori, pensava fosse salvo in Israele il giovane fratello.
Mir fu liberata dall'Armata Rossa nel giugno 1944, Oswald con Breslin e i sopravvissuti raggiunse la cittadina. Improvvisamente però scomparve, come svanito nel nulla. Sarebbe ricomparso come padre Daniel-Maria del Sacratissimo Cuore di Gesù, carmelitano e prete dal 29 giugno 1952.
Nel 1956 coronò il suo sogno ottenendo dai superiori di risiedere in Israele, dove ritrovò il fratello, membro di un moshav, gli amici del giovanile movimento Akiva e i superstiti di Mir.

Chiese quindi di esservi riconosciuto quale ebreo in forza della Legge del ritorno approvata dalla Knesset nel 1950, ma la richiesta venne respinta. Rufeisen ricorse alla Suprema Corte di Israele e così si trovarono a confronto il Rabbinato e la Suprema Corte dello Stato d'Israele, con due giudizi differenti:  per l'uno Oswald Rufeisen, nato da genitori ebrei era legato al popolo di Israele, indipendentemente dalla sua decisione di abbracciare la fede cristiana; per l'altro non poteva essere insieme prete cattolico ed ebreo.
Fratel Daniel perse la causa nel 1962:  ogni ebreo convertito a un'altra religione avrebbe perso l'accesso preferenziale alla cittadinanza nello Stato di Israele. Più tardi ottenne la cittadinanza naturalizzandosi come cittadino israeliano e vivendo nel convento carmelitano di Haifa.


(©L'Osservatore Romano - 17 febbraio 2010)
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
15/03/2010 21:02

Storie di conversione:  il conte Grigorij Suvalov

«Non posso dare due rubli invece di dare tutto»


