Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva

Udienze del Mercoledì 2009

Ultimo Aggiornamento: 31/12/2009 06:13
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
27/08/2009 15:36

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Mercoledì, 26 agosto 2009


[
Video]

 

Cari fratelli e sorelle!

Ci avviciniamo ormai alla fine del mese di agosto, che per molti significa la conclusione delle vacanze estive. Mentre si torna alle attività quotidiane, come non ringraziare Iddio per il dono prezioso del creato, di cui è possibile godere, e non solo durante il periodo delle ferie! I differenti fenomeni di degrado ambientale e le calamità naturali, che purtroppo non raramente la cronaca registra, ci richiamano l’urgenza del rispetto dovuto alla natura, recuperando e valorizzando, nella vita di ogni giorno, un corretto rapporto con l’ambiente. Verso questi temi, che suscitano la giusta preoccupazione delle Autorità e della pubblica opinione, si va sviluppando una nuova sensibilità, che si esprime nel moltiplicarsi di incontri anche a livello internazionale.

La terra è dono prezioso del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, dandoci così i segnali orientativi a cui attenerci come amministratori della sua creazione. E’ proprio a partire da questa consapevolezza, che la Chiesa considera le questioni legate all’ambiente e alla sua salvaguardia intimamente connesse con il tema dello sviluppo umano integrale. A tali questioni ho fatto più volte riferimento nella mia ultima Enciclica Caritas in veritate, richiamando “l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà” (n. 49) non solo nei rapporti tra i Paesi, ma anche tra i singoli uomini, poiché l’ambiente naturale è dato da Dio per tutti, e il suo uso comporta una nostra personale responsabilità verso l’intera umanità, in particolare verso i poveri e le generazioni future (cfr ivi, 48).

Avvertendo la comune responsabilità per il creato (cfr ivi, 51), la Chiesa non solo è impegnata a promuovere la difesa della terra, dell’acqua e dell’aria, donate dal Creatore a tutti, ma soprattutto si adopera per proteggere l’uomo contro la distruzione di se stesso. Infatti, “quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (ibid.). Non è forse vero che l’uso sconsiderato della creazione inizia laddove Dio è emarginato o addirittura se ne nega l’esistenza? Se viene meno il rapporto della creatura umana con il Creatore, la materia è ridotta a possesso egoistico, l’uomo ne diventa “l’ultima istanza” e lo scopo dell’esistenza si riduce ad essere un’affannata corsa a possedere il più possibile.

Il creato, materia strutturata in modo intelligente da Dio, è affidato dunque alla responsabilità dell’uomo, il quale è in grado di interpretarlo e di rimodellarlo attivamente, senza considerarsene padrone assoluto. L’uomo è chiamato piuttosto ad esercitare un governo responsabile per custodirlo, metterlo a profitto e coltivarlo, trovando le risorse necessarie per una esistenza dignitosa di tutti. Con l’aiuto della stessa natura e con l’impegno del proprio lavoro e della propria inventiva, l’umanità è veramente in grado di assolvere al grave dovere di consegnare alle nuove generazioni una terra che anch’esse, a loro volta, potranno abitare degnamente e coltivare ulteriormente (cfr Caritas in veritate, 50).

Perché ciò si realizzi, è indispensabile lo sviluppo di “quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio” (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7), riconoscendo che noi tutti proveniamo da Dio e verso Lui siamo tutti in cammino. Quanto è importante allora che la comunità internazionale e i singoli governi sappiano dare i giusti segnali ai propri cittadini per contrastare in modo efficace le modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose! I costi economici e sociali, derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni, riconosciuti in maniera trasparente, vanno supportati da coloro che ne usufruiscono, e non da altre popolazioni o dalle generazioni future. La protezione dell’ambiente, la tutela delle risorse e del clima richiedono che i responsabili internazionali agiscano congiuntamente nel rispetto della legge e della solidarietà, soprattutto nei confronti delle regioni più deboli della terra (cfr Caritas in veritate, 50).

Insieme possiamo costruire uno sviluppo umano integrale a beneficio dei popoli, presenti e futuri, uno sviluppo ispirato ai valori della carità nella verità. Perché ciò avvenga è indispensabile convertire l’attuale modello di sviluppo globale verso una più grande e condivisa assunzione di responsabilità nei confronti del creato: lo richiedono non solo le emergenze ambientali, ma anche lo scandalo della fame e della miseria.

Cari fratelli e sorelle, ringraziamo il Signore e facciamo nostre le parole di san Francesco nel Cantico delle creature: “Altissimo, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et omne benedictione … Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le tue creature”.

Così san Francesco. Anche noi vogliamo pregare e vivere nello spirito di queste parole.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

   


__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/09/2009 20:03

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 2 settembre 2009

Sant’Oddone di Cluny

Cari fratelli e sorelle,

Dopo una lunga pausa, vorrei riprendere la presentazione dei grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del tempo medioevale, perché, come in uno specchio, nelle loro vite e nei loro scritti vediamo che cosa vuol dire essere cristiani. Oggi vi propongo la figura luminosa di sant’Oddone, abate di Cluny: essa si colloca in quel medioevo monastico che vide il sorprendente diffondersi in Europa della vita e della spiritualità ispirate alla Regola di san Benedetto. Vi fu in quei secoli un prodigioso sorgere e moltiplicarsi di chiostri che, ramificandosi nel continente, vi diffusero largamente lo spirito e la sensibilità cristiana. Sant’Oddone ci riconduce, in particolare, ad un monastero, Cluny, che nel medioevo fu tra i più illustri e celebrati ed ancora oggi rivela attraverso le sue maestose rovine i segni di un passato glorioso per l’intensa dedizione all’ascesi, allo studio e, in special modo, al culto divino, avvolto di decoro e di bellezza.

Di Cluny Oddone fu il secondo abate. Era nato verso l’880, ai confini tra il Maine e la Touraine, in Francia. Dal padre fu consacrato al santo Vescovo Martino di Tours, alla cui ombra benefica e nella cui memoria Oddone passò poi l’intera vita, concludendola alla fine vicino alla sua tomba. La scelta della consacrazione religiosa fu in lui preceduta dall’esperienza di uno speciale momento di grazia, di cui parlò egli stesso ad un altro monaco, Giovanni l’Italiano, che fu poi suo biografo. Oddone era ancora adolescente, sui sedici anni, quando, durante una veglia natalizia, si sentì salire spontaneamente alle labbra questa preghiera alla Vergine: “Mia Signora, Madre di misericordia, che in questa notte hai dato alla luce il Salvatore, prega per me. Il tuo parto glorioso e singolare sia, o Piissima, il mio rifugio” (Vita sancti Odonis, I,9: PL 133,747).

L’appellativo “Madre di misericordia”, con cui il giovane Oddone invocò allora la Vergine, sarà quello col quale egli amerà poi sempre rivolgersi a Maria, chiamandola anche «unica speranza del mondo, … grazie alla quale ci sono state aperte le porte del paradiso» (In veneratione S. Mariae Magdalenae: PL 133,721). Gli avvenne in quel tempo di imbattersi nella Regola di san Benedetto e di iniziarne alcune osservanze, «portando, non ancora monaco, il giogo leggero dei monaci» (ibid., I,14: PL 133,50). In un suo sermone Oddone celebrerà Benedetto come “lucerna che brilla nel tenebroso stadio di questa vita” (De sancto Benedicto abbate: PL 133,725), e lo qualificherà “maestro di disciplina spirituale” (ibid.: PL 133,727). Con affetto rileverà che la pietà cristiana “con più viva dolcezza fa memoria” di lui, nella consapevolezza che Dio lo ha innalzato “tra i sommi ed eletti Padri della santa Chiesa” (ibid.: PL 133,722).

Affascinato dall’ideale benedettino, Oddone lasciò Tours ed entrò come monaco nell’abbazia benedettina di Baume, per poi passare in quella di Cluny, di cui nel 927 divenne abate. Da quel centro di vita spirituale poté esercitare un vasto influsso sui monasteri del continente. Della sua guida e della sua riforma si giovarono anche in Italia diversi cenobi, tra i quali quello di San Paolo fuori le Mura. Oddone visitò più d’una volta Roma, raggiungendo anche Subiaco, Montecassino e Salerno. Fu proprio a Roma che, nell’estate del 942, cadde malato. Sentendosi prossimo alla fine, con ogni sforzo volle tornare presso il suo san Martino a Tours, ove morì nell’ottavario del Santo, il 18 novembre 942. Il biografo, nel sottolineare in Oddone la “virtù della pazienza”, offre un lungo elenco di altre sue virtù, quali il disprezzo del mondo, lo zelo per le anime, l’impegno per la pace delle Chiese. Grandi aspirazioni dell’abate Oddone erano la concordia tra i re e i principi, l’osservanza dei comandamenti, l’attenzione ai poveri, l’emendamento dei giovani, il rispetto per i vecchi (cfr Vita sancti Odonis, I,17: PL 133,49). Amava la celletta dove risiedeva, «sottratto agli occhi di tutti, sollecito di piacere solo a Dio» (ibid., I,14: PL 133,49).
Non mancava, però, di esercitare pure, come “fonte sovrabbondante”, il ministero della parola e dell’esempio, “piangendo come immensamente misero questo mondo” (ibid., I,17: PL 133,51). In un solo monaco, commenta il suo biografo, si trovavano raccolte le diverse virtù esistenti in stato sparso negli altri monasteri: “Gesù nella sua bontà, attingendo ai vari giardini dei monaci, formava in un piccolo luogo un paradiso, per irrigare dalla sua fonte i cuori dei fedeli” (ibid., I,14: PL 133,49).

In un passo di un sermone in onore di Maria di Magdala l’abate di Cluny ci rivela come egli concepiva la vita monastica: “Maria che, seduta ai piedi del Signore, con spirito attento ascoltava la sua parola, è il simbolo della dolcezza della vita contemplativa, il cui sapore, quanto più è gustato, tanto maggiormente induce l’animo a distaccarsi dalle cose visibili e dai tumulti delle preoccupazioni del mondo” (In ven. S. Mariae Magd., PL 133,717).

E’ una concezione che Oddone conferma e sviluppa negli altri suoi scritti, dai quali traspaiono l’amore all’interiorità, una visione del mondo come di realtà fragile e precaria da cui sradicarsi, una costante inclinazione al distacco dalle cose avvertite come fonti di inquietudine, un’acuta sensibilità per la presenza del male nelle varie categorie di uomini, un’intima aspirazione escatologica. Questa visione del mondo può apparire abbastanza lontana dalla nostra, tuttavia quella di Oddone è una concezione che, vedendo la fragilità del mondo, valorizza la vita interiore aperta all’altro, all’amore del prossimo, e proprio così trasforma l’esistenza e apre il mondo alla luce di Dio.

Merita particolare menzione la “devozione” al Corpo e al Sangue di Cristo che Oddone, di fronte a una estesa trascuratezza da lui vivacemente deplorata, coltivò sempre con convinzione. Era infatti fermamente convinto della presenza reale, sotto le specie eucaristiche, del Corpo e del Sangue del Signore, in virtù della conversione “sostanziale” del pane e del vino. Scriveva: “Dio, il Creatore di tutto, ha preso il pane, dicendo che era il suo Corpo e che lo avrebbe offerto per il mondo e ha distribuito il vino, chiamandolo suo Sangue”; ora, “è legge di natura che avvenga il mutamento secondo il comando del Creatore”, ed ecco, pertanto, che “subito la natura muta la sua condizione solita: senza indugio il pane diventa carne, e il vino diventa sangue”; all’ordine del Signore “la sostanza si muta” (Odonis Abb. Cluniac. occupatio, ed. A. Swoboda, Lipsia 1900, p.121). Purtroppo, annota il nostro abate, questo “sacrosanto mistero del Corpo del Signore, nel quale consiste tutta la salvezza del mondo” (Collationes, XXVIII: PL 133,572), è negligentemente celebrato.

“I sacerdoti, egli avverte, che accedono all’altare indegnamente, macchiano il pane, cioè il Corpo di Cristo” (ibid., PL 133,572-573). Solo chi è unito spiritualmente a Cristo può partecipare degnamente al suo Corpo eucaristico: in caso contrario, mangiare la sua carne e bere il suo sangue non sarebbe di giovamento, ma di condanna (cfr ibid., XXX, PL 133,575). Tutto questo ci invita a credere con nuova forza e profondità la verità della presenza del Signore. La presenza del Creatore tra noi, che si consegna nelle nostre mani e ci trasforma come trasforma il pane e il vino, trasforma così il mondo.

Sant’Oddone è stato una vera guida spirituale sia per i monaci che per i fedeli del suo tempo. Di fronte alla “vastità dei vizi” diffusi nella società, il rimedio che egli proponeva con decisione era quello di un radicale cambiamento di vita, fondato sull’umiltà, l’austerità, il distacco dalle cose effimere e l’adesione a quelle eterne (cfr Collationes, XXX, PL 133, 613). Nonostante il realismo della sua diagnosi circa la situazione del suo tempo, Oddone non indulge al pessimismo: “Non diciamo questo – egli precisa – per precipitare nella disperazione quelli che vorranno convertirsi. La misericordia divina è sempre disponibile; essa aspetta l’ora della nostra conversione” (ibid.: PL 133, 563).
Ed esclama: “O ineffabili viscere della pietà divina! Dio persegue le colpe e tuttavia protegge i peccatori” (ibid.: PL 133,592). Sostenuto da questa convinzione, l’abate di Cluny amava sostare nella contemplazione della misericordia di Cristo, il Salvatore che egli qualificava suggestivamente come “amante degli uomini”: “amator hominum Christus” (ibid., LIII: PL 133,637). Gesù ha preso su di sé i flagelli che sarebbero spettati a noi – osserva - per salvare così la creatura che è opera sua e che ama (cfr ibid.: PL 133, 638).

Appare qui un tratto del santo abate a prima vista quasi nascosto sotto il rigore della sua austerità di riformatore: la profonda bontà del suo animo. Era austero, ma soprattutto era buono, un uomo di una grande bontà, una bontà che proviene dal contatto con la bontà divina. Oddone, così ci dicono i suoi coetanei, effondeva intorno a sé la gioia di cui era ricolmo. Il suo biografo attesta di non aver sentito mai uscire da bocca d’uomo “tanta dolcezza di parola” (ibid., I,17: PL 133,31). Era solito, ricorda il biografo, invitare al canto i fanciulli che incontrava lungo la strada per poi far loro qualche piccolo dono, e aggiunge: “Le sue parole erano ricolme di esultanza…, la sua ilarità infondeva nel nostro cuore un’intima gioia” (ibid., II, 5: PL 133,63). In questo modo il vigoroso ed insieme amabile abate medioevale, appassionato di riforma, con azione incisiva alimentava nei monaci, come anche nei fedeli laici del suo tempo, il proposito di progredire con passo solerte sulla via della perfezione cristiana.

Vogliamo sperare che la sua bontà, la gioia che proviene dalla fede, unite all’austerità e all’opposizione ai vizi del mondo, tocchino anche il nostro cuore, affinché anche noi possiamo trovare la fonte della gioia che scaturisce dalla bontà di Dio.



Saluti:

J’accueille avec joie les pèlerins francophones. Je salue particulièrement les séminaristes de Brugge, en Belgique, et leurs accompagnateurs ainsi que les nombreux pèlerins du diocèse de Kaolack, au Sénégal, avec leur Evêque Mgr Ndiaye. Puissiez-vous tous suivre généreusement le Christ chaque jour. Que Dieu vous bénisse!

I offer a warm welcome to the English-speaking visitors present at today’s Audience, including those from England, Scotland, Ireland, Nigeria and the United States. My particular greeting goes to the Servants of the Holy Spirit, as well as the young people from The Holy Study House of Prayer. Upon all of you I invoke God’s blessings of joy and peace!

Gerne grüße ich die Pilger und Besucher aus Deutschland, Österreich und Luxemburg. Einen besonderen Gruß richte ich an die Teilnehmer am Fackellauf der Schönstatt-Mannes-Jugend. Das Beispiel des heiligen Abtes und Reformers Odo sporne uns an, uns ganz auf Gott auszurichten und auf dem Weg des christlichen Lebens froh voranzuschreiten. Der Herr behüte euch alle.

Saludo cordialmente a los fieles de lengua española. En particular, a las hijas de María Auxiliadora, a las Siervas de María Ministras de los enfermos y a las Hermanas de la Caridad Dominicas de la presentación. Así como a los grupos provenientes de Viña del Mar, Chile; de Venezuela; de Terrassa, España; y del Movimiento de Schoenstatt en Argentina. Aliento a todos a aprovechar la visita a Roma para profundizar en la fe y en el gozo de pertenecer a la Iglesia. Muchas gracias.

Saúdo com amizáde e gratidão tódos os peregrínos de língua portuguésa, nomeadaménte os grúpos do Brasil. Viéstes a Roma para fortalecér os vínculos de fé, esperánça e amor que únem a tódos os batizádos na Igreja, que Jesús quis fundár sóbre Pedro. Que as vóssas vidas, iluminádas pela fé e perseverántes na esperánça, póssam sémpre testemunhár o amor de Deus. Que as Suas bénçãos désçam abundántes sóbre vós e vóssas famílias.

Saluto in lingua croata:

Srdačnu dobrodošlicu upućujem dragim hrvatskim hodočasnicima, a posebno vjernicima iz župe Svetoga Florijana iz Pribislavca, hodočasnicima iz Rijeke i Poreča te nastavnicima i učenicima Nadbiskupijske klasične gimnazije iz Zagreba kao i Franjevačke gimnazije iz Sinja. Baština i apostolski primjer svetih Petra i Pavla neka budu temelj i poticaj vašega kršćanskog svjedočenja i življenja. Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini croati, particolarmente ai fedeli della parrocchia di San Florian di Pribislavac, ai pellegrini di Rijeka e di Porec ed ai professori e studenti di Liceo Classico Arcivescovile di Zagreb come pure di Liceo Classico Francescano di Sinj. L’eredità e l’esempio apostolico dei santi Pietro e Paolo siano il fondamento e lo stimolo della vostra vita e testimonianza cristiana. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua polacca:

Serdecznie pozdrawiam pielgrzymów polskich. Wczoraj minęła siedemdziesiąta rocznica wybuchu II wojny światowej. W pamięci narodów pozostaje wspomnienie tragedii ludzkich losów i bezsens wojny. Prośmy Boga, by serca ludzi przenikał duch przebaczenia, pokoju i pojednania. Europie i światu potrzebna jest dzisiaj wspólnota ducha. Budujmy ją na Chrystusie i Jego Ewangelii, na fundamencie miłości i prawdy. Wam tu obecnym i wszystkim, którzy tworzą klimat pokoju, z serca błogosławię.

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Ieri abbiamo ricordato il 70° anniversario dell’inizio della II guerra mondiale. Nella memoria dei popoli rimangono le umane tragedie e l’assurdità della guerra. Chiediamo a Dio che lo spirito del perdono, della pace e della riconciliazione pervada i cuori degli uomini. L’Europa e il mondo di oggi hanno bisogno di uno spirito di comunione. Costruiamola su Cristo e sul suo Vangelo, sul fondamento della carità e della verità. A voi qui presenti e a tutti coloro che contribuiscono a creare il clima della pace, imparto di cuore la mia benedizione.

Saluto in lingua slovacca:

Zo srdca pozdravujem pútnikov zo Slovenska, osobitne z Bratislavy a Nitry.
Bratia a sestry, milí mladí, v týchto dňoch sa začína nový školský rok. Vyprosujme si od Ducha Svätého jeho vzácne dary, predovšetkým pravú múdrosť. S týmto želaním vás žehnám.
Pochválený buď Ježiš Kristus!

Traduzione italiana:

Cordialmente saluto i pellegrini provenienti dalla Slovacchia, particolarmente quelli da Bratislava e Nitra.
Fratelli e sorelle, cari giovani, in questi giorni inizia il nuovo anno scolastico. Imploriamo dallo Spirito Santo i suoi preziosi doni, specialmente la vera sapienza. Con questo desiderio vi benedico.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ungherese:

Most a magyar zarándokokat köszöntöm, Isten hozott Benneteket!
Ez a római út erősítsen meg hitetekben. Szívesen adom rátok apostoli áldásomat.
Dicsértessék a Jézus Krisztus!

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i fedeli di lingua ungherese. Questo pellegrinaggio a Roma Vi conforti nella fede.
Di cuore imparto a voi la Benedizione Apostolica! Sia lodato Gesù Cristo!

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i partecipanti al Simposio Intercristiano promosso dalla Pontificia Università Antonianum e dall’Università Aristoteles di Tessalonica ed auspico che la riflessione comune tra cattolici e ortodossi sulla figura di Sant’Agostino possa rafforzare il cammino verso la piena comunione. Saluto i fedeli dell’Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno, qui convenuti così numerosi con il loro Pastore Mons. Gerardo Pierro, in occasione del decimo anniversario di inaugurazione del Seminario “Giovanni Paolo II”. Saluto i fedeli di Nuoro, accompagnati dal loro Vescovo Mons. Pietro Meloni, come pure i fedeli della parrocchia San Vito Martire di Gioia del Colle. Su tutti voi invoco la continua assistenza del Signore, perché possiate rendere ovunque una convinta e generosa testimonianza cristiana.