di Andrea Maria Erba

 "Ci sono - scrive Roberto Ugo Benson - mille e mille strade che conducono alla città. Uno sarà guidato dal suono dell'organo, un altro dal profumo dell'incenso, uno se ne andrà tenendo una Bibbia in mano; questi è uno storico, quegli un mistico, il terzo un filantropo; questi è il peccatore che implora il perdono; quell'altro un uomo semplice che vuol essere illuminato, quello infine è un santo che reclama l'unione con Dio; uno è condotto dalla mano della madre, l'altro si strappa agli amici per seguire Cristo. Così se ne vanno, questi mille e mille, seguendo ciascuno la propria strada, ciascuno mosso da una potenza che gli resta misteriosa, ma tutti finiscono per incontrarsi davanti alla stessa porta, quella porta di cui si parla nell'Apocalisse, che tutti devono varcare e che è fatta di una sola perla".
Se ogni itinerario spirituale, da sant'Agostino al cardinal Newman, è sempre un dramma che si svolge nell'intimo della coscienza, poche conversioni sono state così dolorose come quella del conte russo Grigorij Suvalov, diventato padre Agostino barnabita. Nato nella Chiesa ortodossa, ma cresciuto nell'indifferentismo religioso, attraversò, si può dire, tutte le strade prima di giungere, di chiarezza in chiarezza, alla luce della verità. La dirittura morale, l'anima sincera e naturaliter christiana, lo spirito vivo e penetrante, sensibile e appassionato per tutto ciò che è puro e nobile, l'inquietudine che lo tormentava nella ricerca della felicità; soprattutto la scuola del dolore e il culto dell'amicizia lo accompagnarono costantemente e aprirono nel suo cuore la via alla grazia, alla fede, alla pace sognata.
Suvalov apparteneva a una famiglia aristocratica, benemerita della patria, delle arti e della cultura. Uno zio, generale dell'esercito, ebbe l'incarico di accompagnare Napoleone sconfitto all'isola d'Elba, un altro suo antenato aveva fondato l'università di Mosca.
A Pietroburgo, dov'era nato il 25 ottobre 1804, il piccolo Grigorij compì i primi studi nella scuola dei gesuiti. Rimasto orfano di padre, su consiglio dello stesso imperatore, fu collocato in un collegio protestante vicino a Berna in Svizzera. Qui studiò letteratura e poesia e si diede agli sport. Si trasferì poi a Pisa dove apprese la lingua italiana così bene da poterla maneggiare con scioltezza sorprendente. Il risveglio critico della giovinezza lo portò a una breve avventura sentimentale e lo immerse nelle teorie filosofiche del nichilismo assorbito da un poemetto di Friedrich Schiller che lo accompagnerà per lungo tempo.
A 18 anni Grigorij è un giovane esuberante e pieno di baldanza e l'imperatore Alessandro i lo nomina capitano degli ussari. Torna in patria e alla corte degli zar conosce la futura moglie:  Sofia Soltikov, una creatura tenera e nobile, profondamente religiosa che morirà nel fior degli anni tra continue sofferenze, ortodossa ma "cattolica nell'anima e nel cuore". Da essa avrà due figli:  Pietro e Elena.
La morte di Sofia spinse Suvalov a studiare la religione. Leggendo la Bibbia rimase colpito dal testo giovanneo che riporta la preghiera-testamento di Gesù:  ut unum sint. Scrive nelle sue memorie:  "Pareva deciso che quella parte del vangelo di san Giovanni dovesse convertirmi (...) Per la prima volta compresi che la verità è "una", perciò non vi può essere che "una" fede, "una" dottrina e che se il Cristianesimo è verità, non vi può essere che "una" Chiesa".
Dapprima si orientò verso la Chiesa greca ed ebbe colloqui con un sacerdote ortodosso. Costui, animato da retta intenzione, ammetteva come "buonissima" la Chiesa di Roma e diceva:  "Sono due sorelle, perché non vivere in pace l'una accanto all'altra?". Suvalov ebbe anche simpatie verso il protestantesimo, ma presto se ne ritrasse.
Un giorno si imbatté nelle Confessioni di sant'Agostino:  fu una rivelazione! "Lo leggevo incessantemente, ne copiavo intere pagine, ne stendevo lunghi estratti. La sua filosofia mi riempiva di buoni desideri e di amore. Con quale trasporto di contentezza trovai in quel grand'uomo sentimenti e pensieri che fino allora avevano dormito nell'anima e che quella lettura ridestava".
Fu il classico colpo di fulmine che gli svelava nuovi orizzonti:  si innamorò per sempre del santo:  "Ho trovato in lui le mie follie, i miei dolori e la mia speranza. Desideravo, chiedevo, invidiavo il suo amore, il suo fervore, la sua fede". Il libro provvidenziale era stato un dono del gesuita Minini. Una sera, dopo aver ascoltato una predica del dotto religioso, Suvalov gli si era avvicinato per dirgli con abbandono confidenziale:  "Voglio diventare veramente cristiano, ma non immaginate, padre, che mi voglia far cattolico". "Prima di tutto - rispose il padre - si tratta di entrare in casa; poi sceglierete la stanza".
Leggeva con avidità altri capolavori di apologetica. In modo tutto speciale si appassionò alla lettura dei padri dei primi quattro secoli della Chiesa, verso i quali nutriva una straordinaria venerazione. Memore delle parole di Tommaso da Kempis, prese i libri nelle sue mani "come il giusto Simeone prese il Bambino Gesù fra le braccia per reggerlo e baciarlo". Dalla lettura passò spontaneamente alla preghiera. Pregava dal profondo del cuore, invocando "la fede e la forza", mentre si sentiva spinto a inginocchiarsi a un confessionale. In certi momenti s'immaginava ritto presso un altare, in una chiesa cattolica, nell'atto di celebrare la messa. Era un presentimento? Fu a Parigi che la Provvidenza lo attendeva per indicargli il porto sicuro dove approdare dopo lo smarrimento e la crisi. Ogni sera si recava in Notre-Dame per ascoltare i sermoni quaresimali del gesuita Di Ravignan, che diventerà lo strumento principale della grazia, il padre, la guida, il confidente di questo ricercatore della verità.
Fu un mattino della Settimana Santa del 1842 che, sotto le volte della cattedrale parigina, le due grandi anime si incontrarono e si compresero a fondo. Incoraggiato da amici suoi connazionali quali madame Swetchine, il principe Galitzin e il principe Gagarin convertiti; confortato da insigni ecclesiastici come il Bautin e Dupanloup, il conte Suvalov coronò la sua lenta ma sicura conversione alla fede cattolica. L'abate Pététot dell'Oratorio gli aprì le braccia, lo istruì e ne raccolse la confessione generale. Così preparato, il 6 gennaio 1843 veniva accolto nella Chiesa cattolica.
Lo attiravano i giovani, l'apostolato della carità e delle opere di misericordia, le amicizie sante:  tre campi nei quali profuse il meglio delle sue energie spirituali e affettive. "Assisteva i malati come una suora di carità"! Gli orfani e i poveri trovavano nel "signor Gregorio" un  padre  tenerissimo. Distinte  personalità lo avevano saggio consigliere. Era, insomma, un apostolo laico col prestigio del nome, della cultura, della bontà.
Nel periodo cruciale del 1848 Suvalov è a Roma, dove partecipa alle riunioni dei circoli liberali. La sete di libertà e l'amor di patria non lo lasciarono insensibile. Per mezzo di un giovane patriota, Emilio Dandolo, conosciuto per caso in treno, venne a contatto col padre Piantoni, rettore del collegio Longone dei Barnabiti a Milano:  una conoscenza che sarà decisiva per il suo futuro.
Nell'estate del 1855 progetta di stabilirsi sulle rive del lago di Como, sognando di ritirarsi in un piccolo Tuscolo cristiano, ma il fascino della metropoli lombarda lo attira irresistibilmente. Ogni mattina assiste alla Messa si comunicava nelle mani del padre Piantoni nella cappella del collegio Longone, dove qualche decennio prima, passarono i giovinetti Alessandro Manzoni, Federico Confalonieri, Tullio Dandolo e altre figure del risorgimento italiano.
L'8 settembre 1856 il conte Suvalov incontra un alunno diciassettenne in procinto di entrare fra i barnabiti:  era Cesare Tondini e sarebbe stato suo confratello di ideali ed erede del suo spirito. Al momento di comunicarsi ebbe una folgorazione:  "Questa sera sarò anch'io barnabita". Finita la messa si recò dal padre Piantoni:  "Mi volete nel vostro ordine?". "No, è troppo presto", fu la risposta gelida. Chiese se poteva fare con loro un corso di esercizi spirituali. Gli fu negato! Anzi il padre Piantoni gli suggerì di entrare nel clero secolare. Cercò lumi e conforti a Torino e a Chambéry. Finalmente, il 1° gennaio 1857 veniva accolto nel noviziato dei barnabiti a Monza. Qui trovò un ambiente di altissima spiritualità. Scriveva al padre Ravignan:  "Mi credo in Paradiso. I miei padri sono altrettanti santi, i novizi altrettanti angeli". Tra essi Tondini. Nel giorno della Vestizione religiosa, mutò il nome di battesimo Gregorio in quello di Agostino Maria.
 Uomo già maturo e dalle varie esperienze, si fece piccolo e umile nell'osservanza delle regole monastiche, dell'obbedienza e della povertà, nella carità fraterna, nella gioia e nella pace interiore. In quell'ambiente di fervida pietà maturò nel suo spirito l'idea di una crociata di preghiere alla Vergine Immacolata per "il ritorno della Russia all'unità cristiana". Sarà proprio il Tondini a lavorare per tradurre in realtà l'ideale sognato dal nobile russo. Il 2 marzo 1857 don Agostino pronunciava esultante i voti religiosi e qualche giorno dopo riceveva a Milano gli ordini minori e partiva per Roma per dedicarsi agli studi di teologia.
Nello studentato dei barnabiti fu accolto con grande affetto "da padri venerandi e giovani fratelli"; fu ricevuto in udienza da Pio IX che gli parlò della Russia con tali accenti di fede da lasciarlo sbalordito e commosso; benedisse i suoi propositi e gli suggerì di offrire tre volte al giorno la vita al Crocifisso. Il Sabato santo ricevette il suddiaconato con una schiera di circa 250 ordinandi nella basilica lateranense. Tornato a Milano fu ordinato sacerdote il 19 settembre da monsignor Ramazzotti, futuro patriarca di Venezia. Impossibile descrivere i sentimenti che si agitavano nel suo cuore e che gli strapparono dalla penna pagine stupende sulla dignità sacerdotale, "la più sublime e la più alta di tutte le magistrature". Celebrò la prima Messa assistito dal padre Piantoni e servita dal Tondini.
Destinato in Francia, Parigi fu campo del suo apostolato e della sua immolazione:  si prodigò instancabilmente conquistò innumerevoli anime lontane e, proprio alla vigilia della morte, terminò di scrivere la mirabile autobiografia Ma conversion et ma vocation (Paris, 1859), poi tradotta in italiano, in tedesco e in inglese. È il suo testamento spirituale, giudicato un capolavoro di apologetica da Montalembert e da molti altri autori. Con lucidità profetica Suvalov, coetaneo di Gogol e di Dostoevskj, scrisse:  "I russi hanno conservato, fra i tesori della loro fede, il culto di Maria, Lei invocano e credono nel suo immacolato concepimento. (...) Maria sarà legame che unirà le due Chiese e farà di tutti coloro che l'amano un popolo di fratelli sotto la paterna autorità del Vicario di Gesù di Cristo".
Nel fervore dell'azione lo raggiunse, non inattesa, la morte, il 2 aprile 1859. La sua salma fu subito onorata con medaglie e corone, come quella di un santo. Il suo messaggio è la stessa sua vita. Come Alioscia ne I fratelli Karamazov, il Nostro si è spogliato dei suoi beni per servire Dio:  "Non posso dare due rubli invece di dare tutto".