Rivolgo infine un affettuoso saluto ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Invito voi, giovani, ad accogliere e vivere la Parola del Signore con il coraggio e la fantasia che contraddistinguono la vostra età. Incoraggio voi, cari malati, a conservare nel cuore gli insegnamenti evangelici per trarne forza, serenità e sostegno nella prova della sofferenza. Auguro a voi, sposi novelli, di intraprendere con generosa fedeltà l'itinerario suggerito dal Figlio di Dio, affinché la vostra nuova famiglia sia edificata sulla salda roccia della sua Parola.

 



 

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
10/09/2009 07:09

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 9 settembre 2009


  [Video]

San Pier Damiani

Cari fratelli e sorelle,

durante le catechesi di questi mercoledì sto trattando di alcune grandi figure della vita della Chiesa fin dalle sue origini. Oggi vorrei soffermarmi su una delle più significative personalità del secolo XI, san Pier Damiani, monaco, amante della solitudine e, insieme, intrepido uomo di Chiesa, impegnato in prima persona nell’opera di riforma avviata dai Papi del tempo. Nacque a Ravenna nel 1007 da famiglia nobile, ma disagiata.
Rimasto orfano di ambedue i genitori, visse un’infanzia non priva di stenti e di sofferenze, anche se la sorella Roselinda si impegnò a fargli da mamma e il fratello maggiore Damiano lo adottò come figlio. Proprio per questo sarà poi chiamato Piero di Damiano, Pier Damiani. La formazione gli venne impartita prima a Faenza e poi a Parma, dove, già all’età di 25 anni, lo troviamo impegnato nell’insegnamento. Accanto ad una buona competenza nel campo del diritto, acquisì una raffinata perizia nell’arte del comporre – l’ars scribendi – e, grazie alla sua conoscenza dei grandi classici latini, diventò “uno dei migliori latinisti del suo tempo, uno dei più grandi scrittori del medioevo latino” (J. Leclercq, Pierre Damien, ermite et homme d’Église, Roma 1960, p. 172).

Si distinse nei generi letterari più diversi: dalle lettere ai sermoni, dalle agiografie alle preghiere, dai poemi agli epigrammi. La sua sensibilità per la bellezza lo portava alla contemplazione poetica del mondo. Pier Damiani concepiva l'universo come una inesauribile “parabola” e una distesa di simboli, da cui partire per interpretare la vita interiore e la realtà divina e soprannaturale. In questa prospettiva, intorno all’anno 1034, la contemplazione dell’assoluto di Dio lo spinse a staccarsi progressivamente dal mondo e dalle sue realtà effimere, per ritirarsi nel monastero di Fonte Avellana, fondato solo qualche decennio prima, ma già famoso per la sua austerità. Ad edificazione dei monaci egli scrisse la Vita del fondatore, san Romualdo di Ravenna, e s’impegnò al tempo stesso ad approfondirne la spiritualità, esponendo il suo ideale del monachesimo eremitico.

Un particolare va subito sottolineato: l’eremo di Fonte Avellana era dedicato alla Santa Croce, e la Croce sarà il mistero cristiano che più di tutti gli altri affascinerà Pier Damiani. “Non ama Cristo, chi non ama la croce di Cristo”, afferma (Sermo XVIII, 11, p. 117) e si qualifica come: “Petrus crucis Christi servorum famulus – Pietro servitore dei servitori della croce di Cristo” (Ep, 9, 1). Alla Croce Pier Damiani rivolge bellissime orazioni, nelle quali rivela una visione di questo mistero che ha dimensioni cosmiche, perché abbraccia l'intera storia della salvezza: “O beata Croce – egli esclama - ti venerano, ti predicano e ti onorano la fede dei patriarchi, i vaticini dei profeti, il senato giudicante degli apostoli, l’esercito vittorioso dei martiri e le schiere di tutti i santi” (Sermo XLVIII, 14, p. 304). Cari fratelli e sorelle, l’esempio di san Pier Damiani spinga anche noi a guardare sempre alla Croce come al supremo atto di amore di Dio nei confronti dell’uomo, che ci ha donato la salvezza.

Per lo svolgimento della vita eremitica, questo grande monaco redige una Regola in cui sottolinea fortemente il “rigore dell’eremo”: nel silenzio del chiostro, il monaco è chiamato a trascorrere una vita di preghiera, diurna e notturna, con prolungati ed austeri digiuni; deve esercitarsi in una generosa carità fraterna e in un’obbedienza al priore sempre pronta e disponibile. Nello studio e nella meditazione quotidiana della Sacra Scrittura, Pier Damiani scopre i mistici significati della parola di Dio, trovando in essa nutrimento per la sua vita spirituale. In questo senso egli qualifica la cella dell’eremo come “parlatorio dove Dio conversa con gli uomini”. La vita eremitica è per lui il vertice della vita cristiana, è “al culmine degli stati di vita”, perché il monaco, ormai libero dai legami del mondo e del proprio io, riceve “la caparra dello Spirito Santo e la sua anima si unisce felice allo Sposo celeste” (Ep 18, 17; cfr Ep 28, 43 ss.). Questo risulta importante oggi pure per noi, anche se non siamo monaci: saper fare silenzio in noi per ascoltare la voce di Dio, cercare, per così dire un “parlatorio” dove Dio parla con noi: Apprendere la Parola di Dio nella preghiera e nella meditazione è la strada della vita.

San Pier Damiani, che sostanzialmente fu un uomo di preghiera, di meditazione, di contemplazione, fu anche un fine teologo: la sua riflessione sui diversi temi dottrinali lo porta a conclusioni importanti per la vita. Così, ad esempio, espone con chiarezza e vivacità la dottrina trinitaria utilizzando già, sulla scorta dei testi biblici e patristici, i tre termini fondamentali, che sono poi divenuti determinanti anche per la filosofia dell’Occidente, processio, relatio e persona (cfr Opusc. XXXVIII: PL CXLV, 633-642; e Opusc. II e III: ibid., 41ss e 58ss).

Tuttavia, poiché l’analisi teologica del mistero lo conduce a contemplare la vita intima di Dio e il dialogo d’amore ineffabile tra le tre divine Persone, egli ne trae conclusioni ascetiche per la vita in comunità e per gli stessi rapporti tra cristiani latini e greci, divisi su questo tema. Pure la meditazione sulla figura di Cristo ha riflessi pratici significativi, essendo tutta la Scrittura centrata su di Lui. Lo stesso “popolo dei giudei, - annota san Pier Damiani - attraverso le pagine della Sacra Scrittura, ha come portato Cristo sulle spalle” (Sermo XLVI, 15). Cristo pertanto, egli aggiunge, deve essere al centro della vita del monaco: “Cristo sia udito nella nostra lingua, Cristo sia veduto nella nostra vita, sia percepito nel nostro cuore” (Sermo VIII, 5). L’intima unione con Cristo impegna non solo i monaci, ma tutti i battezzati. Troviamo qui un forte richiamo anche per noi a non lasciarci assorbire totalmente dalle attività, dai problemi e dalle preoccupazioni di ogni giorno, dimenticandoci che Gesù deve essere veramente al centro della nostra vita.

La comunione con Cristo crea unità d’amore tra i cristiani. Nella lettera 28, che è un geniale trattato di ecclesiologia, Pier Damiani sviluppa una profonda teologia della Chiesa come comunione. “La Chiesa di Cristo - egli scrive - è unita dal vincolo della carità a tal punto che, come è una in più membri, così è tutta intera misticamente nel singolo membro; cosicché l'intera Chiesa universale si denomina giustamente unica Sposa di Cristo al singolare, e ciascuna anima eletta, per il mistero sacramentale, viene considerata pienamente Chiesa”. E’ importante questo: non solo che l’intera Chiesa universale sia unita, ma in ognuno di noi dovrebbe essere presente la Chiesa nella sua totalità. Così il servizio del singolo diventa “espressione dell’universalità” (Ep 28, 9-23). Tuttavia l’immagine ideale della “santa Chiesa” illustrata da Pier Damiani non corrisponde lo sapeva bene - alla realtà del suo tempo.

Per questo non teme di denunziare lo stato di corruzione esistente nei monasteri e tra il clero, a motivo, soprattutto, della prassi del conferimento, da parte delle Autorità laiche, dell’investitura degli uffici ecclesiastici: diversi vescovi e abati si comportavano da governatori dei propri sudditi più che da pastori d’anime. Non di rado la loro vita morale lasciava molto a desiderare. Per questo, con grande dolore e tristezza, nel 1057 Pier Damiani lascia il monastero e accetta, pur con difficoltà, la nomina a Cardinale Vescovo di Ostia, entrando così pienamente in collaborazione con i Papi nella non facile impresa della riforma della Chiesa. Ha visto che non era sufficiente contemplare e ha dovuto rinunciare alla bellezza della contemplazione per portare il proprio aiuto nell’opera di rinnovamento della Chiesa. Ha rinunciato così alla bellezza dell’eremo e con coraggio ha intrapreso numerosi viaggi e missioni.

Per il suo amore alla vita monastica, dieci anni dopo, nel 1067, ottiene il permesso di tornare a Fonte Avellana, rinunciando alla diocesi di Ostia. Ma la sospirata quiete dura poco: già due anni dopo viene inviato a Francoforte nel tentativo di evitare il divorzio di Enrico IV dalla moglie Berta; e di nuovo due anni dopo, nel 1071, va a Montecassino per la consacrazione della chiesa abbaziale e agli inizi del 1072 si reca a Ravenna per ristabilire la pace con l’Arcivescovo locale, che aveva appoggiato l'antipapa provocando l'interdetto sulla città. Durante il viaggio di ritorno al suo eremo, un’improvvisa malattia lo costringe a fermarsi a Faenza nel monastero benedettino di Santa Maria Vecchia fuori porta, e lì muore nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1072.

Cari fratelli e sorelle, è una grande grazia che nella vita della Chiesa il Signore abbia suscitato una personalità così esuberante, ricca e complessa, come quella di san Pier Damiani e non è comune trovare opere di teologia e di spiritualità così acute e vive come quelle dell’eremita di Fonte Avellana. Fu monaco fino in fondo, con forme di austerità, che oggi potrebbero sembrarci persino eccessive. In tal modo, però, egli ha fatto della vita monastica una testimonianza eloquente del primato di Dio e un richiamo per tutti a camminare verso la santità, liberi da ogni compromesso col male. Egli si consumò, con lucida coerenza e grande severità, per la riforma della Chiesa del suo tempo. Donò tutte le sue energie spirituali e fisiche a Cristo e alla Chiesa, restando però sempre, come amava definirsi, Petrus ultimus monachorum servus, Pietro, ultimo servo dei monaci.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 16:25

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 settembre 2009

 [Video]

Simeone il Nuovo Teologo

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi ci fermiamo a riflettere sulla figura di un monaco orientale, Simeone il Nuovo Teologo, i cui scritti hanno esercitato un notevole influsso sulla teologia e sulla spiritualità dell’Oriente, in particolare per ciò che riguarda l’esperienza dell’unione mistica con Dio. Simeone il Nuovo Teologo nacque nel 949 a Galatai, in Paflagonia (Asia Minore), da una nobile famiglia di provincia. Ancora giovane, si trasferì a Costantinopoli per intraprendere gli studi ed entrare al servizio dell’imperatore. Ma si sentì poco attratto dalla carriera civile che gli si prospettava e, sotto l’influsso delle illuminazioni interiori che andava sperimentando, si mise alla ricerca di una persona che lo orientasse nel momento pieno di dubbi e di perplessità che stava vivendo, e che lo aiutasse a progredire nel cammino dell’unione con Dio. Trovò questa guida spirituale in Simeone il Pio (Eulabes), un semplice monaco del monastero di Studios, a Costantinopoli, che gli diede da leggere il trattato La legge spirituale di Marco il Monaco. In questo testo Simeone il Nuovo Teologo trovò un insegnamento che lo impressionò molto: “Se cerchi la guarigione spirituale – vi lesse - sii attento alla tua coscienza. Tutto ciò che essa ti dice fallo e troverai ciò che ti è utile”. Da quel momento – riferisce egli stesso - mai si coricò senza chiedersi se la coscienza non avesse qualche cosa da rimproverargli.

Simeone entrò nel monastero degli Studiti, dove, però, le sue esperienze mistiche e la sua straordinaria devozione verso il Padre spirituale gli causarono difficoltà. Si trasferì nel piccolo convento di San Mamas, sempre a Costantinopoli, del quale, dopo tre anni, divenne il capo, l’igumeno. Lì condusse un’intensa ricerca di unione spirituale con Cristo, che gli conferì grande autorità. E’ interessante notare che gli fu dato l’appellativo di “Nuovo Teologo”, nonostante la tradizione riservasse il titolo di “Teologo” a due personalità: all’evangelista Giovanni e a Gregorio di Nazianzo. Soffrì incomprensioni e l’esilio, ma fu riabilitato dal Patriarca di Costantinopoli, Sergio II.

Simeone il Nuovo Teologo passò l’ultima fase della sua esistenza nel monastero di Santa Marina, dove scrisse gran parte delle sue opere, divenendo sempre più celebre per i suoi insegnamenti e per i suoi miracoli. Morì il 12 marzo 1022.

Il più noto dei suoi discepoli, Niceta Stetatos, che ha raccolto e ricopiato gli scritti di Simeone, ne curò un’edizione postuma, redigendo in seguito la biografia. L’opera di Simeone comprende nove volumi, che si dividono in Capitoli teologici, gnostici e pratici, tre volumi di Catechesi indirizzate a monaci, due volumi di Trattati teologici ed etici e un volume di Inni. Non vanno poi dimenticate le numerose Lettere. Tutte queste opere hanno trovato un posto di rilievo nella tradizione monastica orientale sino ai nostri giorni.

Simeone concentra la sua riflessione sulla presenza dello Spirito Santo nei battezzati e sulla consapevolezza che essi devono avere di tale realtà spirituale. La vita cristiana – egli sottolinea - è comunione intima e personale con Dio, la grazia divina illumina il cuore del credente e lo conduce alla visione mistica del Signore. In questa linea, Simeone il Nuovo Teologo insiste sul fatto che la vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma dall’esperienza spirituale, dalla vita spirituale. La conoscenza di Dio nasce da un cammino di purificazione interiore, che ha inizio con la conversione del cuore, grazie alla forza della fede e dell’amore; passa attraverso un profondo pentimento e dolore sincero per i propri peccati, per giungere all’unione con Cristo, fonte di gioia e di pace, invasi dalla luce della sua presenza in noi. Per Simeone tale esperienza della grazia divina non costituisce un dono eccezionale per alcuni mistici, ma è il frutto del Battesimo nell’esistenza di ogni fedele seriamente impegnato.

Un punto su cui riflettere, cari fratelli e sorelle! Questo santo monaco orientale ci richiama tutti ad un’attenzione alla vita spirituale, alla presenza nascosta di Dio in noi, alla sincerità della coscienza e alla purificazione, alla conversione del cuore, così che realmente lo Spirito Santo divenga presente in noi e ci guidi. Se infatti giustamente ci si preoccupa di curare la nostra crescita fisica, umana ed intellettuale, è ancor più importante non trascurare la crescita interiore, che consiste nella conoscenza di Dio, nella vera conoscenza, non solo appresa dai libri, ma interiore, e nella comunione con Dio, per sperimentare il suo aiuto in ogni momento e in ogni circostanza.

In fondo, è ciò che Simeone descrive quando narra la propria esperienza mistica. Già da giovane, prima di entrare in monastero, mentre una notte in casa prolungava le sue preghiere, invocando l’aiuto di Dio per lottare contro le tentazioni, aveva visto la stanza piena di luce. Quando poi entrò in monastero, gli furono offerti libri spirituali per istruirsi, ma la loro lettura non gli procurava la pace che cercava. Si sentiva - egli racconta - come un povero uccellino senza le ali. Accettò con umiltà questa situazione, senza ribellarsi, e allora cominciarono a moltiplicarsi di nuovo le visioni di luce. Volendo assicurarsi della loro autenticità, Simeone chiese direttamente a Cristo: “Signore, sei davvero tu stesso qui?”. Sentì risuonare nel cuore la risposta affermativa e ne fu sommamente consolato. “Fu quella, Signore - scriverà in seguito - la prima volta che giudicasti me, figlio prodigo, degno di ascoltare la tua voce”. Tuttavia, neanche questa rivelazione lo lasciò totalmente quieto. Si interrogava piuttosto se pure quell’esperienza non fosse da ritenersi un’illusione. Un giorno, finalmente, accadde un fatto fondamentale per la sua esperienza mistica. Egli cominciò a sentirsi come “un povero che ama i fratelli” (ptochós philádelphos).

Vedeva intorno a sé tanti nemici che volevano tendergli insidie e fargli del male, ma nonostante ciò avvertì in se stesso un intenso trasporto d’amore per loro. Come spiegarlo? Evidentemente non poteva venire da lui stesso un tale amore, ma doveva sgorgare da un’altra fonte. Simeone capì che proveniva da Cristo presente in lui e tutto gli divenne chiaro: ebbe la prova sicura che la fonte dell’amore in lui era la presenza di Cristo e che avere in sé un amore che va oltre le mie personali intenzioni indica che la fonte dell’amore sta in me. Così, da una parte possiamo dire che senza una certa apertura all’amore Cristo non entra in noi, ma, dall’altra, Cristo diventa fonte di amore e ci trasforma. Cari amici, questa esperienza resta quanto mai importante per noi, oggi, per trovare i criteri che ci indicano se siamo realmente vicini a Dio, se Dio c’è e vive in noi. L’amore di Dio cresce in noi se rimaniamo uniti a Lui con la preghiera e con l’ascolto della sua parola, con l’apertura del cuore. Solamente l’amore divino ci fa aprire il cuore agli altri e ci rende sensibili alle loro necessità, facendoci considerare tutti come fratelli e sorelle e invitandoci a rispondere con l’amore all’odio e con il perdono all’offesa.

Riflettendo su questa figura di Simeone il Nuovo Teologo, possiamo rilevare ancora un ulteriore elemento della sua spiritualità. Nel cammino di vita ascetica da lui proposto e percorso, la forte attenzione e concentrazione del monaco sull’esperienza interiore conferisce al Padre spirituale del monastero un’importanza essenziale. Lo stesso giovane Simeone, come s’è detto, aveva trovato un direttore spirituale, che ebbe ad aiutarlo molto e del quale conservò grandissima stima, tanto da riservargli, dopo la morte, una venerazione anche pubblica. E vorrei dire che rimane valido per tutti – sacerdoti, persone consacrate e laici, e specialmente per i giovani – l’invito a ricorrere ai consigli di un buon padre spirituale, capace di accompagnare ciascuno nella conoscenza profonda di se stesso, e condurlo all’unione con il Signore, affinché la sua esistenza si conformi sempre più al Vangelo.

Per andare verso il Signore abbiamo sempre bisogno di una guida, di un dialogo. Non possiamo farlo solamente con le nostre riflessioni. E questo è anche il senso della ecclesialità della nostra fede, di trovare questa guida.

Concludendo, possiamo sintetizzare così l’insegnamento e l’esperienza mistica di Simeone il Nuovo Teologo: nella sua incessante ricerca di Dio, pur nelle difficoltà che incontrò e nelle critiche di cui fu oggetto, egli, in fin dei conti, si lasciò guidare dall’amore. Seppe vivere lui stesso e insegnare ai suoi monaci che l’essenziale per ogni discepolo di Gesù è crescere nell’amore e così cresciamo nella conoscenza di Cristo stesso, per poter affermare con san Paolo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
23/09/2009 15:46

L’UDIENZA GENERALE, 23.09.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre - proveniente in elicottero dalla residenza estiva di Castel Gandolfo - ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su Sant’Anselmo d’Aosta.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.
Al termine il Santo Padre è rientrato a Castel Gandolfo.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Sant’Anselmo d’Aosta

Cari fratelli e sorelle,

a Roma, sul colle dell’Aventino, si trova l'Abbazia benedettina di Sant’Anselmo. Come sede di un Istituto di studi superiori e dell'Abate Primate dei Benedettini Confederati, essa è un luogo che unisce in sé la preghiera, lo studio e il governo, proprio le tre attività che caratterizzarono la vita del Santo al quale è dedicata: Anselmo d’Aosta di cui ricorre quest’anno il IX centenario della morte.
Le molteplici iniziative, promosse specialmente dalla diocesi di Aosta per questa fausta ricorrenza hanno evidenziato l’interesse che continua a suscitare questo pensatore medievale. Egli è noto anche come Anselmo di Bec e Anselmo di Canterbury a motivo delle città con le quali è stato in rapporto. Chi è questo personaggio al quale tre località, lontane tra loro e collocate in tre Nazioni diverse – Italia, Francia, Inghilterra –, si sentono particolarmente legate?
Monaco di intensa vita spirituale, eccellente educatore di giovani, teologo con una straordinaria capacità speculativa, saggio uomo di governo ed intransigente difensore della libertas Ecclesiae, della libertà della Chiesa. Anselmo é una delle personalità eminenti del Medioevo, che seppe armonizzare tutte queste qualità grazie a una profonda esperienza mistica, che sempre ebbe a guidarne il pensiero e l’azione.

Sant’Anselmo nacque nel 1033 (o all’inizio del 1034) ad Aosta, primogenito di una famiglia nobile. Il padre era uomo rude, dedito ai piaceri della vita e dissipatore dei suoi beni; la madre, invece, era donna di elevati costumi e di profonda religiosità (cfr Eadmero, Vita s. Anselmi, PL 159, col 49). Fu lei, la mamma, a prendersi cura della prima formazione umana e religiosa del figlio, che affidò, poi, ai Benedettini di un priorato di Aosta. Anselmo, che da bambino – come narra il suo biografo - immaginava l’abitazione del buon Dio tra le alte e innevate vette delle Alpi, sognò una notte di essere invitato in questa reggia splendida da Dio stesso, che si intrattenne a lungo ed affabilmente con lui e alla fine gli offrì da mangiare "un pane candidissimo" (ibid., col 51). Questo sogno gli lasciò la convinzione di essere chiamato a compiere un’alta missione. All’età di quindici anni, chiese di essere ammesso nell’Ordine benedettino, ma il padre si oppose con tutta la sua autorità e non cedette neppure quando il figlio gravemente malato, sentendosi vicino alla morte, implorò l'abito religioso come supremo conforto. Dopo la guarigione e la scomparsa prematura della madre, Anselmo attraversò un periodo di dissipazione morale: trascurò gli studi e, sopraffatto dalle passioni terrene, diventò sordo al richiamo di Dio. Se ne andò da casa e cominciò a girare per la Francia in cerca di nuove esperienze. Dopo tre anni, giunto in Normandia, si recò nell’Abbazia benedettina di Bec, attirato dalla fama di Lanfranco da Pavia, priore del monastero. Fu per lui un incontro provvidenziale e decisivo per il resto della sua vita. Sotto la guida di Lanfranco, Anselmo riprese infatti con vigore gli studi e, in breve tempo, diventò non solo l’allievo prediletto, ma anche il confidente del maestro.
La sua vocazione monastica si riaccese e, dopo attenta valutazione, all’età di 27 anni, entrò nell’Ordine monastico e venne ordinato sacerdote. L’ascesi e lo studio gli aprirono nuovi orizzonti, facendogli ritrovare, in grado ben più alto, quella familiarità con Dio che aveva avuto da bambino.

Quando, nel 1063, Lanfranco diventò abate di Caen, Anselmo, dopo appena tre anni di vita monastica, fu nominato priore del monastero di Bec e maestro della scuola claustrale, rivelando doti di raffinato educatore. Non amava i metodi autoritari; paragonava i giovani a piccole piante che si sviluppano meglio se non sono chiuse in serra e concedeva loro una "sana" libertà. Era molto esigente con se stesso e con gli altri nell’osservanza monastica, ma anziché imporre la disciplina si impegnava a farla seguire con la persuasione. Alla morte dell’abate Erluino, fondatore dell’abbazia di Bec, Anselmo venne eletto unanimemente a succedergli: era il febbraio 1079. Intanto numerosi monaci erano stati chiamati a Canterbury per portare ai fratelli d’oltre Manica il rinnovamento in atto nel Continente. La loro opera fu ben accetta, al punto che Lanfranco da Pavia, abate di Caen, divenne il nuovo Arcivescovo di Canterbury e chiese ad Anselmo di trascorrere un certo tempo con lui per istruire i monaci e aiutarlo nella difficile situazione in cui si trovava la sua comunità ecclesiale dopo l’invasione dei Normanni. La permanenza di Anselmo si rivelò molto fruttuosa; egli guadagnò simpatia e stima, tanto che, alla morte di Lanfranco, fu scelto a succedergli nella sede arcivescovile di Canterbury. Ricevette la solenne consacrazione episcopale nel dicembre del 1093.

Anselmo si impegnò immediatamente in un’energica lotta per la libertà della Chiesa, sostenendo con coraggio l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale. Difese la Chiesa dalle indebite ingerenze delle autorità politiche, soprattutto dei re Guglielmo il Rosso ed Enrico I, trovando incoraggiamento e appoggio nel Romano Pontefice, al quale Anselmo dimostrò sempre una coraggiosa e cordiale adesione. Questa fedeltà gli costò, nel 1103, anche l’amarezza dell’esilio dalla sua sede di Canterbury.

E soltanto quando, nel 1106, il re Enrico I rinunciò alla pretesa di conferire le investiture ecclesiastiche, come pure alla riscossione delle tasse e alla confisca dei beni della Chiesa, Anselmo poté far ritorno in Inghilterra, accolto festosamente dal clero e dal popolo. Si era così felicemente conclusa la lunga lotta da lui combattuta con le armi della perseveranza, della fierezza e della bontà. Questo santo Arcivescovo che tanta ammirazione suscitava intorno a sé, dovunque si recasse, dedicò gli ultimi anni della sua vita soprattutto alla formazione morale del clero e alla ricerca intellettuale su argomenti teologici. Morì il 21 aprile 1109, accompagnato dalle parole del Vangelo proclamato nella Santa Messa di quel giorno: "Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno…" (Lc 22,28-30).
Il sogno di quel misterioso banchetto, che da piccolo aveva avuto proprio all’inizio del suo cammino spirituale, trovava così la sua realizzazione. Gesù, che lo aveva invitato a sedersi alla sua mensa, accolse sant’Anselmo, alla sua morte, nel regno eterno del Padre.

"Dio, ti prego, voglio conoscerti, voglio amarti e poterti godere. E se in questa vita non sono capace di ciò in misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a quando giunga alla pienezza" (Proslogion, cap.14).
Questa preghiera lascia comprendere l’anima mistica di questo grande Santo dell’epoca medievale, fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di "Dottore Magnifico" perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i Misteri divini, nella piena consapevolezza, però, che il cammino di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di "innalzare la mente alla contemplazione di Dio" (Ivi, Proemium).

Egli afferma chiaramente che chi intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede.

L’attività del teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e quindi la vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di un’intuizione contemplativa. Restano, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca teologica e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole: "Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino ad un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire" (Ivi, 1).

Cari fratelli e sorelle, l’amore per la verità e la costante sete di Dio, che hanno segnato l’intera esistenza di sant’Anselmo, siano uno stimolo per ogni cristiano a ricercare senza mai stancarsi una unione sempre più intima con Cristo, Via, Verità e Vita.

Inoltre, lo zelo pieno di coraggio che ha contraddistinto la sua azione pastorale, e che gli ha procurato talora incomprensioni, amarezze e perfino l’esilio, sia un incoraggiamento per i Pastori, per le persone consacrate e per tutti i fedeli ad amare la Chiesa di Cristo, a pregare, a lavorare e soffrire per essa, senza mai abbandonarla o tradirla. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre di Dio, verso la quale sant’Anselmo nutrì tenera e filiale devozione. "Maria, te il mio cuore vuole amare – scrive san’Anselmo – te la lingua mia desidera ardentemente lodare".

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
30/09/2009 15:13

[universita2.jpg] 

L’UDIENZA GENERALE, 30.09.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre - proveniente dalla residenza estiva di Castel Gandolfo - ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul Suo recente Viaggio Apostolico nella Repubblica Ceca.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.
Al termine il Santo Padre è rientrato a Castel Gandolfo.

[
Video]

CATECHESI DEL SANTO PADRE

Viaggio Apostolico nella Repubblica Ceca

Cari fratelli e sorelle!

Come è consuetudine dopo i viaggi apostolici internazionali, profitto dell’odierna Udienza generale per parlare del pellegrinaggio che ho compiuto nei giorni scorsi nella Repubblica Ceca.
Lo faccio anzitutto come atto di ringraziamento a Dio, che mi ha concesso di compiere questa visita e che l’ha largamente benedetta. È stato un vero pellegrinaggio e, al tempo stesso, una missione nel cuore dell’Europa: pellegrinaggio, perché la Boemia e la Moravia sono da oltre un millennio terra di fede e di santità; missione, perché l’Europa ha bisogno di ritrovare in Dio e nel suo amore il fondamento saldo della speranza.
Non è un caso se i Santi evangelizzatori di quelle popolazioni, Cirillo e Metodio, sono patroni d’Europa insieme con san Benedetto.
L’amore di Cristo è la nostra forza”: questo è stato il motto del viaggio, un’affermazione che riecheggia la fede di tanti eroici testimoni del passato remoto e recente, penso in particolare al secolo scorso, ma che soprattutto vuole interpretare la certezza dei cristiani di oggi.
Sì, la nostra forza è l’amore di Cristo! Una forza che ispira e anima le vere rivoluzioni, pacifiche e liberatrici, e che ci sostiene nei momenti di crisi, permettendo di risollevarci quando la libertà, faticosamente recuperata, rischia di smarrire se stessa, la propria verità.

L’accoglienza che ho riscontrato è stata cordiale. Il Presidente della Repubblica, al quale rinnovo l’espressione della mia riconoscenza, ha voluto essere presente in diversi momenti e mi ha ricevuto insieme con i miei collaboratori nella sua residenza, lo storico Castello della Capitale con grande cordialità.
L’intera Conferenza Episcopale, in particolare il Cardinale Arcivescovo di Praga e il Vescovo di Brno, mi hanno fatto sentire, con grande calore, il profondo legame che unisce la Comunità cattolica ceca al Successore di san Pietro. Li ringrazio anche per aver preparato accuratamente le celebrazioni liturgiche. Sono grato pure a tutte le Autorità civili e militari e a quanti in diversi modi hanno cooperato alla buona riuscita della mia visita.

L’amore di Cristo ha iniziato a rivelarsi nel volto di un Bambino. Giunto a Praga, infatti, ho compiuto la prima tappa nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, dove si venera il Bambino Gesù, noto appunto come “Bambino di Praga”.
Quell’effige rimanda al mistero del Dio fatto Uomo, al “Dio vicino”, fondamento della nostra speranza. Dinanzi al “Bambino di Praga” ho pregato per tutti i bambini, per i genitori, per il futuro della famiglia. La vera “vittoria”, che oggi chiediamo a Maria, è la vittoria dell’amore e della vita nella famiglia e nella società!

Il Castello di Praga, straordinario sotto il profilo storico e architettonico, suggerisce un’ulteriore riflessione più generale: esso racchiude nel suo vastissimo spazio molteplici monumenti, ambienti e istituzioni, quasi a rappresentare una polis, in cui convivono in armonia la Cattedrale e il Palazzo, la piazza e il giardino.
Così, in quel medesimo contesto, la mia visita ha potuto toccare l’ambito civile e quello religioso, non giustapposti, ma in armonica vicinanza nella distinzione.
Rivolgendomi pertanto alle Autorità politiche e civili ed al Corpo diplomatico, ho voluto richiamare il legame indissolubile che sempre deve esistere tra libertà e verità.

Non bisogna aver paura della verità, perché essa è amica dell’uomo e della sua libertà; anzi, solo nella sincera ricerca del vero, del bene e del bello si può realmente offrire un futuro ai giovani di oggi e alle generazioni che verranno.

Del resto, che cosa attira tante persone a Praga se non la sua bellezza, una bellezza che non è soltanto estetica, ma storica, religiosa, in senso ampio umana? Chi esercita responsabilità nel campo politico ed educativo deve saper attingere dalla luce di quella verità che è il riflesso dell’eterna Sapienza del Creatore; ed è chiamato a darne testimonianza in prima persona con la propria vita. Solo un serio impegno di rettitudine intellettuale e morale è degno del sacrificio di quanti hanno pagato caro il prezzo della libertà!

Simbolo di questa sintesi tra verità e bellezza è la splendida Cattedrale di Praga, intitolata ai santi Vito, Venceslao e Adalberto, dove si è svolta la celebrazione dei Vespri con i sacerdoti, i religiosi, i seminaristi e una rappresentanza dei laici impegnati nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali.
Per le Comunità dell’Europa centro-orientale questo è un momento difficile: alle conseguenze del lungo inverno del totalitarismo ateo, si stanno sommando gli effetti nocivi di un certo secolarismo e consumismo occidentale. Perciò ho incoraggiato tutti ad attingere energie sempre nuove dal Signore risorto, per poter essere lievito evangelico nella società e impegnarsi, come già avviene, in attività caritative, e ancor più in quelle educative e scolastiche.

Questo messaggio di speranza, fondato sulla fede in Cristo, l’ho esteso all’intero Popolo di Dio nelle due grandi Celebrazioni eucaristiche svoltesi rispettivamente a Brno, capoluogo della Moravia, e a Stará Boleslav, luogo del martirio di San Venceslao, Patrono principale della Nazione.
La Moravia fa pensare immediatamente ai santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi, e quindi alla forza inesauribile del Vangelo, che come un fiume di acque risanatrici attraversa la storia e i continenti, portando dovunque vita e salvezza. Sopra il portale della Cattedrale di Brno sono impresse le parole di Cristo: “Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28).
Queste stesse parole sono risuonate domenica scorsa nella liturgia, riecheggiando la voce perenne del Salvatore, speranza delle genti, ieri, oggi e sempre. Della signoria di Cristo, signoria di grazia e di misericordia, è segno eloquente l’esistenza dei santi Patroni delle diverse Nazioni cristiane, come appunto Venceslao, giovane re di Boemia nel secolo X, che si distinse per la sua esemplare testimonianza cristiana e fu ucciso dal fratello. Venceslao antepose il regno dei cieli al fascino del potere terreno ed è rimasto per sempre nel cuore del popolo ceco, come modello e protettore nelle alterne vicende della storia.
Ai numerosi giovani presenti alla Messa di san Venceslao, provenienti pure dalle nazioni vicine, ho rivolto l’invito a riconoscere in Cristo l’amico più vero, che soddisfa le aspirazioni più profonde del cuore umano.

Debbo infine menzionare, tra gli altri, due incontri: quello ecumenico e quello con la comunità accademica.
Il
primo, tenutosi nell’Arcivescovado di Praga, ha visto riuniti i rappresentanti delle diverse Comunità cristiane della Repubblica Ceca e il responsabile della Comunità ebraica.
Pensando alla storia di quel Paese, che purtroppo ha conosciuto aspri conflitti tra cristiani, è motivo di viva gratitudine a Dio l’esserci ritrovati insieme come discepoli dell’unico Signore, per condividere la gioia della fede e la responsabilità storica di fronte alle sfide attuali.
Lo sforzo di progredire verso una unità sempre più piena e visibile tra noi, credenti in Cristo, rende più forte ed efficace il comune impegno per la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa. Quest’ultimo aspetto, che stava molto a cuore al mio amato predecessore Giovanni Paolo II, è emerso pure nell’incontro con i Rettori delle Università, i rappresentanti dei
docenti e degli studenti ed altre personalità di rilievo in ambito culturale.
In tale contesto
ho voluto insistere sul ruolo dell’istituzione universitaria, una delle strutture portanti dell’Europa, che ha in Praga un Ateneo tra i più antichi e prestigiosi del continente, l’Università Carlo, dal nome dell’imperatore Carlo IV che la fondò, insieme con il Papa Clemente VI.

L’università degli studi è ambiente vitale per la società, garanzia di libertà e di sviluppo, come dimostra il fatto che proprio dai circoli universitari prese le mosse a Praga la cosiddetta “Rivoluzione di velluto”.

A vent’anni da quello storico evento, ho riproposto l’idea della formazione umana integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità, per contrastare una nuova dittatura, quella del relativismo abbinato al dominio della tecnica.

La cultura umanistica e quella scientifica non possono essere separate, anzi, sono le due facce di una stessa medaglia: ce lo ricorda ancora una volta la terra ceca, patria di grandi scrittori come Kafka, e dell’abate Mendel, pioniere della moderna genetica.

Cari amici, ringrazio il Signore perché, con questo viaggio, mi ha dato di incontrare un popolo e una Chiesa dalle profonde radici storiche e religiose, che commemora quest’anno diverse ricorrenze di alto valore spirituale e sociale. Ai fratelli e sorelle della Repubblica Ceca rinnovo un messaggio di speranza e un invito al coraggio del bene, per costruire il presente e il domani dell’Europa. Affido i frutti della mia visita pastorale all’intercessione di Maria Santissima e di tutti i Santi e le Sante di Boemia e di Moravia. Grazie.

Saluto in lingua italiana

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i formatori e gli studenti del Pontificio Collegio Internazionale Maria Mater Ecclesiae, esortandoli alla preghiera intensa e allo studio serio per approfondire la persona del Cristo.

Sono lieto di accogliere i fedeli della diocesi di Sulmona-Valva, qui convenuti numerosi con il loro Vescovo, Mons. Angelo Spina, nel ricordo di San Pietro Celestino V. Mio fratello mi ha raccontato tante belle cose della sua visita a Sulmona.

Saluto con piacere le delegazioni dei medici che stanno promuovendo vari progetti con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, uno dei quali in collaborazione anche con la Provincia di Roma. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili, gli esponenti della Società cooperativa “Mirabilia Dei”, il gruppo della Misericordia di Viareggio, come pure i fedeli della Contrada “Il Bruco”, accompagnati dall’Arcivescovo di Siena Antonio Buoncristiani. Saluto i partecipanti al Convegno Internazionale Sturziano organizzato nel 50° della morte del Servo di Dio don Luigi Sturzo. L’esempio luminoso di questo presbitero e la sua testimonianza di amore, di libertà e di servizio al popolo sia stimolo e incoraggiamento per tutti i cristiani, e specialmente per quanti operano in campo sociale e politico perché diffondano, con la loro coerente testimonianza, il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa.

Rivolgo infine il mio saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Cari giovani, ascoltate Cristo, parola di verità, e accogliete con prontezza il suo disegno sulla vostra vita. Voi, cari ammalati, sentite Gesù accanto a voi e testimoniate con la vostra fiducia la forza vivificante della Croce. Voi, cari sposi novelli, con la grazia del Sacramento da poco ricevuto, irrobustite di giorno in giorno il vostro amore e camminate sulla via della santità.

© Copyright 2009 - Libreria
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
07/10/2009 14:27



L’UDIENZA GENERALE, 07.10.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato su San Giovanni Leonardi, Fondatore dei Chierici Regolari della Madre di Dio, nella ricorrenza dei 400 anni dalla morte.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Giovanni Leonardi

Cari fratelli e sorelle!

Dopodomani, 9 ottobre, si compiranno 400 anni dalla morte di san Giovanni Leonardi, fondatore dell’Ordine religioso dei Chierici Regolari della Madre di Dio, canonizzato il 17 aprile del 1938 ed eletto Patrono dei farmacisti in data 8 agosto 2006. Egli è anche ricordato per il grande anelito missionario. Insieme a Mons. Juan Bautista Vives e al gesuita Martin de Funes progettò e contribuì all’istituzione di una specifica Congregazione della Santa Sede per le missioni, quella di Propaganda Fide, e alla futura nascita del Collegio Urbano di Propaganda Fide, che nel corso dei secoli ha forgiato migliaia di sacerdoti, molti di essi martiri, per evangelizzare i popoli. Si tratta, pertanto, di una luminosa figura di sacerdote, che mi piace additare come esempio a tutti i presbiteri in questo Anno Sacerdotale. Morì nel 1609 per un’influenza contratta mentre stava prodigandosi nella cura di quanti, nel quartiere romano di Campitelli, erano stati colpiti dall’epidemia.

Giovanni Leonardi nacque nel 1541 a Diecimo in provincia di Lucca. Ultimo di sette fratelli, ebbe un’adolescenza scandita dai ritmi di fede vissuti in un nucleo familiare sano e laborioso, oltre che dall’assidua frequentazione di una bottega di aromi e di medicamenti del suo paese natale. A 17 anni il padre lo iscrisse ad un regolare corso di spezieria a Lucca, allo scopo di farne un futuro farmacista, anzi uno speziale, come allora si diceva. Per circa un decennio il giovane Giovanni Leonardi ne fu vigile e diligente frequentatore, ma quando, secondo le norme previste dall’antica Repubblica di Lucca, acquisì il riconoscimento ufficiale che lo avrebbe autorizzato ad aprire una sua spezieria, egli cominciò a pensare se non fosse giunto il momento di realizzare un progetto che da sempre aveva in cuore. Dopo matura riflessione decise di avviarsi al sacerdozio. E così, lasciata la bottega dello speziale, ed acquisita un’adeguata formazione teologica, fu ordinato sacerdote e il giorno dell’Epifania del 1572 celebrò la prima Messa.

Tuttavia non abbandonò la passione per la farmacopea, perché sentiva che la mediazione professionale di farmacista gli avrebbe permesso di realizzare appieno la sua vocazione, quella di trasmettere agli uomini, mediante una vita santa, "la medicina di Dio", che è Gesù Cristo crocifisso e risorto, "misura di tutte le cose".

Animato dalla convinzione che di tale medicina necessitano tutti gli esseri umani più di ogni altra cosa, san Giovanni Leonardi cercò di fare dell’incontro personale con Gesù Cristo la ragione fondamentale della propria esistenza. "È necessario ricominciare da Cristo", amava ripetere molto spesso. Il primato di Cristo su tutto divenne per lui il concreto criterio di giudizio e di azione e il principio generatore della sua attività sacerdotale, che esercitò mentre era in atto un vasto e diffuso movimento di rinnovamento spirituale nella Chiesa, grazie alla fioritura di nuovi Istituti religiosi e alla testimonianza luminosa di santi come Carlo Borromeo, Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Giuseppe Calasanzio, Camillo de Lellis, Luigi Gonzaga. Con entusiasmo si dedicò all’apostolato tra i ragazzi mediante la Compagnia della Dottrina Cristiana, riunendo intorno a sé un gruppo di giovani con i quali, il primo settembre 1574, fondò la Congregazione dei Preti riformati della Beata Vergine, successivamente chiamato Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio.
Ai suoi discepoli raccomandava di avere "avanti gli occhi della mente solo l’onore, il servizio e la gloria di Cristo Gesù Crocifisso", e, da buon farmacista abituato a dosare le pozioni grazie a un preciso riferimento, aggiungeva: "Un poco più levate i vostri cuori a Dio e con Lui misurate le cose".