(©L'Osservatore Romano - 15-16 marzo 2010)
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
22/03/2010 19:43

Storie di conversione

Il sole in un bicchiere d'acqua


Pubblichiamo un editoriale uscito su "Avvenire" del 21 marzo 2010 e scritto per "Agorà", la sezione culturale del quotidiano. Filosofo francese di origine ebraica e di nome arabo, l'autore ha raccontato il suo itinerario intellettuale e spirituale in un libro di Lorenzo Fazzini (Nuovi cristiani d'Europa. Dieci storie di conversione tra fede e ragione. Prefazione di Lucetta Scaraffia, Torino, Lindau, 2009, pagine 216, euro 16).
 
 

di Fabrice Hadjadj

Mi era stato chiesto di immergermi. Questo significa il battesimo, "immersione". Allora volli andare in un monastero, dove quelli che erano stati immersi non erano mai più riemersi in superficie. Un insieme di circostanze, tra cui il mio amore per Léon Bloy, mi condusse all'abbazia di Saint-Pierre a Solesmes. Mi era stato detto che là avrei potuto incontrare qualcuno che aveva conosciuto il suo figlioccio, Jacques Maritain, che fu oblato con il nome di frère Placide. Quando entrai nell'abbazia, fu uno choc improvviso. Quello che cercavo non era la tradizione, meno ancora il "progresso", ma la radicalità, qualcosa che avrebbe potuto essere sempre all'avanguardia. Ero soddisfatto nella mia ricerca. Giunse l'ora dei vespri.
 
 Nel coro i monaci entrarono come due ali di grandi uccelli neri che si posano due a due davanti al tabernacolo prima di separarsi a destra e a sinistra, guadagnando dolcemente il loro posto. Mi sembrava di assistere ad una sorta di coreografia primordiale:  la marcia lenta, la genuflessione profonda, subito il grande segno di croce come una cifra tracciata sul proprio corpo affinché il Verbo ci raggiunga in pieno petto! E d'altra parte i petti dei monaci si gonfiavano per intonare all'unisono:  Deus, in adiutorium meum intende. Domine, ad adiuvandum me festina ("O Dio, vieni in mio aiuto. Signore, vieni presto a salvarmi").

L'ufficio divino inizia con questa ammissione impossibile da fare con le proprie forze. Il vecchio benedettino arriva a recitarla ogni giorno, sette volte al giorno, comincia ogni volta dichiarando che non sa pregare, che ciò a cui si eleva è assolutamente nuovo, improbabile ed esige il soccorso dell'Altissimo. Da lì sgorgò questo canto che chiamiamo "gregoriano". Esso si eleva, come un funambolo, sulla frontiera della parola e del silenzio. Nessuna musica più di questa rispetta il silenzio. Essa non lo rompe:  lo esplora, ne sgombra l'interno, estende il suo dominio. Essa rivela, al di là dell'assenza di rumore, il raccoglimento di una presenza.

Ma questo canto possiede altre qualità d'avanguardia che non potevano lasciare indenne l'ebreo che sono. Mediante la sua antichità essa riuniva il passato e il futuro. Tramite il suo colore, si stende al punto di intersezione dell'Occidente e dell'Oriente; con le sue parole, soprattutto quelle dei salmi, spinge il Nuovo Testamento dentro l'Antico. E grazie alla sua disciplina del soffio, convoca i corpi intorno alla parola.

In breve:  tutto quello che nel mondo mi è stato donato in frammenti sparsi, l'ho trovato riunito qui nell'epifania dell'unità cattolica. Ma c'è un'altra cosa che non dimentico e che si presenta come pendant del coro:  il refettorio. Pure lì vi è il silenzio, intercalato dal tintinnio delle posate sui piatti, dal leggero rumore dei bicchieri sulla tavola di legno, tutto il brusio delle cose ordinarie e che, di solito, i ristoranti d'affari o i pasti famigliari interrompono con il loro impietoso bla bla. Dietro a me, nel refettorio, come l'accompagnamento di un basso continuo, un monaco fa la lettura recto tono, ovvero di voce tanto monocorde quanto priva di personalizzazione.

Proprio lì ho conosciuto alcuni dei più bei momenti di contemplazione:  davanti ad un pezzo di pane, a piccoli piselli o una foglia di lattuga. In questo clima spirituale, grazie ad un'organizzazione scandita dalla liturgie delle ore, la caraffa e la cesta di frutta mi apparivano con lo stesso peso di mistero di un quadro di Chardin. Mi ricordo specialmente del sole che veniva a giocare con il mio bicchier d'acqua.
Questo bicchiere era lo stesso della mia infanzia, di marca Duralex. Ma lo vedevo come il segno di un'altra infanzia, quella che vede tutte le cose bagnate dalla tenerezza del Padre. Allora mi sono immerso in questo bicchier d'acqua. Due giorni dopo il mio arrivo a Solesmes, ho domandato di essere battezzato. Questo avvenne durante la Veglia pasquale, oramai 12 anni fa.


(©L'Osservatore Romano - 22-23 marzo 2010)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 02:46. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com