Mosso da zelo apostolico, nel maggio del 1605, inviò al Papa Paolo V appena eletto un Memoriale nel quale suggeriva i criteri di un autentico rinnovamento nella Chiesa. Osservando come sia "necessario che coloro che aspirano alla riforma dei costumi degli uomini cerchino specialmente, e per prima cosa, la gloria di Dio", aggiungeva che essi devono risplendere "per l'integrità della vita e l'eccellenza dei costumi, così, più che costringere, attireranno dolcemente alla riforma".

Osservava inoltre che "chi vuole operare una seria riforma religiosa e morale deve fare anzitutto, come un buon medico, un'attenta diagnosi dei mali che travagliano la Chiesa per poter così essere in grado di prescrivere per ciascuno di essi il rimedio più appropriato".
E notava che "il rinnovamento della Chiesa deve verificarsi parimenti nei capi e nei dipendenti, in alto e in basso. Deve cominciare da chi comanda ed estendersi ai sudditi".

Fu per questo che, mentre sollecitava il Papa a promuovere una "riforma universale della Chiesa", si preoccupava della formazione cristiana del popolo e specialmente dei fanciulli, da educare "fin dai primi anni… nella purezza della fede cristiana e nei santi costumi".

Cari fratelli e sorelle, la luminosa figura di questo Santo invita i sacerdoti in primo luogo, e tutti i cristiani, a tendere costantemente alla "misura alta della vita cristiana" che è la santità, ciascuno naturalmente secondo il proprio stato. Soltanto infatti dalla fedeltà a Cristo può scaturire l’autentico rinnovamento ecclesiale.

In quegli anni, nel passaggio culturale e sociale tra il secolo XVI e il secolo XVII, cominciarono a delinearsi le premesse della futura cultura contemporanea, caratterizzata da una indebita scissione tra fede e ragione, che ha prodotto tra i suoi effetti negativi la marginalizzazione di Dio, con l’illusione di una possibile e totale autonomia dell’uomo il quale sceglie di vivere "come se Dio non ci fosse".

E’ la crisi del pensiero moderno, che più volte ho avuto modo di evidenziare e che approda spesso in forme di relativismo.
Giovanni Leonardi intuì quale fosse la vera medicina per questi mali spirituali e la sintetizzò nell’espressione: "Cristo innanzitutto", Cristo al centro del cuore, al centro della storia e del cosmo. E di Cristo – affermava con forza – l’umanità ha estremo bisogno, perchè Lui è la nostra "misura". Non c’è ambiente che non possa essere toccato dalla sua forza; non c’è male che non trovi in Lui rimedio, non c’è problema che in Lui non si risolva. "O Cristo o niente"! Ecco la sua ricetta per ogni tipo di riforma spirituale e sociale.

C’è un altro aspetto della spiritualità di san Giovanni Leonardi che mi piace sottolineare. In più circostanze ebbe a ribadire che l’incontro vivo con Cristo si realizza nella sua Chiesa, santa ma fragile, radicata nella storia e nel suo divenire a volte oscuro, dove grano e zizzania crescono insieme (cfr Mt 13,30), ma tuttavia sempre Sacramento di salvezza.

Avendo lucida consapevolezza che la Chiesa è il campo di Dio (cfr Mt 13,24), non si scandalizzò delle sue umane debolezze. Per contrastare la zizzania scelse di essere buon grano: decise, cioè, di amare Cristo nella Chiesa e di contribuire a renderla sempre più segno trasparente di Lui. Con grande realismo vide la Chiesa, la sua fragilità umana, ma anche il suo essere "campo di Dio", lo strumento di Dio per la salvezza dell’umanità.

Non solo. Per amore di Cristo lavorò alacremente per purificare la Chiesa, per renderla più bella e santa. Capì che ogni riforma va fatta dentro la Chiesa e mai contro la Chiesa. In questo, san Giovanni Leonardi è stato veramente straordinario e il suo esempio resta sempre attuale. Ogni riforma interessa certamente le strutture, ma in primo luogo deve incidere nel cuore dei credenti.

Soltanto i santi, uomini e donne che si lasciano guidare dallo Spirito divino, pronti a compiere scelte radicali e coraggiose alla luce del Vangelo, rinnovano la Chiesa e contribuiscono, in maniera determinante, a costruire un mondo migliore.
Cari fratelli e sorelle, l’esistenza di san Giovanni Leonardi fu sempre illuminata dallo splendore del "Volto Santo" di Gesù, custodito e venerato nella Chiesa cattedrale di Lucca, diventato il simbolo eloquente e la sintesi indiscussa della fede che lo animava. Conquistato da Cristo come l’apostolo Paolo, egli additò ai suoi discepoli, e continua ad additare a tutti noi, l’ideale cristocentrico per il quale "bisogna denudarsi di ogni proprio interesse e solo il servizio di Dio riguardare", avendo "avanti gli occhi della mente solo l’onore, il servizio e la gloria di Cristo Gesù Crocifisso". Accanto al volto di Cristo, fissò lo sguardo sul volto materno di Maria. Colei che elesse Patrona del suo Ordine, fu per lui maestra, sorella, madre, ed egli sperimentò la sua costante protezione. L’esempio e l’intercessione di questo "affascinante uomo di Dio" siano, particolarmente
in questo Anno Sacerdotale, richiamo e incoraggiamento per i sacerdoti e per tutti i cristiani a vivere con passione ed entusiasmo la propria vocazione.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
14/10/2009 13:55

[udi14ottobre2.jpg] 

L’UDIENZA GENERALE, 14.10.2009

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA


Pietro il Venerabile

Cari fratelli e sorelle,

la figura di Pietro il Venerabile, che vorrei presentare nell’odierna catechesi, ci riconduce alla celebre abbazia di Cluny, al suo «decoro» (decor) e al suo «nitore» (nitor) – per usare termini ricorrenti nei testi cluniacensi – decoro e splendore, che si ammirano soprattutto nella bellezza della liturgia, via privilegiata per giungere a Dio.
Più ancora che questi aspetti, però, la personalità di Pietro richiama la santità dei grandi abati cluniacensi: a Cluny “non ci fu un solo abate che non sia stato un santo”, affermava nel 1080 il Papa Gregorio VII. Tra questi si colloca Pietro il Venerabile, il quale raccoglie in sé un po’ tutte le virtù dei suoi predecessori, sebbene già con lui Cluny, di fronte agli Ordini nuovi come quello di Cîteaux, inizi a risentire qualche sintomo di crisi. Pietro è un esempio mirabile di asceta rigoroso con se stesso e comprensivo con gli altri. Nato attorno al 1094 nella regione francese dell’Alvernia, entrò bambino nel monastero di Sauxillanges, ove divenne monaco professo e poi priore. Nel 1122 fu eletto Abate di Cluny, e in tale carica rimase fino alla morte, avvenuta nel giorno di Natale del 1156, come egli aveva desiderato. “Amante della pace – scrive il suo biografo Rodolfo – ottenne la pace nella gloria di Dio il giorno della pace” (Vita, I,17; PL 189,28).

Quanti lo conobbero ne esaltarono la signorile mitezza, il sereno equilibrio, il dominio di sé, la rettitudine, la lealtà, la lucidità e la speciale attitudine a mediare.

È nella mia stessa natura – scriveva - di essere alquanto portato all’indulgenza; a ciò mi incita la mia abitudine a perdonare. Sono assuefatto a sopportare e a perdonare” (Ep. 192, in:
The Letters of Peter the Venerable, Harvard University Press, 1967, p. 446). Diceva ancora: “Con quelli che odiano la pace vorremmo, possibilmente, sempre essere pacifici” (Ep. 100, l.c., p. 261).
E scriveva di sé: “Non sono di quelli che non sono contenti della loro sorte, … il cui spirito è sempre nell’ansia o nel dubbio, e che si lamentano perché tutti gli altri si riposano e loro sono i soli a lavorare” (Ep. 182, p. 425).

Di indole sensibile e affettuosa, sapeva congiungere l’amore per il Signore con la tenerezza verso i familiari, particolarmente verso la madre, e verso gli amici. Fu un cultore dell’amicizia, in modo speciale nei confronti dei suoi monaci, che abitualmente si confidavano con lui, sicuri di essere accolti e compresi. Secondo la testimonianza del biografo, “non disprezzava e non respingeva nessuno” (Vita, I,3: PL 189,19); “appariva a tutti amabile; nella sua bontà innata era aperto a tutti” (ibid., I,1: PL, 189,17).

Potremmo dire che questo santo Abate costituisce un esempio anche per i monaci e i cristiani di questo nostro tempo, segnato da un ritmo di vita frenetico, dove non rari sono gli episodi di intolleranza e di incomunicabilità, le divisioni e i conflitti.

La sua testimonianza ci invita a saper unire l’amore a Dio con l’amore al prossimo, e a non stancarci nel riannodare rapporti di fraternità e di riconciliazione.

Così in effetti agiva Pietro il Venerabile, che si trovò a guidare il monastero di Cluny in anni non molto tranquilli per varie ragioni esterne e interne all’Abbazia, riuscendo ad essere al tempo stesso severo e dotato di profonda umanità. Soleva dire: “Da un uomo si potrà ottenere di più tollerandolo, che non irritandolo con le lamentele” (Ep. 172, l.c., p. 409). In ragione del suo ufficio dovette affrontare frequenti viaggi in Italia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna. L’abbandono forzato della quiete contemplativa gli pesava. Confessava: “Vado da un luogo all’altro, mi affanno, mi inquieto, mi tormento, trascinato qua e là; ho la mente rivolta ora agli affari miei ora a quelli degli altri, non senza grande agitazione del mio animo” (Ep. 91, l.c., p. 233). Pur dovendosi destreggiare tra poteri e signorie che circondavano Cluny, riuscì comunque, grazie al suo senso della misura, alla sua magnanimità e al suo realismo, a conservare un’abituale tranquillità. Tra le personalità con cui entrò in relazione ci fu Bernardo di Clairvaux con il quale intrattenne un rapporto di crescente amicizia, pur nella diversità del temperamento e delle prospettive. Bernardo lo definiva: “uomo importante, occupato in faccende importanti” e aveva grande stima di lui (Ep. 147, ed. Scriptorium Claravallense, Milano 1986, VI/1, pp. 658-660), mentre Pietro il Venerabile definiva Bernardo “lucerna della Chiesa” (Ep. 164, p. 396), “forte e splendida colonna dell’ordine monastico e di tutta la Chiesa” (Ep. 175, p. 418).

Con vivo senso ecclesiale, Pietro il Venerabile affermava che le vicende del popolo cristiano devono essere sentite nell’“intimo del cuore” da quanti si annoverano “tra i membri del corpo di Cristo” (Ep. 164, l.c., p. 397).

E aggiungeva: “Non è alimentato dallo spirito di Cristo chi non sente le ferite del corpo di Cristo”, ovunque esse si producano (ibid.). Mostrava inoltre cura e sollecitudine anche per chi era al di fuori della Chiesa, in particolare per gli ebrei e i musulmani: per favorire la conoscenza di questi ultimi provvide a far tradurre il Corano. Osserva al riguardo uno storico recente: “In mezzo all’intransigenza degli uomini del Medioevo – anche dei più grandi tra essi –, noi ammiriamo qui un esempio sublime della delicatezza a cui conduce la carità cristiana” (J. Leclercq, Pietro il Venerabile, Jaca Book, 1991, p. 189). Altri aspetti della vita cristiana a lui cari erano l’amore per l’Eucaristia e la devozione verso la Vergine Maria. Sul Santissimo Sacramento ci ha lasciato pagine che costituiscono “uno dei capolavori della letteratura eucaristica di tutti i tempi” (ibid., p. 267), e sulla Madre di Dio ha scritto riflessioni illuminanti, contemplandola sempre in stretta relazione con Gesù Redentore e con la sua opera di salvezza.

Basti riportare questa sua ispirata elevazione: “Salve, Vergine benedetta, che hai messo in fuga la maledizione. Salve, madre dell’Altissimo, sposa dell’Agnello mitissimo. Tu hai vinto il serpente, gli hai schiacciato il capo, quando il Dio da te generato lo ha annientato… Stella fulgente dell’oriente, che metti in fuga le ombre dell’occidente. Aurora che precede il sole, giorno che ignora la notte… Prega il Dio che da te è nato, perché sciolga il nostro peccato e, dopo il perdono, ci conceda la grazia e la gloria” (Carmina, PL 189, 1018-1019).

Pietro il Venerabile nutriva anche una predilezione per l’attività letteraria e ne possedeva il talento. Annotava le sue riflessioni, persuaso dell’importanza di usare la penna quasi come un aratro per “spargere nella carta il seme del Verbo” (Ep. 20, p. 38).

Anche se non fu un teologo sistematico, fu un grande indagatore del mistero di Dio. La sua teologia affonda le radici nella preghiera, specie in quella liturgica e tra i misteri di Cristo, egli prediligeva quello della Trasfigurazione, nel quale già si prefigura la Risurrezione.

Fu proprio lui ad introdurre a Cluny tale festa, componendone uno speciale ufficio, in cui si riflette la caratteristica pietà teologica di Pietro e dell’Ordine cluniacense, tesa tutta alla contemplazione del volto glorioso (gloriosa facies) di Cristo, trovandovi le ragioni di quell’ardente gioia che contrassegnava il suo spirito e si irradiava nella liturgia del monastero.

Cari fratelli e sorelle, questo santo monaco è certamente un grande esempio di santità monastica, alimentata alle sorgenti della tradizione benedettina. Per lui l’ideale del monaco consiste nell’“aderire tenacemente a Cristo” (Ep. 53, l.c., p. 161), in una vita claustrale contraddistinta dalla “umiltà monastica” (ibid.) e dalla laboriosità (Ep. 77, l.c., p. 211), come pure da un clima di silenziosa contemplazione e di costante lode a Dio. La prima e più importante occupazione del monaco, secondo Pietro di Cluny, è la celebrazione solenne dell’ufficio divino – “opera celeste e di tutte la più utile” (Statuta, I, 1026) – da accompagnare con la lettura, la meditazione, l’orazione personale e la penitenza osservata con discrezione (cfr Ep. 20, l.c., p. 40). In questo modo tutta la vita risulta pervasa di amore profondo per Dio e di amore per gli altri, un amore che si esprime nella sincera apertura al prossimo, nel perdono e nella ricerca della pace.

Potremmo dire, concludendo, che se questo stile di vita unito al lavoro quotidiano, costituisce, per san Benedetto, l’ideale del monaco, esso concerne anche tutti noi, può essere, in grande misura, lo stile di vita del cristiano che vuole diventare autentico discepolo di Cristo, caratterizzato proprio dall’adesione tenace a Lui, dall’umiltà, dalla laboriosità e dalla capacità di perdono e di pace.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
21/10/2009 14:03

Il Papa: "La fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore"




L’UDIENZA GENERALE, 21.10.2009

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA


San Bernardo di Chiaravalle

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato “l’ultimo dei Padri” della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri.
Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.

In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali.
Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia.
Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con
Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso.
Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico.

Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo.

Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati.

Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III.

In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: “Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato”, scrive il santo Abate “ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca” (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.

Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre.

La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico.

Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è “miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)”. Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, “scorre come il miele”. Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca - l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell’anima”, confessa, “se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù”. E conclude: “Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù” (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847).

Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!

In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. “O santa Madre, - egli esclama - veramente una spada ha trapassato la tua anima!... A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio” (14: PL 183,437-438).
Bernardo non ha dubbi: “per Mariam ad Iesum”, attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio.

Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del “Dottore mellifluo” la sublime preghiera a Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, …” (
Paradiso 33, vv. 1ss.).

Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti.

A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità.

La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio “con la preghiera che con la discussione”.

Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.

Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. “Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, - egli dice - pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l'aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l'esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta...” (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71).

Grazie!

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
[Modificato da S_Daniele 21/10/2009 14:03]
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
28/10/2009 14:38

[udi28ottobre.jpg] 

L’UDIENZA GENERALE, 28.10.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sullo sviluppo della teologia nel XII secolo.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Lo sviluppo della teologia nel XII secolo

Cari fratelli e sorelle,

oggi mi soffermo su un’interessante pagina di storia, relativa alla fioritura della teologia latina nel secolo XII, avvenuta per una serie provvidenziale di coincidenze.

Nei Paesi dell’Europa occidentale regnava allora una relativa pace, che assicurava alla società sviluppo economico e consolidamento delle strutture politiche, e favoriva una vivace attività culturale grazie pure ai contatti con l’Oriente.

All’interno della Chiesa si avvertivano i benefici della vasta azione nota come “riforma gregoriana”, che, promossa vigorosamente nel secolo precedente, aveva apportato una maggiore purezza evangelica nella vita della comunità ecclesiale, soprattutto nel clero, e aveva restituito alla Chiesa e al Papato un’autentica libertà di azione.

Inoltre si andava diffondendo un vasto rinnovamento spirituale, sostenuto dal rigoglioso sviluppo della vita consacrata: nascevano e si espandevano nuovi Ordini religiosi, mentre quelli già esistenti conoscevano una promettente ripresa.

Rifiorì anche la teologia acquisendo una più grande consapevolezza della propria natura: affinò il metodo, affrontò problemi nuovi, avanzò nella contemplazione dei Misteri di Dio, produsse opere fondamentali, ispirò iniziative importanti della cultura, dall’arte alla letteratura, e preparò i capolavori del secolo successivo, il secolo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio.

Due furono gli ambienti nei quali ebbe a svolgersi questa fervida attività teologica: i monasteri e le scuole cittadine, le scholae, alcune delle quali ben presto avrebbero dato vita alle Università, che costituiscono una delle tipiche “invenzioni” del Medioevo cristiano.

Proprio a partire da questi due ambienti, i monasteri e le scholae, si può parlare di due differenti modelli di teologia: la “teologia monastica” e la “teologia scolastica”.

I rappresentanti della teologia monastica erano monaci, in genere Abati, dotati di saggezza e di fervore evangelico, dediti essenzialmente a suscitare e ad alimentare il desiderio amoroso di Dio.
I rappresentanti della teologia scolastica erano uomini colti, appassionati della ricerca; dei magistri desiderosi di mostrare la ragionevolezza e la fondatezza dei Misteri di Dio e dell’uomo, creduti con la fede, certo, ma compresi pure dalla ragione. La diversa finalità spiega la differenza del loro metodo e del loro modo di fare teologia.

Nei monasteri del XII secolo il metodo teologico era legato principalmente alla spiegazione della Sacra Scrittura, della sacra pagina per esprimerci come gli autori di quel periodo; si praticava specialmente la teologia biblica.

I monaci, cioè, erano tutti devoti ascoltatori e lettori delle Sacre Scritture, e una delle principali loro occupazioni consisteva nella lectio divina, cioè nella lettura pregata della Bibbia. Per loro la semplice lettura del Testo sacro non bastava per percepirne il senso profondo, l’unità interiore e il messaggio trascendente. Occorreva, pertanto, praticare una “lettura spirituale”, condotta in docilità allo Spirito Santo.

Alla scuola dei Padri, la Bibbia veniva così interpretata allegoricamente, per scoprire in ogni pagina, dell’Antico come del Nuovo Testamento, quanto dice di Cristo e della sua opera di salvezza.

Il
Sinodo dei Vescovi dell’anno scorso sulla “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” ha richiamato l’importanza dell’approccio spirituale alle Sacre Scritture.
A tale scopo, è utile far tesoro della teologia monastica, un’ininterrotta esegesi biblica, come pure delle opere composte dai suoi rappresentanti, preziosi commentari ascetici ai libri della Bibbia. Alla preparazione letteraria la teologia monastica univa dunque quella spirituale.

Era cioè consapevole che una lettura puramente teorica e profana non basta: per entrare nel cuore della Sacra Scrittura, la si deve leggere nello spirito in cui è stata scritta e creata. La preparazione letteraria era necessaria per conoscere l’esatto significato delle parole e facilitare la comprensione del testo, affinando la sensibilità grammaticale e filologica.

Lo studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq ha così intitolato il saggio con cui presenta le caratteristiche della teologia monastica: L’amour des lettres et le désir de Dieu (L’amore delle parole e il desiderio di Dio). In effetti, il desiderio di conoscere e di amare Dio, che ci viene incontro attraverso la sua Parola da accogliere, meditare e praticare, conduce a cercare di approfondire i testi biblici in tutte le loro dimensioni. Vi è poi un’altra attitudine sulla quale insistono coloro che praticano la teologia monastica, e cioè un intimo atteggiamento orante, che deve precedere, accompagnare e completare lo studio della Sacra Scrittura.

Poiché, in ultima analisi, la teologia monastica è ascolto della Parola di Dio, non si può non purificare il cuore per accoglierla e, soprattutto, non si può non accenderlo di fervore per incontrare il Signore. La teologia diventa pertanto meditazione, preghiera, canto di lode e spinge a una sincera conversione.

Non pochi rappresentanti della teologia monastica sono giunti, per questa via, ai più alti traguardi dell’esperienza mistica, e costituiscono un invito anche per noi a nutrire la nostra esistenza della Parola di Dio, ad esempio, mediante un ascolto più attento delle letture e del Vangelo specialmente nella Messa domenicale. E’ importante inoltre riservare un certo tempo ogni giorno alla meditazione della Bibbia, perché la Parola di Dio sia lampada che illumina il nostro cammino quotidiano sulla terra.

La teologia scolastica, invece, - come dicevo - era praticata nelle scholae, sorte accanto alle grandi cattedrali dell’epoca, per la preparazione del clero, o attorno a un maestro di teologia e ai suoi discepoli, per formare dei professionisti della cultura, in un’epoca in cui il sapere era sempre più apprezzato.

Nel metodo degli scolastici era centrale la quaestio, cioè il problema che si pone al lettore nell’affrontare le parole della Scrittura e della Tradizione. Davanti al problema che questi testi autorevoli pongono, si sollevano questioni e nasce il dibattito tra il maestro e gli studenti.

In tale dibattito appaiono da una parte gli argomenti dell’autorità, dall’altra quelli della ragione e il dibattito si sviluppa nel senso di trovare, alla fine, una sintesi tra autorità e ragione per giungere a una comprensione più profonda della parola di Dio.
Al riguardo, san Bonaventura dice che la teologia è “per additionem” (cfr Commentaria in quatuor libros sententiarum, I, proem., q. 1, concl.), cioè la teologia aggiunge la dimensione della ragione alla parola di Dio e così crea una fede più profonda, più personale e quindi anche più concreta nella vita dell’uomo. In questo senso, si trovavano diverse soluzioni e si formavano conclusioni che cominciavano a costruire un sistema di teologia. L’organizzazione delle quaestiones conduceva alla compilazione di sintesi sempre più estese, cioè si componevano le diverse quaestiones con le risposte scaturite, creando così una sintesi, le cosiddette summae, che erano, in realtà, ampi trattati teologico-dogmatici nati dal confronto della ragione umana con la parola di Dio. La teologia scolastica mirava a presentare l’unità e l’armonia della Rivelazione cristiana con un metodo, detto appunto “scolastico”, della scuola, che concede fiducia alla ragione umana: la grammatica e la filologia sono al servizio del sapere teologico, ma lo è ancora di più la logica, cioè quella disciplina che studia il “funzionamento” del ragionamento umano, in modo che appaia evidente la verità di una proposizione.

Ancora oggi, leggendo le summae scolastiche si rimane colpiti dall’ordine, dalla chiarezza, dalla concatenazione logica degli argomenti, e dalla profondità di alcune intuizioni. Con linguaggio tecnico, viene attribuito ad ogni parola un preciso significato e, tra il credere e il comprendere, viene a stabilirsi un reciproco movimento di chiarificazione.

Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della
Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 3,15). Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione.

Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica
Fides et ratio scrive: “La fede e la ragione sono come le due ali, con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità”.

La fede è aperta allo sforzo di comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica.

Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti.

Preghiamo dunque perché il cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei Misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore divino.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
04/11/2009 14:19

[abelardo.gif] 

L’UDIENZA GENERALE, 04.11.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando a parlare dello sviluppo della teologia nel XII secolo, si è soffermato sulla controversia fra San Bernardo ed Abelardo.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

La celebre controversia teologica tra San Bernardo di Chiaravalle e Abelardo nel XII secolo

Cari fratelli e sorelle,

nell’ultima catechesi ho presentato le caratteristiche principali della teologia monastica e della teologia scolastica del XII secolo, che potremmo chiamare, in un certo senso, rispettivamente "teologia del cuore" e "teologia della ragione".
Tra i rappresentanti dell’una e dell’altra corrente teologica si è sviluppato un dibattito ampio e a volte acceso, simbolicamente rappresentato dalla controversia tra
san Bernardo di Chiaravalle
ed Abelardo.

Per comprendere questo confronto tra i due grandi maestri, è bene ricordare che la teologia è la ricerca di una comprensione razionale, per quanto è possibile, dei misteri della Rivelazione cristiana, creduti per fede: fides quaerens intellectum – la fede cerca l’intellegibilità – per usare una definizione tradizionale, concisa ed efficace.

Ora, mentre san Bernardo, tipico rappresentante della teologia monastica, mette l’accento sulla prima parte della definizione, cioè sulla fides - la fede, Abelardo, che è uno scolastico, insiste sulla seconda parte, cioè sull’intellectus, sulla comprensione per mezzo della ragione.

Per Bernardo la fede stessa è dotata di un’intima certezza, fondata sulla testimonianza della Scrittura e sull’insegnamento dei Padri della Chiesa.
La fede inoltre viene rafforzata dalla testimonianza dei santi e dall’ispirazione dello Spirito Santo nell’anima dei singoli credenti. Nei casi di dubbio e di ambiguità, la fede viene protetta e illuminata dall’esercizio del Magistero ecclesiale. Così Bernardo fa fatica ad accordarsi con Abelardo, e più in generale con coloro che sottoponevano le verità della fede all’esame critico della ragione; un esame che comportava, a suo avviso, un grave pericolo, e cioè l’intellettualismo, la relativizzazione della verità, la messa in discussione delle stesse verità della fede. In tale modo di procedere Bernardo vedeva un’audacia spinta fino alla spregiudicatezza, frutto dell’orgoglio dell’intelligenza umana, che pretende di "catturare" il mistero di Dio. In una sua lettera, addolorato, scrive così: "L’ingegno umano si impadronisce di tutto, non lasciando più nulla alla fede. Affronta ciò che è al di sopra di sé, scruta ciò che gli è superiore, irrompe nel mondo di Dio, altera i misteri della fede, più che illuminarli; ciò che è chiuso e sigillato non lo apre, ma lo sradica, e ciò che non trova percorribile per sé, lo considera nulla, e rifiuta di credervi" (Epistola CLXXXVIII,1: PL 182, I, 353).

Per Bernardo la teologia ha un unico scopo: quello di promuovere l’esperienza viva e intima di Dio. La teologia è allora un aiuto per amare sempre di più e sempre meglio il Signore, come recita il titolo del trattato sul Dovere di amare Dio (De diligendo Deo). In questo cammino, ci sono diversi gradi, che Bernardo descrive approfonditamente, fino al culmine quando l’anima del credente si inebria nei vertici dell’amore.

L’anima umana può raggiungere già sulla terra questa unione mistica con il Verbo divino, unione che il Doctor Mellifluus descrive come "nozze spirituali". Il Verbo divino la visita, elimina le ultime resistenze, l’illumina, l’infiamma e la trasforma. In tale unione mistica, essa gode di una grande serenità e dolcezza, e canta al suo Sposo un inno di letizia. Come ho ricordato nella catechesi dedicata alla vita e alla dottrina di san Bernardo, la teologia per lui non può che nutrirsi della preghiera contemplativa, in altri termini dell’unione affettiva del cuore e della mente con Dio.

Abelardo, che tra l’altro è proprio colui che ha introdotto il termine "teologia" nel senso in cui lo intendiamo oggi, si pone invece in una prospettiva diversa.

Nato in Bretagna, in Francia, questo famoso maestro del XII secolo era dotato di un’intelligenza vivissima e la sua vocazione era lo studio. Si occupò dapprima di filosofia e poi applicò i risultati raggiunti in questa disciplina alla teologia, di cui fu maestro nella città più colta dell’epoca, Parigi, e successivamente nei monasteri in cui visse.
Era un oratore brillante: le sue lezioni venivano seguite da vere e proprie folle di studenti. Spirito religioso, ma personalità inquieta, la sua esistenza fu ricca di colpi di scena: contestò i suoi maestri, ebbe un figlio da una donna colta e intelligente, Eloisa.

Si pose spesso in polemica con i suoi colleghi teologi, subì anche condanne ecclesiastiche, pur morendo in piena comunione con la Chiesa, alla cui autorità si sottomise con spirito di fede. Proprio san Bernardo contribuì alla condanna di alcune dottrine di Abelardo nel sinodo provinciale di Sens del 1140, e sollecitò anche l’intervento del Papa Innocenzo II.

L’abate di Chiaravalle contestava, come abbiamo ricordato, il metodo troppo intellettualistico di Abelardo, che, ai suoi occhi, riduceva la fede a una semplice opinione sganciata dalla verità rivelata. Quelli di Bernardo non erano timori infondati ed erano condivisi, del resto, anche da altri grandi pensatori del tempo. Effettivamente, un uso eccessivo della filosofia rese pericolosamente fragile la dottrina trinitaria di Abelardo, e così la sua idea di Dio.
In campo morale il suo insegnamento non era privo di ambiguità: egli insisteva nel considerare l’intenzione del soggetto come l’unica fonte per descrivere la bontà o la malizia degli atti morali, trascurando così l’oggettivo significato e valore morale delle azioni: un soggettivismo pericoloso. È questo – come sappiamo - un aspetto molto attuale per la nostra epoca, nella quale la cultura appare spesso segnata da una crescente tendenza al relativismo etico: solo l’io decide cosa sia buono per me, in questo momento. Non bisogna dimenticare, comunque, anche i grandi meriti di Abelardo, che ebbe molti discepoli e contribuì decisamente allo sviluppo della teologia scolastica, destinata a esprimersi in modo più maturo e fecondo nel secolo successivo. Né vanno sottovalutate alcune sue intuizioni, come, ad esempio, quando afferma che nelle tradizioni religiose non cristiane c’è già una preparazione all’accoglienza di Cristo, Verbo divino.

Che cosa possiamo imparare, noi oggi, dal confronto, dai toni spesso accesi, tra Bernardo e Abelardo, e, in genere, tra la teologia monastica e quella scolastica?

Anzitutto credo che esso mostri l’utilità e la necessità di una sana discussione teologica nella Chiesa, soprattutto quando le questioni dibattute non sono state definite dal Magistero, il quale rimane, comunque, un punto di riferimento ineludibile.

San Bernardo, ma anche lo stesso Abelardo, ne riconobbero sempre senza esitazione l’autorità. Inoltre, le condanne che quest’ultimo subì ci ricordano che in campo teologico deve esserci un equilibrio tra quelli che possiamo chiamare i principi architettonici datici dalla Rivelazione e che conservano perciò sempre la prioritaria importanza, e quelli interpretativi suggeriti dalla filosofia, cioè dalla ragione, e che hanno una funzione importante ma solo strumentale.

Quando tale equilibrio tra l’architettura e gli strumenti di interpretazione viene meno, la riflessione teologica rischia di essere viziata da errori, ed è allora al Magistero che spetta l’esercizio di quel necessario servizio alla verità che gli è proprio.

Inoltre, occorre mettere in evidenza che, tra le motivazioni che indussero Bernardo a "schierarsi" contro Abelardo e a sollecitare l’intervento del Magistero, vi fu anche la preoccupazione di salvaguardare i credenti semplici ed umili, i quali vanno difesi quando rischiano di essere confusi o sviati da opinioni troppo personali e da argomentazioni teologiche spregiudicate, che potrebbero mettere a repentaglio la loro fede.

Vorrei ricordare, infine, che il confronto teologico tra Bernardo e Abelardo si concluse con una piena riconciliazione tra i due, grazie alla mediazione di un amico comune, l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, del quale
ho parlato in una delle catechesi precedenti.

Abelardo mostrò umiltà nel riconoscere i suoi errori, Bernardo usò grande benevolenza. In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teologica, e cioè salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità.

Che questa sia anche oggi l’attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
12/11/2009 13:34

 

715px-Papa_Urbano_II_consacra_l'altare_del_monastero_di_Cluny


CATECHESI DEL SANTO PADRE

L’Ordine di Cluny e la riforma cluniacense


Cari fratelli e sorelle
,

questa mattina vorrei parlarvi di un movimento monastico che ebbe grande importanza nei secoli del Medioevo, e di cui ho già fatto cenno in precedenti catechesi.

Si tratta dell’Ordine di Cluny, che, all’inizio del XII secolo, momento della sua massima espansione, contava quasi 1200 monasteri: una cifra veramente impressionante! A Cluny, proprio 1100 anni fa, nel 910, fu fondato un monastero posto sotto la guida dell’abate Bernone, in seguito alla donazione di Guglielmo il Pio, Duca di Aquitania.
 

In quel momento il monachesimo occidentale, fiorito qualche secolo prima con san Benedetto, era molto decaduto per diverse cause: le instabili condizioni politiche e sociali dovute alle continue invasioni e devastazioni di popoli non integrati nel tessuto europeo, la povertà diffusa e soprattutto la dipendenza delle abbazie dai signori locali, che controllavano tutto ciò che apparteneva ai territori di loro competenza.

In tale contesto, Cluny rappresentò l’anima di un profondo rinnovamento della vita monastica, per ricondurla alla sua ispirazione originaria.

A Cluny venne ripristinata l’osservanza della Regola di san Benedetto con alcuni adattamenti già introdotti da altri riformatori. Soprattutto si volle garantire il ruolo centrale che deve occupare la Liturgia nella vita cristiana.

I monaci cluniacensi si dedicavano con amore e grande cura alla celebrazione delle Ore liturgiche, al canto dei Salmi, a processioni tanto devote quanto solenni e, soprattutto, alla celebrazione della Santa Messa. Promossero la musica sacra; vollero che l’architettura e l’arte contribuissero alla bellezza e alla solennità dei riti; arricchirono il calendario liturgico di celebrazioni speciali come, ad esempio, all’inizio di novembre, la Commemorazione dei fedeli defunti, che anche noi abbiamo da poco celebrato; incrementarono il culto della Vergine Maria.

Fu riservata tanta importanza alla liturgia, perché i monaci di Cluny erano convinti che essa fosse partecipazione alla liturgia del Cielo. Ed i monaci si sentivano responsabili di intercedere presso l’altare di Dio per i vivi e per i defunti, dato che moltissimi fedeli chiedevano loro con insistenza di essere ricordati nella preghiera.

Del resto, proprio con questo scopo Guglielmo il Pio aveva voluto la nascita dell’Abbazia di Cluny. Nell’antico documento, che ne attesta la fondazione, leggiamo: “Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un monastero di regolari in onore dei santi apostoli Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che vivono secondo la Regola di san Benedetto (…) che lì un venerabile asilo di preghiera con voti e suppliche sia frequentato, e si ricerchi e si brami con ogni desiderio e intimo ardore la vita celeste, e assiduamente orazioni, invocazioni e suppliche siano dirette al Signore”.

Per custodire ed alimentare questo clima di preghiera, la regola cluniancense accentuò l’importanza del silenzio, alla cui disciplina i monaci si sottoponevano volentieri, convinti che la purezza delle virtù, a cui aspiravano, richiedeva un intimo e costante raccoglimento. Non meraviglia che ben presto una fama di santità avvolse il monastero di Cluny, e che molte altre comunità monastiche decisero di seguire le sue consuetudini. Molti principi e Papi chiesero agli abati di Cluny di diffondere la loro riforma, sicché in poco tempo si estese una fitta rete di monasteri legati a Cluny o con veri e propri vincoli giuridici o con una sorta di affiliazione carismatica.

Si andava così delineando un’Europa dello spirito nelle varie regioni della Francia, in Italia, in Spagna, in Germania, in Ungheria.

Il successo di Cluny fu assicurato anzitutto dalla spiritualità elevata che vi si coltivava, ma anche da alcune altre condizioni che ne favorirono lo sviluppo.

A differenza di quanto era avvenuto fino ad allora, il monastero di Cluny e le comunità da esso dipendenti furono riconosciuti esenti dalla giurisdizione dei Vescovi locali e sottoposti direttamente a quella del Romano Pontefice. Ciò comportava un legame speciale con la sede di Pietro e, grazie proprio alla protezione e all’incoraggiamento dei Pontefici, gli ideali di purezza e di fedeltà, che la riforma cluniacense intendeva perseguire, poterono diffondersi rapidamente.

Inoltre, gli abati venivano eletti senza alcuna ingerenza da parte delle autorità civili, diversamente da quello che avveniva in altri luoghi. Persone veramente degne si succedettero alla guida di Cluny e delle numerose comunità monastiche dipendenti: l’abate Oddone di Cluny, di cui ho parlato in una Catechesi di due mesi fa, e altre grandi personalità, come Emardo, Maiolo, Odilone e soprattutto Ugo il Grande, i quali svolsero il loro servizio per lunghi periodi, assicurando stabilità alla riforma intrapresa e alla sua diffusione. Oltre a Oddone, sono venerati come santi Maiolo, Odilone e Ugo.

La riforma cluniacense ebbe effetti positivi non solo nella purificazione e nel risveglio della vita monastica, bensì anche nella vita della Chiesa universale. Infatti, l’aspirazione alla perfezione evangelica rappresentò uno stimolo a combattere due gravi mali che affliggevano la Chiesa di quel periodo: la simonia, cioè l’acquisizione di cariche pastorali dietro compenso, e l’immoralità del clero secolare. Gli abati di Cluny con la loro autorevolezza spirituale, i monaci cluniacensi che divennero Vescovi, alcuni di loro persino Papi, furono protagonisti di tale imponente azione di rinnovamento spirituale.

E i frutti non mancarono: il celibato dei sacerdoti tornò a essere stimato e vissuto, e nell’assunzione degli uffici ecclesiastici vennero introdotte procedure più trasparenti.

Significativi pure i benefici apportati alla società dai monasteri ispirati alla riforma cluniacense. In un’epoca in cui solo le istituzioni ecclesiastiche provvedevano agli indigenti fu praticata con impegno la carità. In tutte le case, l’elemosiniere era tenuto a ospitare i viandanti e i pellegrini bisognosi, i preti e i religiosi in viaggio, e soprattutto i poveri che venivano a chiedere cibo e tetto per qualche giorno. Non meno importanti furono altre due istituzioni, tipiche della civiltà medioevale, promosse da Cluny: le cosiddette “tregue di Dio” e la “pace di Dio”. In un’epoca fortemente segnata dalla violenza e dallo spirito di vendetta, con le “tregue di Dio” venivano assicurati lunghi periodi di non belligeranza, in occasione di determinate feste religiose e di alcuni giorni della settimana. Con “la pace di Dio” si chiedeva, sotto la pena di una censura canonica, di rispettare le persone inermi e i luoghi sacri.

Nella coscienza dei popoli dell’Europa si incrementava così quel processo di lunga gestazione, che avrebbe portato a riconoscere, in modo sempre più chiaro, due elementi fondamentali per la costruzione della società, e cioè il valore della persona umana e il bene primario della pace.

Inoltre, come accadeva per le altre fondazioni monastiche, i monasteri cluniacensi disponevano di ampie proprietà che, messe diligentemente a frutto, contribuirono allo sviluppo dell’economia. Accanto al lavoro manuale, non mancarono neppure alcune tipiche attività culturali del monachesimo medioevale come le scuole per i bambini, l’allestimento delle biblioteche, gli scriptoria per la trascrizione dei libri.

In tal modo, mille anni fa, quando era in pieno svolgimento il processo di formazione dell’identità europea, l’esperienza cluniacense, diffusa in vaste regioni del continente europeo, ha apportato il suo contributo importante e prezioso. Ha richiamato il primato dei beni dello spirito; ha tenuto desta la tensione verso le cose di Dio, il primato di Dio; ha ispirato e favorito iniziative e istituzioni per la promozione dei valori umani; ha educato ad uno spirito di pace.

Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché tutti coloro che hanno a cuore un autentico umanesimo e il futuro dell’Europa sappiano riscoprire, apprezzare e difendere il ricco patrimonio culturale e religioso di questi secoli.

© Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana

Appello del Papa per gli sfollati di guerra nello Sri Lanka

Al termine dell’udienza generale il Papa ha lanciato un appello per lo Sri Lanka:

Sono passati circa sei mesi dal termine del conflitto che ha insanguinato lo Sri Lanka. Si notano con soddisfazione gli sforzi di quelle Autorità che, in queste settimane, stanno facilitando il ritorno a casa degli sfollati di guerra. Incoraggio vivamente un’accelerazione di tale impegno e chiedo a tutti i cittadini di adoperarsi per una rapida pacificazione, nel pieno rispetto dei diritti umani, e per una giusta soluzione politica delle sfide che ancora attendono il Paese. Auspico, infine, che la Comunità internazionale si adoperi in favore delle necessità umanitarie ed economiche dello Sri Lanka, ed elevo la mia preghiera alla Vergine Santa di Madhu, affinché continui a vegliare su quella amata Terra.

© Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
18/11/2009 12:05

catechesi arte gotica



UDIENZA GENERALE: IL VIDEO SU BENEDICT XVI.TV

CATECHESI DEL SANTO PADRE: AUDIO INTEGRALE DI RADIO VATICANA

Catechesi dell’udienza generale del 18 novembre 2009: traduzione nelle diverse lingue (da Zenit)

L’UDIENZA GENERALE, 18.11.2009

CATECHESI DEL SANTO PADRE

L’arte romanica e l’arte gotica

Cari fratelli e sorelle!

Nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale.
Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero della fede. Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano. Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario. Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo:
Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione. Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli” (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3,4).

Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa. Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza.

Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità. Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi. Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali. Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture. Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa. Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo. I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.

Nel secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità. Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore. Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza. Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera. La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio. Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome. In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede. In esse – scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici. Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia..

Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede.

La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore. In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente (Christus patiens) divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.. Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa. I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio. E non mancarono le manifestazioni “laiche” dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti. Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia. Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro. Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”.

Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi. Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati.

Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che “i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”.

Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile.

Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati Predecessori, in particolare dai Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II. Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne?

Afferma sant’Agostino: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole… chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?” (Discorsi, 241, 2-3).

Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.

© Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
02/12/2009 18:43

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 25 novembre 2009


Ugo e Riccardo di San Vittore

Cari fratelli e sorelle,

in queste Udienze del mercoledì sto presentando alcune figure esemplari di credenti, che si sono impegnati a mostrare la concordia tra la ragione e la fede e a testimoniare con la loro vita l’annuncio del Vangelo. Oggi intendo parlarvi di Ugo e di Riccardo di San Vittore. Tutti e due sono tra quei filosofi e teologi noti con il nome di Vittorini, perché vissero e insegnarono nell’abbazia di San Vittore, a Parigi, fondata all’inizio del secolo XII da Guglielmo di Champeaux. Guglielmo stesso fu un maestro rinomato, che riuscì a dare alla sua abbazia una solida identità culturale. A San Vittore, infatti, fu inaugurata una scuola per la formazione dei monaci, aperta anche a studenti esterni, dove si realizzò una sintesi felice tra i due modi di fare teologia, di cui ho già parlato in precedenti catechesi: e cioè la teologia monastica, orientata maggiormente alla contemplazione dei misteri della fede nella Scrittura, e la teologia scolastica, che utilizzava la ragione per cercare di scrutare tali misteri con metodi innovativi, di creare un sistema teologico.

Della vita di Ugo di San Vittore abbiamo poche notizie. Sono incerti la data e il luogo della nascita: forse in Sassonia o nelle Fiandre. Si sa che, giunto a Parigi – la capitale europea della cultura del tempo –, trascorse il resto dei suoi anni presso l’abbazia di San Vittore, dove fu prima discepolo e poi insegnante. Già prima della morte, avvenuta nel 1141, raggiunse una grande notorietà e stima, al punto da essere chiamato un “secondo sant’Agostino”: come Agostino, infatti, egli meditò molto sul rapporto tra fede e ragione, tra scienze profane e teologia. Secondo Ugo di San Vittore, tutte le scienze, oltre a essere utili per la comprensione delle Scritture, hanno un valore in se stesse e vanno coltivate per allargare il sapere dell’uomo, come pure per corrispondere al suo anelito di conoscere la verità. Questa sana curiosità intellettuale lo indusse a raccomandare agli studenti di non restringere mai il desiderio di imparare e nel suo trattato di metodologia del sapere e di pedagogia, intitolato significativamente Didascalicon (circa l’insegnamento), raccomandava: “Impara volentieri da tutti ciò che non sai. Sarà più sapiente di tutti colui che avrà voluto imparare qualcosa da tutti. Chi riceve qualcosa da tutti, finisce per diventare più ricco di tutti” (Eruditiones Didascalicae, 3,14: PL 176,774).

La scienza di cui si occupano i filosofi e i teologi detti Vittorini è in modo particolare la teologia, che richiede anzitutto lo studio amoroso della Sacra Scrittura. Per conoscere Dio, infatti, non si può che partire da ciò che Dio stesso ha voluto rivelare di sé attraverso le Scritture. In questo senso, Ugo di San Vittore è un tipico rappresentante della teologia monastica, interamente fondata sull’esegesi biblica. Per interpretare la Scrittura, egli propone la tradizionale articolazione patristico-medievale, cioè il senso storico-letterale, anzitutto, poi quello allegorico e anagogico, e infine quello morale. Si tratta di quattro dimensioni del senso della Scrittura, che anche oggi si riscoprono di nuovo, per cui si vede che nel testo e nella narrazione offerta si nasconde un’indicazione più profonda: il filo della fede, che ci conduce verso l’alto e ci guida su questa terra, insegnandoci come vivere.

Tuttavia, pur rispettando queste quattro dimensioni del senso della Scrittura, in modo originale rispetto ai suoi contemporanei, egli insiste - e questa è una cosa nuova – sull’importanza del senso storico-letterale. In altre parole, prima di scoprire il valore simbolico, le dimensioni più profonde del testo biblico, occorre conoscere e approfondire il significato della storia narrata nella Scrittura: diversamente – avverte con un efficace paragone – si rischia di essere come degli studiosi di grammatica che ignorano l’alfabeto. A chi conosce il senso della storia descritta nella Bibbia, le vicende umane appaiono segnate dalla Provvidenza divina, secondo un suo disegno ben ordinato. Così, per Ugo di San Vittore, la storia non è l’esito di un destino cieco o di un caso assurdo, come potrebbe apparire. Al contrario, nella storia umana opera lo Spirito Santo, che suscita un meraviglioso dialogo degli uomini con Dio, loro amico. Questa visione teologica della storia mette in evidenza l’intervento sorprendente e salvifico di Dio, che realmente entra e agisce nella storia, quasi si fa parte della nostra storia, ma sempre salvaguardando e rispettando la libertà e la responsabilità dell’uomo.

Per il nostro autore, lo studio della Sacra Scrittura e del suo significato storico-letterale rende possibile la teologia vera e propria, ossia l’illustrazione sistematica delle verità, conoscere la loro struttura, l’illustrazione dei dogmi della fede, che egli presenta in solida sintesi nel trattato De Sacramentis christianae fidei (I sacramenti della fede cristiana), dove si trova, fra l’altro, una definizione di “sacramento” che, ulteriormente perfezionata da altri teologi, contiene spunti ancor oggi molto interessanti. “Il sacramento”, egli scrive, “è un elemento corporeo o materiale proposto in maniera esterna e sensibile, che rappresenta con la sua somiglianza una grazia invisibile e spirituale, la significa, perché a tal fine è stato istituito, e la contiene, perché è capace di santificare” (9,2: PL 176,317). Da una parte la visibilità nel simbolo, la “corporeità” del dono di Dio, nel quale tuttavia, dall’altra parte, si nasconde la grazia divina che proviene da una storia: Gesù Cristo stesso ha creato i simboli fondamentali. Tre dunque sono gli elementi che concorrono a definire un sacramento, secondo Ugo di San Vittore: l’istituzione da parte di Cristo, la comunicazione della grazia, e l’analogia tra l’elemento visibile, quello materiale, e l’elemento invisibile, che sono i doni divini. Si tratta di una visione molto vicina alla sensibilità contemporanea, perché i sacramenti vengono presentati con un linguaggio intessuto di simboli e di immagini capaci di parlare immediatamente al cuore degli uomini. È importante anche oggi che gli animatori liturgici, e in particolare i sacerdoti, valorizzino con sapienza pastorale i segni propri dei riti sacramentali – questa visibilità e tangibilità della Grazia – curandone attentamente la catechesi, affinché ogni celebrazione dei sacramenti sia vissuta da tutti i fedeli con devozione, intensità e letizia spirituale.

Un degno discepolo di Ugo di San Vittore è Riccardo, proveniente dalla Scozia. Egli fu priore dell’abbazia di San Vittore dal 1162 al 1173, anno della sua morte. Anche Riccardo, naturalmente, assegna un ruolo fondamentale allo studio della Bibbia, ma, a differenza del suo maestro, privilegia il senso allegorico, il significato simbolico della Scrittura con il quale, ad esempio, interpreta la figura anticotestamentaria di Beniamino, figlio di Giacobbe, quale simbolo della contemplazione e vertice della vita spirituale. Riccardo tratta questo argomento in due testi, Beniamino minore e Beniamino maggiore, nei quali propone ai fedeli un cammino spirituale che invita anzitutto ad esercitare le varie virtù, imparando a disciplinare e a ordinare con la ragione i sentimenti ed i moti interiori affettivi ed emotivi. Solo quando l’uomo ha raggiunto equilibrio e maturazione umana in questo campo, è pronto per accedere alla contemplazione, che Riccardo definisce come “uno sguardo profondo e puro dell’anima riversato sulle meraviglie della sapienza, associato a un senso estatico di stupore e di ammirazione” (Benjamin Maior 1,4: PL 196,67).

La contemplazione quindi è il punto di arrivo, il risultato di un arduo cammino, che comporta il dialogo tra la fede e la ragione, cioè – ancora una volta – un discorso teologico. La teologia parte dalle verità che sono oggetto della fede, ma cerca di approfondirne la conoscenza con l’uso della ragione, appropriandosi del dono della fede. Questa applicazione del ragionamento alla comprensione della fede viene praticata in modo convincente nel capolavoro di Riccardo, uno dei grandi libri della storia, il De Trinitate (La Trinità). Nei sei libri che lo compongono egli riflette con acutezza sul Mistero di Dio uno e trino. Secondo il nostro autore, poiché Dio è amore, l’unica sostanza divina comporta comunicazione, oblazione e dilezione tra due Persone, il Padre e il Figlio, che si trovano fra loro in uno scambio eterno di amore. Ma la perfezione della felicità e della bontà non ammette esclusivismi e chiusure; richiede anzi l’eterna presenza di una terza Persona, lo Spirito Santo. L’amore trinitario è partecipativo, concorde, e comporta sovrabbondanza di delizia, godimento di gioia incessante. Riccardo cioè suppone che Dio è amore, analizza l’essenza dell’amore, che cosa è implicato nella realtà amore, arrivando così alla Trinità delle Persone, che è realmente l’espressione logica del fatto che Dio è amore.

Riccardo tuttavia è consapevole che l’amore, benché ci riveli l’essenza di Dio, ci faccia “comprendere” il Mistero della Trinità, è pur sempre un’analogia per parlare di un Mistero che supera la mente umana, e – da poeta e mistico quale è – ricorre anche ad altre immagini. Paragona ad esempio la divinità a un fiume, a un’onda amorosa che sgorga dal Padre, fluisce e rifluisce nel Figlio, per essere poi felicemente diffusa nello Spirito Santo.

Cari amici, autori come Ugo e Riccardo di San Vittore elevano il nostro animo alla contemplazione delle realtà divine. Nello stesso tempo, l’immensa gioia che ci procurano il pensiero, l’ammirazione e la lode della Santissima Trinità, fonda e sostiene l’impegno concreto di ispirarci a tale modello perfetto di comunione nell’amore per costruire le nostre relazioni umane di ogni giorno. La Trinità è veramente comunione perfetta! Come cambierebbe il mondo se nelle famiglie, nelle parrocchie e in ogni altra comunità i rapporti fossero vissuti seguendo sempre l’esempio delle tre Persone divine, in cui ognuna vive non solo con l’altra, ma per l’altra e nell’altra!

Lo ricordavo qualche mese fa all’
Angelus: “Solo l'amore ci rende felici, perché viviamo in relazione, e viviamo per amare e per essere amati” (L’Oss. Rom., 8-9 giugno 2009, p. 1). È l’amore a compiere questo incessante miracolo: come nella vita della Santissima Trinità, la pluralità si ricompone in unità, dove tutto è compiacenza e gioia. Con sant’Agostino, tenuto in grande onore dai Vittorini, possiamo esclamare anche noi: “Vides Trinitatem, si caritatem vides - contempli la Trinità, se vedi la carità” (De Trinitate VIII, 8,12).


Saluti:

Chers frères et soeurs,
Je suis heureux d’accueillir les pèlerins de langue française présents ce matin. Que votre pèlerinage à Rome contribue à approfondir votre connaissance de Dieu dans son mystère trinitaire et à faire grandir votre amour de l’Église. Que Dieu vous bénisse!
Je voudrais aussi adresser un salut chaleureux aux responsables et aux opérateurs de Télé Lumière – Noursat du Liban, ainsi qu’à leur président, Mgr Aboujaoudé. Chers amis, je vous encourage à poursuivre avec générosité votre mission au service de l’annonce de l’Évangile, de la paix et de la réconciliation au Liban et dans toute la région. A vous tous ainsi qu’à tous les auditeurs de Noursat j’adresse une particulière Bénédiction apostolique.

Dear Brothers and Sisters,
I offer a warm welcome to the pilgrimage of Bishops and faithful from Japan celebrating the first anniversary of the Beatification of Blessed Peter Kibe and Companions. My cordial greeting also goes to the groups from Denmark and the United States of America. Upon all the English-speaking pilgrims and visitors present at today’s Audience, I invoke God’s blessings of joy and peace!

Liebe Brüder und Schwestern!
Mit diesen Gedanken grüße ich alle deutschsprachigen Pilger und Besucher. Die denkerische Bemühung der Theologie wie auch der persönliche Einsatz für ein tugendhaftes Leben helfen uns bei der Betrachtung der Geheimnisse des Glaubens. Wenn der Blick des reinen Herzens auf Gott ruht, können wir aus ihm die Freude und die Kraft schöpfen, die wir brauchen, um nach dem Vorbild der göttlichen Personen nicht mehr nur mit dem anderen, sondern für den anderen und im anderen zu leben. Der Herr segne euch und eure Familien.

Queridos hermanos y hermanas:
Saúdo o grupo de Alphaville e demais peregrinos de língua portuguesa, desejando que o exemplo das três Pessoas divinas – cada uma vive não só com a outra, mas para a outra e na outra – possa inspirar e animar as vossas relações humanas de todos os dias. Com estes votos, de bom grado a todos abençoo.

Queridos irmãos e irmãs!
Saludo a los fieles de lengua española, en particular a los peregrinos provenientes de España, Costa Rica y otros países de Latinoamérica. A todos os invito a profundizar en la contemplación divina para crecer en la caridad y en la comunión fraterna. Muchas gracias.

Saluto in lingua polacca:

Witam serdecznie pielgrzymów polskich. Pragnę przypomnieć dzisiaj dwa istotne wydarzenia roku liturgicznego, który się kończy: zakończony Rok św. Pawła oraz trwający Rok Kapłański. Niech one pomogą wam pełniej zrozumieć tajemnicę Kościoła, jego dzieje i misję ewangelizacyjną. Polecając waszej modlitwie intencje Kościoła a zwłaszcza kapłanów, wam tu obecnym i waszym Bliskim z serca błogosławię.

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Voglio ricordare oggi due importanti eventi dell’anno liturgico che sta volgendo al termine: si è concluso l’Anno Paolino, l’Anno Sacerdotale si sta svolgendo. Che essi ci aiutino a meglio comprendere il mistero della Chiesa, la sua storia e la missione evangelica. Raccomandando alla vostra preghiera le intenzioni della Chiesa, e in modo particolare i sacerdoti, a voi tutti qui presenti e ai vostri cari imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.

Saluto in lingua croata:

Srdačnu dobrodošlicu upućujem hrvatskim hodočasnicima, a osobito vjernicima iz Netretićkog Završja. Neka vam hodočašće na grobove apostola osnaži vjeru u Isusa Krista, učvrsti nadu u vječni život i usavrši ljubav prema bližnjima. Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini croati, particolarmente ai fedeli di Zavrsje Netreticko! Auspico chi il pellegrinaggio alle tombe degli Apostoli fortifichi la vostra fede in Gesù Cristo, rafforzi la speranza alla vita eterna e perfezioni l’amore verso il prossimo. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua slovacca:

S láskou pozdravujem slovenských pútnikov, osobitne z Čadce - Kýčerky a Žiliny.

Bratia a sestry, budúcu nedeľu začíname nový liturgický rok. Prajem vám, aby ste Adventné obdobie prežívali podľa vzoru Panny Márie v radostnom očakávaní Spasiteľa. Zo srdca žehnám vás i vaše rodiny.
Pochválený buď Ježiš Kristus!

Traduzione italiana:

Saluto con affetto i pellegrini slovacchi, particolarmente quelli provenienti da Čadca - Kýčerka e Žilina.
Fratelli e sorelle, domenica prossima iniziamo il nuovo anno liturgico. Vi auguro di vivere il Tempo di Avvento come la Vergine Maria nella gioiosa attesa del Salvatore. Di cuore benedico voi e le vostre famiglie.
Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua ucraina:

Щиро вітаю українських військовиків, запевняючи їм та їхнім родинам окрему згадку в молитвах, щоб вони завжди змогли виконувати Божу волю! Від щирого серця вас благословлю.

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale saluto ai militari ucraini, assicurando per loro e per le loro famiglie un particolare ricordo nella preghiera perché possano sempre compiere la volontà di Dio. Di cuore vi benedico.

Saluto in lingua ceca:

Srdečně zdravím poutníky z České republiky, zejména věřící Plzeňské diecéze a všechny ujišťuji svou modlitbou za to, aby Pán každého naplnil svou milostí a svým požehnáním.

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente i pellegrini della Repubblica Ceca, specialmente i fedeli della diocesi di Plzen, assicurando per ciascuno il mio ricordo nella preghiera affinché il Signore ricolmi ciascuno della sua grazia e della sua benedizione.


* * *

Saluto con affetto i pellegrini italiani. In particolare rivolgo un cordiale benvenuto ai sacerdoti della diocesi di Forlì-Bertinoro, assicurando la mia preghiera affinché possano rinnovare generosamente i loro propositi di fedeltà alla chiamata del Signore. Saluto i rappresentanti del Centro Benedetto XIII, di Gravina, qui convenuti con il Vescovo Mons. Mario Paciello, esortandoli a far conoscere sempre più la luminosa figura di questo Pontefice, che servì il Vangelo e la Chiesa con ardore apostolico. Saluto altresì i fedeli della parrocchia Santa Maria Assunta in Cervia, i partecipanti al pellegrinaggio promosso dall’Ordine dei Minimi e gli alunni del liceo Parini di Barzanò.

Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Domenica prossima, inizia il tempo di Avvento. Esorto voi, giovani, a vivere questo "tempo forte" con vigile preghiera e generoso impegno evangelico. Incoraggio voi, malati, a sostenere con l'offerta delle vostre sofferenze il cammino di preparazione al Santo Natale del popolo cristiano. Auguro a voi, sposi novelli, di essere testimoni dello Spirito d'amore che anima e sostiene l'intera Famiglia di Dio.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
02/12/2009 18:44

L’UDIENZA GENERALE, 02.12.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato su Guglielmo di Saint-Thierry.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Guglielmo di Saint-Thierry

Cari fratelli e sorelle,

in una precedente Catechesi ho presentato la figura di
Bernardo di Chiaravalle
, il “Dottore della dolcezza”, grande protagonista del secolo dodicesimo. Il suo biografo – amico ed estimatore – fu Guglielmo di Saint-Thierry, sul quale mi soffermo nella riflessione di questa mattina.

Guglielmo nacque a Liegi tra il 1075 e il 1080. Di nobile famiglia, dotato di un’intelligenza viva e di un innato amore per lo studio, frequentò famose scuole dell’epoca, come quelle della sua città natale e di Reims, in Francia. Entrò in contatto personale anche con Abelardo, il maestro che applicava la filosofia alla teologia in modo così originale da suscitare molte perplessità e opposizioni. Anche Guglielmo espresse le proprie riserve, sollecitando il suo amico Bernardo a prendere posizione nei confronti di Abelardo. Rispondendo a quel misterioso e irresistibile appello di Dio, che è la vocazione alla vita consacrata, Guglielmo entrò nel monastero benedettino di Saint-Nicaise di Reims nel 1113, e qualche anno dopo divenne abate del monastero di Saint-Thierry, in diocesi di Reims. In quel periodo era molto diffusa l’esigenza di purificare e rinnovare la vita monastica, per renderla autenticamente evangelica. Guglielmo operò in questo senso all’interno del proprio monastero, e in genere nell’Ordine benedettino. Tuttavia incontrò non poche resistenze di fronte ai suoi tentativi di riforma, e così, nonostante il consiglio contrario dell’amico Bernardo, nel 1135, lasciò l’abbazia benedettina, smise l’abito nero e indossò quello bianco, per unirsi ai cistercensi di Signy. Da quel momento fino alla morte, avvenuta nel 1148, si dedicò alla contemplazione orante dei misteri di Dio, da sempre oggetto dei suoi più profondi desideri, e alla composizione di scritti di letteratura spirituale, importanti nella storia della teologia monastica.

Una delle sue prime opere è intitolata De natura et dignitate amoris (La natura e la dignità dell’amore). Vi è espressa una delle idee fondamentali di Guglielmo, valida anche per noi.

L’energia principale che muove l’animo umano è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano: imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente.

Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l’uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato. Scrive infatti Guglielmo: “L’arte delle arti è l’arte dell’amore… L’amore è suscitato dal Creatore della natura. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio” (La natura e la dignità dell’amore 1, PL 184,379).

Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell’uomo: l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia.

In questo itinerario la persona deve imporsi un’ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all’egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, mèta e forza dell’amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come “sapienza”. A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte le facoltà dell’uomo - intelligenza, volontà, affetti - riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo.

Anche in altre opere, Guglielmo parla di questa radicale vocazione all’amore per Dio, che costituisce il segreto di una vita riuscita e felice, e che egli descrive come un desiderio incessante e crescente, ispirato da Dio stesso nel cuore dell’uomo.

In una meditazione egli dice che l’oggetto di questo amore è l’Amore con la “A” maiuscola, cioè Dio. È lui che si riversa nel cuore di chi ama, e lo rende atto a riceverlo. Si dona a sazietà e in modo tale, che di questa sazietà il desiderio non viene mai meno. Questo slancio d’amore è il compimento dell’uomo” (De contemplando Deo 6, passim, SC 61bis, pp. 79-83).

Colpisce il fatto che Guglielmo, nel parlare dell’amore a Dio attribuisca una notevole importanza alla dimensione affettiva. In fondo, cari amici, il nostro cuore è fatto di carne, e quando amiamo Dio, che è l’Amore stesso, come non esprimere in questa relazione con il Signore anche i nostri umanissimi sentimenti, come la tenerezza, la sensibilità, la delicatezza? Il Signore stesso, facendosi uomo, ha voluto amarci con un cuore di carne!

Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante: illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu.

L’amore invece produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’oggetto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo: “Amor ipse intellectus est - già in se stesso l’amore è conoscenza, è principio di conoscenza”. Cari amici, non è proprio così nella nostra vita?

Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente. E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza: Dio lo si conosce se lo si ama!

Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu, presso i quali egli si era recato in visita e che volle incoraggiare e consolare. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d’oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità. In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre passare dall’uomo “animale” a quello “razionale”, per approdare a quello “spirituale”. Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni?

All’inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un’armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell’anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell’amore e per amore. Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell’uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell’uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’immagine di Dio presente nell’uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un’identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama “unità di spirito”, si giunge non con lo sforzo personale, ma è necessaria un’altra cosa: si raggiunge per l’azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell’anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d’amore presente nell’uomo. “Vi è poi un’altra somiglianza con Dio”, leggiamo nell’Epistola aurea, “che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l’uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l’unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l’uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è: l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura” (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355).

Cari fratelli e sorelle, questo autore, che potremmo definire il “Cantore dell’amore, della carità”, ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte: amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna.

Mettiamoci quindi alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere.

Proprio con una giovane santa, Dottore della Chiesa, Teresa di Gesù Bambino, diciamo anche noi al Signore che vogliamo vivere d’amore: “Io ti amo, e tu lo sai, divino Gesù! Lo Spirito d'amore mi incendia col suo fuoco. Amando Te attiro il Padre, che il mio debole cuore conserva, senza scampo. O Trinità! Sei prigioniera del mio amore. Vivere d'amore, quaggiù, è un darsi smisurato, senza chiedere salario … quando si ama non si fanno calcoli. Io ho dato tutto al Cuore divino, che trabocca di tenerezza! E corro leggermente. Non ho più nulla, e la mia sola ricchezza è vivere d'amore”.

Saluto in lingua italiana

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, fedeli dell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace, accompagnati dall’Arcivescovo Mons. Antonio Ciliberti, ed auguro che la sosta presso i luoghi sacri rinsaldi la vostra adesione a Cristo e faccia crescere la carità nelle vostre comunità. Accompagno tutti, specialmente voi Seminaristi, con un particolare ricordo nella preghiera, perché il Signore vi ricolmi di copiosi doni spirituali. Saluto i rappresentanti dell’Associazione Marinai d’Italia, convenuti così numerosi, ed auspico che questo incontro possa ravvivare in ciascuno il desiderio di amare Dio e il prossimo. Saluto, inoltre, i rappresentanti della Federazione Italiana Panificatori e Pasticcieri e li ringrazio per il generoso dono dei panettoni destinati alle opere di carità del Papa.

Saluto, infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Proprio oggi ricorre il 25° anniversario di promulgazione dell’Esortazione Apostolica
Reconciliatio et paenitentia
, che richiamò l’attenzione sull’importanza del sacramento della penitenza nella vita della Chiesa.
In questa significativa ricorrenza, desidero rievocare alcune figure straordinarie di "apostoli del confessionale", instancabili dispensatori della misericordia divina: san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso, san Leopoldo Mandić, san Pio da Pietrelcina. La loro testimonianza di fede e di carità incoraggi voi, cari giovani, a fuggire il peccato e a progettare il vostro futuro come un generoso servizio a Dio e al prossimo. Aiuti voi, cari malati, a sperimentare nella sofferenza la misericordia di Cristo crocifisso. E solleciti voi, cari sposi novelli, a creare in famiglia un clima costante di fede e di reciproca comprensione. L’esempio di questi Santi, assidui e fedeli ministri del perdono divino, sia infine per i sacerdoti –
specialmente in questo Anno sacerdotale
– e per tutti i cristiani un invito a confidare sempre nella bontà di Dio, accostandosi e celebrando con fiducia il Sacramento della Riconciliazione.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
09/12/2009 14:16

[20.jpg] 

L’UDIENZA GENERALE, 09.12.2009

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato su Ruperto di Deutz.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti
.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Ruperto di Deutz

Cari fratelli e sorelle,

oggi facciamo conoscenza di un altro monaco benedettino del dodicesimo secolo. Il suo nome è Ruperto di Deutz, una città vicina a Colonia, sede di un famoso monastero.
Ruperto stesso parla della propria vita in una delle sue opere più importanti, intitolata La gloria e l’onore del Figlio dell’uomo, che è un commento parziale al Vangelo di Matteo. Ancora bambino, egli fu accolto come "oblato" nel monastero benedettino di San Lorenzo a Liegi, secondo l’usanza dell’epoca di affidare uno dei figli all’educazione dei monaci, intendendo farne un dono a Dio. Ruperto amò sempre la vita monastica. Apprese ben presto la lingua latina per studiare la Bibbia e per godere delle celebrazioni liturgiche.

Si distinse per l’integerrima dirittura morale e per il forte attaccamento alla Sede di san Pietro.

I suoi tempi erano segnati da contrasti tra il Papato e l’Impero, a causa della cosiddetta "lotta delle investiture", con la quale - come ho accennato in altre Catechesi - il Papato voleva impedire che la nomina dei Vescovi e l’esercizio della loro giurisdizione dipendessero dalle autorità civili, che erano guidate per lo più da motivazioni politiche ed economiche, non certo pastorali.

Il Vescovo di Liegi, Otberto, resisteva alle direttive del Papa e mandò in esilio Berengario, abate del monastero di San Lorenzo, proprio per la sua fedeltà al Pontefice. In tale monastero viveva Ruperto, il quale non esitò a seguire il suo Abate in esilio e solo quando il Vescovo Otberto rientrò in comunione con il Papa fece ritorno a Liegi e accettò di diventare sacerdote.

Fino a quel momento, infatti, aveva evitato di ricevere l’ordinazione da un Vescovo in dissenso con il Papa. Ruperto ci insegna che quando sorgono controversie nella Chiesa, il riferimento al ministero petrino garantisce fedeltà alla sana dottrina e dona serenità e libertà interiore.

Dopo la disputa con Otberto, egli dovette abbandonare il suo monastero ancora due volte. Nel 1116 gli avversari lo vollero addirittura processare. Benché assolto da ogni accusa, Ruperto preferì recarsi per un certo tempo a Siegburg, ma poiché le polemiche non erano ancora cessate quando fece ritorno nel monastero di Liegi, decise di stabilirsi definitivamente in Germania. Nominato abate di Deutz nel 1120, vi rimase fino al 1129, anno della sua morte. Se ne allontanò solo per un pellegrinaggio a Roma, nel 1124.

Scrittore fecondo, Ruperto ha lasciato numerosissime opere, ancora oggi di grande interesse, anche perché egli fu attivo in varie e importanti discussioni teologiche del tempo. Ad esempio, intervenne con determinazione nella controversia eucaristica, che nel 1077 aveva condotto alla condanna di Berengario di Tours. Questi aveva dato un’interpretazione riduttiva della presenza di Cristo nel Sacramento dell’Eucaristia, definendola solo simbolica.

Nel linguaggio della Chiesa non era entrato ancora il termine "transustanziazione", ma Ruperto, adoperando a volte espressioni audaci, si fece deciso sostenitore del realismo eucaristico e, soprattutto in un’opera intitolata De divinis officiis (Gli offici divini), affermò con decisione la continuità tra il Corpo del Verbo incarnato di Cristo e quello presente nelle Specie eucaristiche del pane e del vino.

Cari fratelli e sorelle, mi sembra che a questo punto dobbiamo anche pensare al nostro tempo; anche oggi esiste il pericolo di ridimensionare il realismo eucaristico, considerare, cioè, l’Eucaristia quasi come solo un rito di comunione, di socializzazione, dimenticando troppo facilmente che nell’Eucaristia è presente realmente Cristo risorto - con il suo corpo risorto - il quale si mette nelle nostre mani per tirarci fuori da noi stessi, incorporarci nel suo corpo immortale e guidarci così alla vita nuova.

Questo grande mistero che il Signore è presente in tutta la sua realtà nelle specie eucaristiche è un mistero da adorare e da amare sempre di nuovo!

Vorrei qui citare le parole del
Catechismo della Chiesa Cattolica che portano in sé il frutto della meditazione della fede e della riflessione teologica di duemila anni: "Gesù Cristo è presente nell'Eucaristia in modo unico e incomparabile. È presente infatti in modo vero, reale, sostanziale: con il suo Corpo e il suo Sangue, con la sua Anima e la sua Divinità. In essa è quindi presente in modo sacramentale, e cioè sotto le Specie eucaristiche del pane e del vino, Cristo tutto intero: Dio e uomo" (CCC, 1374). Anche Ruperto ha contributo, con le sue riflessioni, a questa precisa formulazione.

Un’altra controversia, nella quale l’abate di Deutz fu coinvolto, riguarda il problema della conciliazione della bontà e dell’onnipotenza di Dio con l’esistenza del male.

Se Dio è onnipotente e buono, come si spiega la realtà del male? Ruperto infatti reagì alla posizione assunta dai maestri della scuola teologica di Laon, che con una serie di ragionamenti filosofici distinguevano nella volontà di Dio l’"approvare" e il "permettere", concludendo che Dio permette il male senza approvarlo e, dunque, senza volerlo. Ruperto, invece, rinuncia all’uso della filosofia, che ritiene inadeguata di fronte a un problema così grande, e rimane semplicemente fedele alla narrazione biblica. Egli parte dalla bontà di Dio, dalla verità che Dio è sommamente buono e non può che volere il bene. Così egli individua l’origine del male nell’uomo stesso e nell’uso sbagliato della libertà umana. Quando Ruperto affronta questo argomento, scrive delle pagine piene di afflato religioso per lodare la misericordia infinita del Padre, la pazienza e la benevolenza di Dio verso l’uomo peccatore.

Come altri teologi del Medioevo, anche Ruperto si domandava: perché il Verbo di Dio, il Figlio di Dio, si è fatto uomo? Alcuni, molti, rispondevano spiegando l’incarnazione del Verbo con l’urgenza di riparare il peccato dell’uomo. Ruperto, invece, con una visione cristocentrica della storia della salvezza, allarga la prospettiva, e in una sua opera intitolata La glorificazione della Trinità sostiene la posizione che l’Incarnazione, evento centrale di tutta la storia, era stata prevista sin dall’eternità, anche indipendentemente dal peccato dell’uomo, affinché tutta la creazione potesse dare lode a Dio Padre e amarlo come un’unica famiglia radunata attorno a Cristo, il Figlio di Dio. Egli vede allora nella donna incinta dell’Apocalisse l’intera storia dell’umanità, che è orientata a Cristo, così come il concepimento è orientato al parto, una prospettiva che sarà sviluppata da altri pensatori e valorizzata anche dalla teologia contemporanea, la quale afferma che tutta la storia del mondo e dell’umanità è concepimento orientato al parto di Cristo. Cristo è sempre al centro delle spiegazioni esegetiche fornite da Ruperto nei suoi commenti ai Libri della Bibbia, ai quali si dedicò con grande diligenza e passione. Egli ritrova così un’unità mirabile in tutti gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione sino alla consumazione finale dei tempi: "Tutta la Scrittura", egli afferma, "è un solo libro, che tende allo stesso fine [il Verbo divino]; che viene da un solo Dio e che è stato scritto da un solo Spirito" (De glorificatione Trinitatis et processione Sancti Spiritus I,V, PL 169, 18).

Nell’interpretazione della Bibbia, Ruperto non si limita a ripetere l’insegnamento dei Padri, ma mostra una sua originalità. Egli, per esempio, è il primo scrittore che ha identificato la sposa del Cantico dei Cantici con Maria santissima.

Così il suo commento a questo libro della Scrittura si rivela una sorta di summa mariologica, in cui sono presentati i privilegi e le eccellenti virtù di Maria. In uno dei passaggi più ispirati del suo commento Ruperto scrive: "O dilettissima tra le dilette, Vergine delle vergini, che cosa loda in te il tuo Figlio diletto, che l’intero coro degli angeli esalta? Vengono lodate la semplicità, la purezza, l’innocenza, la dottrina, il pudore, l’umiltà, l’integrità della mente e della carne, vale a dire l’incorrotta verginità" (In Canticum Canticorum 4,1-6, CCL 26, pp. 69-70).

L’interpretazione mariana del Cantico di Ruperto è un felice esempio della sintonia tra liturgia e teologia. Infatti, vari brani di questo Libro biblico erano già usati nelle celebrazioni liturgiche delle feste mariane.

Ruperto, inoltre, ha cura di inserire la sua dottrina mariologica in quella ecclesiologica. In altri termini, egli vede in Maria santissima la parte più santa della Chiesa intera. Ecco perché il mio venerato predecessore, il Papa Paolo VI, nel
discorso di chiusura della terza sessione del Concilio Vaticano II, proclamando solennemente Maria Madre della Chiesa, citò proprio una proposizione tratta dalle opere di Ruperto, che definisce Maria portio maxima, portio optima – la parte più eccelsa, la parte migliore della Chiesa (cfr In Apocalypsem 1.7, PL 169,1043).

Cari amici, da questi rapidi accenni ci accorgiamo che Ruperto è stato un teologo fervoroso, dotato di grande profondità.

Come tutti i rappresentanti della teologia monastica, egli ha saputo coniugare lo studio razionale dei misteri della fede con l’orazione e con la contemplazione, considerata il vertice di ogni conoscenza di Dio.

Egli stesso parla qualche volta delle sue esperienze mistiche, come quando confida l’ineffabile gioia di aver percepito la presenza del Signore: "In quel breve momento – egli afferma – ho sperimentato quanto sia vero ciò che egli stesso dice: Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (De gloria et honore Filii hominis. Super Matthaeum 12, PL 168, 1601).
Anche noi possiamo, ognuno nel suo modo proprio, incontrare il Signore Gesù, che incessantemente accompagna il nostro cammino, si fa presente nel Pane eucaristico e nella sua Parola per la nostra salvezza.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
18/12/2009 05:50

VATICAN POPE



UDIENZA GENERALE: IL VIDEO SU BENEDICT XVI.TV

CATECHESI DEL SANTO PADRE: AUDIO INTEGRALE DI RADIO VATICANA

Catechesi dell’udienza generale del 16 dicembre 2009:

L’UDIENZA GENERALE, 16.12.2009

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Giovanni di Salisbury

Cari fratelli e sorelle,

oggi ci avviamo a conoscere la figura di Giovanni di Salisbury, che apparteneva a una delle scuole filosofiche e teologiche più importanti del Medioevo, quella della cattedrale di Chartres, in Francia. Anch’egli, come i teologi di cui ho parlato nelle settimane scorse, ci aiuta a comprendere come la fede, in armonia con le giuste aspirazioni della ragione, spinge il pensiero verso la verità rivelata, nella quale si trova il vero bene dell’uomo.

Giovanni nacque in Inghilterra, a Salisbury, tra il 1100 e il 1120. Leggendo le sue opere, e soprattutto il suo ricco epistolario, veniamo a conoscenza dei fatti più importanti della sua vita. Per circa dodici anni, dal 1136 al 1148, egli si dedicò agli studi, frequentando le scuole più qualificate dell’epoca, nelle quali ascoltò le lezioni di maestri famosi. Si recò a Parigi e poi a Chartres, l’ambiente che segnò maggiormente la sua formazione e di cui assimilò la grande apertura culturale, l’interesse per i problemi speculativi e l’apprezzamento per la letteratura. Come spesso accadeva in quel tempo, gli studenti più brillanti venivano richiesti da prelati e sovrani, per esserne stretti collaboratori. Questo accadde anche a Giovanni di Salisbury, che da un suo grande amico, Bernardo di Chiaravalle, fu presentato a Teobaldo, Arcivescovo di Canterbury – sede primaziale dell’Inghilterra -, il quale volentieri lo accolse nel suo clero. Per undici anni, dal 1150 al 1161, Giovanni fu segretario e cappellano dell’anziano Arcivescovo. Con infaticabile zelo, mentre continuava a dedicarsi allo studio, egli svolse un’intensa attività diplomatica, recandosi per dieci volte in Italia, con lo scopo esplicito di curare i rapporti del Regno e della Chiesa di Inghilterra con il Romano Pontefice. Fra l’altro, in quegli anni il Papa era Adriano IV, un inglese che ebbe con Giovanni di Salisbury una stretta amicizia. Negli anni successivi alla morte di Adriano IV, avvenuta nel 1159, in Inghilterra si creò una situazione di grave tensione tra la Chiesa e il Regno. Il re Enrico II, infatti, intendeva affermare la sua autorità sulla vita interna della Chiesa, limitandone la libertà.

Questa presa di posizione suscitò le reazioni di Giovanni di Salisbury, e soprattutto la coraggiosa resistenza del successore di Teobaldo sulla cattedra episcopale di Canterbury, san Tommaso Becket, che per questo motivo andò in esilio, in Francia. Giovanni di Salisbury lo accompagnò e rimase al suo servizio, adoperandosi sempre per una riconciliazione. Nel 1170, quando sia Giovanni, sia Tommaso Becket erano già rientrati in Inghilterra, quest’ultimo fu assalito e ucciso all’interno della sua cattedrale. Morì da martire e come tale fu subito venerato dal popolo. Giovanni continuò a servire fedelmente anche il successore di Tommaso, fino a quando venne eletto Vescovo di Chartres, dove rimase dal 1176 al 1180, anno della sua morte.

Delle opere di Giovanni di Salisbury vorrei segnalarne due, che sono ritenute i suoi capolavori, designate elegantemente con i titoli greci di Metaloghicón (In difesa della logica) e il Polycráticus (L’uomo di Governo).

Nella prima opera egli – non senza quella fine ironia che caratterizza molti uomini colti – respinge la posizione di coloro che avevano una concezione riduttiva della cultura, considerata come vuota eloquenza, inutili parole. Giovanni, invece, elogia la cultura, l’autentica filosofia, l’incontro cioè tra pensiero forte e comunicazione, parola efficace. Egli scrive: “Come infatti non solo è temeraria, ma anche cieca l’eloquenza non illuminata dalla ragione, così la sapienza che non si giova dell’uso della parola è non solo debole, ma in certo modo monca: infatti, anche se, talora, una sapienza senza parola può giovare a confronto della propria coscienza, raramente e poco giova alla società” (Metaloghicón 1,1, PL 199,327).

Un insegnamento molto attuale. Oggi, quella che Giovanni definiva “eloquenza”, cioè la possibilità di comunicare con strumenti sempre più elaborati e diffusi, si è enormemente moltiplicata. Tuttavia, tanto più rimane urgente la necessità di comunicare messaggi dotati di “sapienza”, ispirati cioè alla verità, alla bontà, alla bellezza. È questa una grande responsabilità, che interpella in particolare le persone che operano nell’ambito multiforme e complesso della cultura, della comunicazione, dei media. Ed è questo un ambito nel quale si può annunciare il Vangelo con vigore missionario.

Nel Metaloghicón Giovanni affronta i problemi della logica, ai suoi tempi oggetto di grande interesse, e si pone una domanda fondamentale: che cosa può conoscere la ragione umana? Fino a che punto essa può corrispondere a quell’aspirazione che c’è in ogni uomo, cioé la conoscenza della verità? Giovanni di Salisbury adotta una posizione moderata, basata sull’insegnamento di alcuni trattati di Aristotele e di Cicerone. Secondo lui, ordinariamente la ragione umana raggiunge delle conoscenze che non sono indiscutibili, ma probabili e opinabili.
 

La conoscenza umana – questa la sua conclusione – è imperfetta, perché soggetta alla finitezza, al limite dell’uomo. Essa, però, cresce e si perfeziona grazie all’esperienza e all’elaborazione di ragionamenti corretti e coerenti, in grado di stabilire rapporti tra i concetti e la realtà, grazie alla discussione, al confronto e al sapere che si arricchisce di generazione in generazione. Solo in Dio vi è una scienza perfetta, che viene comunicata all’uomo, almeno parzialmente, per mezzo della Rivelazione accolta nella fede, per cui la scienza della fede, la teologia, dispiega le potenzialità della ragione e fa avanzare con umiltà nella conoscenza dei misteri di Dio.

Il credente e il teologo, che approfondiscono il tesoro della fede, si aprono anche a un sapere pratico, che guida le azioni quotidiane, cioè alle leggi morali e all’esercizio delle virtù. “La clemenza di Dio”, scrive Giovanni di Salisbury, “ci ha concesso la sua legge, che stabilisce quali cose sia per noi utile conoscere, e che indica quanto ci è lecito sapere di Dio e quanto è giusto indagare… In questa legge, infatti, si esplicita e si rende palese la volontà di Dio, affinché ciascuno di noi sappia ciò che per lui è necessario fare” (Metaloghicón 4,41, PL 199,944-945).

Esiste, secondo Giovanni di Salisbury, anche una verità oggettiva e immutabile, la cui origine è in Dio, accessibile alla ragione umana e che riguarda l’agire pratico e sociale. Si tratta di un diritto naturale, al quale le leggi umane e le autorità politiche e religiose devono ispirarsi, affinché possano promuovere il bene comune.

Questa legge naturale è caratterizzata da una proprietà che Giovanni chiama “equità”, cioè l’attribuzione a ogni persona dei suoi diritti. Da essa discendono precetti che sono legittimi presso tutti i popoli, e che non possono in nessun caso essere abrogati. È questa la tesi centrale del Polycráticus, il trattato di filosofia e di teologia politica, in cui Giovanni di Salisbury riflette sulle condizioni che rendono l’azione dei governanti giusta e consentita.

Mentre altri argomenti affrontati in quest’opera sono legati alle circostanze storiche in cui essa fu composta, il tema del rapporto tra legge naturale e ordinamento giuridico-positivo, mediato dall’equità, è ancor oggi di grande importanza. Nel nostro tempo, infatti, soprattutto in alcuni Paesi, assistiamo a uno scollamento preoccupante tra la ragione, che ha il compito di scoprire i valori etici legati alla dignità della persona umana, e la libertà, che ha la responsabilità di accoglierli e promuoverli.

Forse Giovanni di Salisbury ci ricorderebbe oggi che sono conformi all’equità solo quelle leggi che tutelano la sacralità della vita umana e respingono la liceità dell’aborto, dell’eutanasia e delle disinvolte sperimentazioni genetiche, quelle leggi che rispettano la dignità del matrimonio tra l’uomo e la donna, che si ispirano a una corretta laicità dello Stato – laicità che comporta pur sempre la salvaguardia della libertà religiosa –, e che perseguono la sussidiarietà e la solidarietà a livello nazionale e internazionale.

Diversamente, finirebbe per instaurarsi quella che Giovanni di Salisbury definisce la “tiranna del principe” o, diremmo noi, “la dittatura del relativismo”: un relativismo che, come ricordavo qualche anno fa, “non riconosce nulla come definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Nella mia più recente Enciclica, Caritas in veritate, rivolgendomi agli uomini di buona volontà, che si impegnano affinché l’azione sociale e politica non sia mai sganciata dalla verità oggettiva sull’uomo e sulla sua dignità, ho scritto: “La verità e l’amore che essa dischiude non si possono produrre, si possono solo accogliere. La loro fonte ultima non è, né può essere, l’uomo, ma Dio, ossia Colui che è Verità e Amore.

Questo principio è assai importante per la società e per lo sviluppo, in quanto né l’una né l’altro possono essere solo prodotti umani; la stessa vocazione allo sviluppo delle persone e dei popoli non si fonda su una semplice deliberazione umana, ma è inscritta in un piano che ci precede, e che costituisce per tutti noi un dovere che deve essere liberamente accolto
” (n. 52).

Questo piano che ci precede, questa verità, dobbiamo cercare di accoglierla perché nasca la giustizia…e possiamo trovarla e accoglierla solo con un cuore, una volontà e una ragione purificati nella luce di Dio.

© Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
24/12/2009 08:27

L’UDIENZA GENERALE, 23.12.2009



L’UDIENZA GENERALE, 23.12.2009

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Cari fratelli e sorelle,

con la Novena di Natale, che stiamo celebrando in questi giorni, la Chiesa ci invita a vivere in modo intenso e profondo la preparazione alla Nascita del Salvatore, ormai imminente. Il desiderio, che tutti portiamo nel cuore, è che la prossima festa del Natale ci doni, in mezzo all’attività frenetica dei nostri giorni, serena e profonda gioia per farci toccare con mano la bontà del nostro Dio e infonderci nuovo coraggio.

Per comprendere meglio il significato del Natale del Signore vorrei fare un breve cenno all’origine storica di questa solennità.

Infatti, l’Anno liturgico della Chiesa non si è sviluppato inizialmente partendo dalla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Perciò la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma è la Pasqua; la risurrezione di Cristo fonda la fede cristiana, è alla base dell’annuncio del Vangelo e fa nascere la Chiesa. Quindi essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, facendoci coinvolgere nel dinamismo che è originato dal Battesimo e che porta a morire al peccato per vivere con Dio (cfr Rm 6,4).

Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al Libro del profeta Daniele, scritto verso il 204. Qualche esegeta nota, poi, che in quel giorno si celebrava la festa della Dedicazione del Tempio di Gerusalemme, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 avanti Cristo. La coincidenza di date verrebbe allora a significare che con Gesù, apparso come luce di Dio nella notte, si realizza veramente la consacrazione del tempio, l’Avvento di Dio su questa terra.

Nella cristianità la festa del Natale ha assunto una forma definita nel IV secolo, quando essa prese il posto della festa romana del “Sol invictus”, il sole invincibile; si mise così in evidenza che la nascita di Cristo è la vittoria della vera luce sulle tenebre del male e del peccato. Tuttavia, la particolare e intensa atmosfera spirituale che circonda il Natale si è sviluppata nel Medioevo, grazie a san Francesco d’Assisi, che era profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, nella Vita seconda racconta che san Francesco «Al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato a un seno umano» (Fonti Francescane, n. 199, p. 492).

Da questa particolare devozione al mistero dell’Incarnazione ebbe origine la famosa celebrazione del Natale a Greccio. Essa, probabilmente, fu ispirata a san Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e dal presepe di Santa Maria Maggiore in Roma. Ciò che animava il Poverello di Assisi era il desiderio di sperimentare in maniera concreta, viva e attuale l’umile grandezza dell’evento della nascita del Bambino Gesù e di comunicarne la gioia a tutti.

Nella prima biografia, Tommaso da Celano parla della notte del presepe di Greccio in un modo vivo e toccante, offrendo un contributo decisivo alla diffusione della tradizione natalizia più bella, quella del presepe. La notte di Greccio, infatti, ha ridonato alla cristianità l’intensità e la bellezza della festa del Natale, e ha educato il Popolo di Dio a coglierne il messaggio più autentico, il particolare calore, e ad amare ed adorare l’umanità di Cristo. Tale particolare approccio al Natale ha offerto alla fede cristiana una nuova dimensione. La Pasqua aveva concentrato l’attenzione sulla potenza di Dio che vince la morte, inaugura la vita nuova e insegna a sperare nel mondo che verrà. Con san Francesco e il suo presepe venivano messi in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua benignità, che nell’Incarnazione del Verbo si manifesta agli uomini per insegnare un nuovo modo di vivere e di amare.

Il Celano racconta che, in quella notte di Natale, fu concessa a Francesco la grazia di una visione meravigliosa. Vide giacere immobile nella mangiatoia un piccolo bambino, che fu risvegliato dal sonno proprio dalla vicinanza di Francesco. E aggiunge: «Né questa visione discordava dai fatti perché, a opera della sua grazia che agiva per mezzo del suo santo servo Francesco, il fanciullo Gesù fu risuscitato nel cuore di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa» (Vita prima, op. cit., n. 86, p. 307). Questo quadro descrive con molta precisione quanto la fede viva e l’amore di Francesco per l’umanità di Cristo hanno trasmesso alla festa cristiana del Natale: la scoperta che Dio si rivela nelle tenere membra del Bambino Gesù.

Grazie a san Francesco, il popolo cristiano ha potuto percepire che a Natale Dio è davvero diventato l’“Emmanuele”, il Dio-con-noi, dal quale non ci separa alcuna barriera e alcuna lontananza. In quel Bambino, Dio è diventato così prossimo a ciascuno di noi, così vicino, che possiamo dargli del tu e intrattenere con lui un rapporto confidenziale di profondo affetto, così come facciamo con un neonato.

In quel Bambino, infatti, si manifesta Dio-Amore: Dio viene senza armi, senza la forza, perché non intende conquistare, per così dire, dall’esterno, ma intende piuttosto essere accolto dall’uomo nella libertà; Dio si fa Bambino inerme per vincere la superbia, la violenza, la brama di possesso dell’uomo. In Gesù Dio ha assunto questa condizione povera e disarmante per vincerci con l’amore e condurci alla nostra vera identità.

Non dobbiamo dimenticare che il titolo più grande di Gesù Cristo è proprio quello di “Figlio”, Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine, che prolunga il riferimento all’umile condizione della mangiatoia di Betlemme, pur corrispondendo in maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del “Figlio”.
La sua condizione di Bambino ci indica, inoltre, come possiamo incontrare Dio e godere della Sua presenza. E’ alla luce del Natale che possiamo comprendere le parole di Gesù: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Chi non ha capito il mistero del Natale, non ha capito l’elemento decisivo dell’esistenza cristiana. Chi non accoglie Gesù con cuore di bambino, non può entrare nel regno dei cieli: questo è quanto Francesco ha voluto ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutti tempi, fino ad oggi. Preghiamo il Padre perché conceda al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, proprio come fece Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano – riferendosi all’esperienza dei pastori nella Notte Santa (cfr Lc 2,20) – racconta a proposito di quanti furono presenti all’evento di Greccio: “ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia” (Vita prima, op. cit., n. 86, p. 479).

E’ questo l’augurio che formulo con affetto a tutti voi, alle vostre famiglie e a quanti vi sono cari. Buon Natale a voi tutti!

© Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
30/12/2009 11:54

 



L’UDIENZA GENERALE, 30.12.2009

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Pietro Lombardo

Cari fratelli e sorelle,

questa mattina desidero parlarvi di Pietro Lombardo: un teologo vissuto nel XII secolo, che ha goduto di grande notorietà, perché una sua opera, intitolata Sentenze, fu adottata come manuale di teologia per molti secoli.

Chi era dunque Pietro Lombardo? Anche se le notizie sulla vita sono scarse, possiamo ricostruire almeno le linee essenziali della sua biografia. Nacque tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo, nei pressi di Novara, nel Nord dell’Italia, in un territorio un tempo appartenente ai Longobardi: proprio per questo gli fu applicato l’appellativo “Lombardo”. Egli apparteneva a una famiglia di modeste condizioni, come possiamo dedurre dalla lettera di presentazione che Bernardo di Chiaravalle scrisse a Gilduino, superiore dell’abbazia di San Vittore a Parigi, per chiedergli di ospitare gratuitamente Pietro, che voleva recarsi in quella città per motivi di studio. In effetti, anche nel Medioevo non solo i nobili o i ricchi potevano studiare e acquisire ruoli importanti nella vita ecclesiale e sociale, ma anche persone di origini umili, come ad esempio Gregorio VII, il Papa che tenne testa all’Imperatore Enrico IV, o Maurizio di Sully, l’Arcivescovo di Parigi che fece costruire Notre-Dame e che era figlio di un povero contadino.

Pietro Lombardo iniziò i suoi studi a Bologna, poi si recò a Reims, e infine a Parigi. Dal 1140 insegnò nella prestigiosa scuola di Notre-Dame. Stimato e apprezzato come teologo, otto anni dopo fu incaricato dal Papa Eugenio III di esaminare le dottrine di Gilberto Porretano, che suscitavano molte discussioni, perché ritenute non del tutto ortodosse. Divenuto sacerdote, fu nominato Vescovo di Parigi nel 1159, un anno prima della sua morte, avvenuta nel 1160.

Come tutti i maestri di teologia del suo tempo, anche Pietro scrisse discorsi e testi di commento alla Sacra Scrittura. Il suo capolavoro però è costituito dai quattro libri delle Sentenze. Si tratta di un testo nato e finalizzato all’insegnamento.

Secondo il metodo teologico in uso a quei tempi, occorreva anzitutto conoscere, studiare e commentare il pensiero dei Padri della Chiesa e di altri scrittori ritenuti autorevoli. Pietro raccolse perciò una documentazione molto vasta, costituita principalmente dall’insegnamento dei grandi Padri latini, soprattutto di sant’Agostino, e aperta al contributo di teologi a lui contemporanei. Fra l’altro, egli utilizzò anche un’opera enciclopedica di teologia greca, da poco tempo conosciuta in Occidente: La fede ortodossa, composta da san Giovanni Damasceno. Il grande merito di Pietro Lombardo è di aver ordinato tutto il materiale, che aveva raccolto e selezionato con cura, in un quadro sistematico ed armonioso. Infatti, una delle caratteristiche della teologia è organizzare in modo unitario e ordinato il patrimonio della fede. Egli distribuì pertanto le sentenze, cioè le fonti patristiche sui vari argomenti, in quattro libri. Nel primo libro si tratta di Dio e del mistero trinitario; nel secondo, dell’opera della creazione, del peccato e della Grazia; nel terzo, del Mistero dell’Incarnazione e dell’opera della Redenzione, con un’ampia esposizione sulle virtù. Il quarto libro è dedicato ai sacramenti e alle realtà ultime, quelle della vita eterna, o Novissimi.

La visione d’insieme che se ne ricava include quasi tutte le verità della fede cattolica. Questo sguardo sintetico e la presentazione chiara, ordinata, schematica e sempre coerente, spiegano il successo straordinario delle Sentenze di Pietro Lombardo.

Esse consentivano un apprendimento sicuro da parte degli studenti, e un ampio spazio di approfondimento per i maestri, gli insegnanti che se ne servivano. Un teologo francescano, Alessandro di Hales, vissuto una generazione dopo quella di Pietro, introdusse nelle Sentenze una suddivisione, che ne rese più facile la consultazione e lo studio. Anche i più grandi teologi del tredicesimo secolo, Alberto Magno, Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino, iniziarono la loro attività accademica commentando i quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo, arricchendole con le loro riflessioni. Il testo del Lombardo fu il libro in uso in tutte le scuole di teologia, fino al secolo XVI.

Desidero sottolineare come la presentazione organica della fede sia un’esigenza irrinunciabile. Infatti, le singole verità della fede si illuminano a vicenda e, in una loro visione totale e unitaria, appare l’armonia del piano di salvezza di Dio e la centralità del Mistero di Cristo. Sull’esempio di Pietro Lombardo, invito tutti i teologi e i sacerdoti a tenere sempre presente l’intera visione della dottrina cristiana contro gli odierni rischi di frammentazione e di svalutazione di singole verità.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, come pure il Compendio del medesimo Catechismo, ci offrono proprio questo quadro completo della Rivelazione cristiana, da accogliere con fede e con gratitudine. Vorrei incoraggiare perciò i singoli fedeli e le comunità cristiane ad approfittare di questi strumenti per conoscere e approfondire i contenuti della nostra fede. Essa ci apparirà così una meravigliosa sinfonia, che ci parla di Dio e del suo amore e che sollecita la nostra ferma adesione e la nostra operosa risposta.

Per avere un’idea dell’interesse che ancor oggi può suscitare la lettura delle Sentenze di Pietro Lombardo, propongo due esempi.

Ispirandosi al commento di sant’Agostino al libro della Genesi, Pietro si domanda il motivo per cui la creazione della donna avvenne dalla costola di Adamo e non dalla sua testa o dai suoi piedi. E spiega: “Veniva formata non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna” (Sentenze 3, 18, 3).

Poi, sempre sulla base dell’insegnamento patristico, aggiunge: “In questa azione è rappresentato il mistero di Cristo e della Chiesa. Come infatti la donna è stata formata dalla costola di Adamo mentre questi dormiva, così la Chiesa è nata dai sacramenti che iniziarono a scorrere dal costato di Cristo che dormiva sulla Croce, cioè dal sangue e dall’acqua, con cui siamo redenti dalla pena e purificati dalla colpa” (Sentenze 3, 18, 4). Sono riflessioni profonde e valide ancora oggi quando la teologia e la spiritualità del matrimonio cristiano hanno approfondito molto l’analogia con la relazione sponsale tra Cristo e la sua Chiesa.

In un altro passaggio della sua opera principale, Pietro Lombardo, trattando dei meriti di Cristo, si domanda: “Per quale ragione, allora, [Cristo] volle patire e morire, se le sue virtù erano già sufficienti ad ottenergli tutti i meriti?”. La sua risposta è incisiva ed efficace: “Per te, non per se stesso!”. Poi continua con un’altra domanda e un’altra risposta, che sembrano riprodurre le discussioni che si tenevano durante le lezioni dei maestri di teologia del Medioevo: “E in che senso egli soffrì e morì per me? Affinché la sua passione e la sua morte fossero per te esempio e causa. Esempio di virtù e di umiltà, causa di gloria e di libertà; esempio dato da Dio obbediente fino alla morte; causa della tua liberazione e della tua beatitudine” (Sentenze 3, 18, 5).

Tra i contributi più importanti offerti da Pietro Lombardo alla storia della teologia, vorrei ricordare la sua trattazione sui sacramenti, dei quali dà una definizione: “E’ detto sacramento in senso proprio ciò che è segno della grazia di Dio e forma visibile della grazia invisibile, in modo tale da portarne l’immagine ed esserne causa” (4, 1, 4). Con questa definizione Pietro Lombardo coglie l’essenza dei sacramenti: essi sono causa della grazia, hanno la capacità di comunicare realmente la vita divina. I teologi successivi non abbandoneranno più questa visione e utilizzeranno anche la distinzione tra elemento materiale ed elemento formale, introdotta dal “Maestro delle Sentenze”, come venne chiamato Pietro Lombardo. L’elemento materiale è la realtà sensibile e visibile, quello formale sono le parole pronunciate dal ministro.

Entrambi sono essenziali per una celebrazione completa e valida dei sacramenti: la materia, la realtà con la quale il Signore ci tocca visibilmente, e la parola chà dà il senso e il significato spirituale. Nel Battesimo, ad esempio, l’elemento materiale è l’acqua che si versa sul capo del bambino e l’elemento formale sono le parole “Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Il Lombardo, inoltre, chiarì che solo i sacramenti trasmettono oggettivamente la grazia divina e che sono sette: il Battesimo, la Confermazione, l’Eucaristia, la Penitenza, l’Unzione degli Infermi, l’Ordine e il Matrimonio (cfr Sentenze 4, 2, 1).

Cari fratelli e sorelle, è importante riconoscere quanto sia preziosa e indispensabile per ogni cristiano la vita sacramentale nella quale il Signore, tramite questa materia nella comunità della Chiesa, ci tocca e ci trasforma.

Come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica, i sacramenti sono “forze che escono dal Corpo di Cristo, sempre vivo e vivificante, azioni dello Spirito Santo” (n. 1116). In quest’Anno Sacerdotale, esorto i sacerdoti, soprattutto i ministri in cura d’anime, ad avere loro stessi, per primi, un’intensa vita sacramentale per essere di aiuto ai fedeli. La celebrazione dei sacramenti sia improntata a dignità e decoro, favorisca il raccoglimento personale e la partecipazione comunitaria, il senso della presenza di Dio e l’ardore missionario.

I sacramenti sono il grande tesoro della Chiesa e a ciascuno di noi spetta il compito di celebrarli con frutto spirituale. In essi, un evento sempre sorprendente tocca la nostra vita: Cristo, attraverso i segni visibili, ci viene incontro, ci purifica, ci trasforma e ci rende partecipi della sua divina amicizia. Cari amici, siamo arrivati alla fine di questo anno e alle porte dell’anno nuovo.

Vi auguro che l’amicizia del nostro Signore Gesù Cristo vi accompagni ogni giorno di questo nuovo anno che comincia, che questa amicizia di Cristo sia luce e guida per noi e ci aiuti ad essere uomini della sua pace. Buon anno a voi tutti!

© Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
31/12/2009 06:13

L'ultima udienza generale del 2009


Con la quarantaquattresima udienza generale del 2009, mercoledì mattina 30 dicembre, nell'Aula Paolo VI, si è concluso il ciclo di quest'anno. La catechesi è stata dedicata a Pietro Lombardo, uno dei grandi autori spirituali di cui Benedetto XVI si è occupato negli incontri settimanali con i fedeli di tutto il mondo. Il Papa, infatti, ha approfondito la vita e il pensiero di teologi e maestri spirituali latini e orientali, che con le loro opere hanno contributo a riflettere sul mistero di Cristo e della Chiesa, come Cirillo e Metodio, Pier Damiani, Anselmo d'Aosta, Pietro il Venerabile e Bernardo di Chiaravalle. Le prime catechesi del 2009, invece, erano state riservate all'Apostolo delle Genti, in occasione dell'Anno paolino. Altre hanno avuto come tema l'Anno sacerdotale:  in particolare è stato approfondito il rapporto dei preti con la Parola di Dio e i sacramenti. Quindi il Papa ha offerto all'attenzione dei fedeli la testimonianza di san Giovanni Maria Vianney. Alcune catechesi, infine, hanno sottolineato i momenti salienti e ripercorso l'itinerario dei viaggi apostolici compiuti dal Pontefice in Africa, in Terra Santa e nella Repubblica Ceca. Non sono mancati i riferimenti al ciclo liturgico, con le riflessioni sul Natale e sul triduo pasquale.
Nel clima del tempo natalizio l'ultima udienza dell'anno è stata allietata dai canti degli Sternsinger, giunti dalla città tedesca di Neuss. Tra i presenti anche Antonio Corbosiero, che va in pensione dopo 45 anni di lavoro nella Tipografia Vaticana e al servizio fotografico del nostro giornale.


(©L'Osservatore Romano - 31 dicembre 2009)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 21:12. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com