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Il restauro della Cappella Paolina lascia aperti ancora molti interrogativi

Ultimo Aggiornamento: 01/07/2009 06:59
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01/07/2009 06:57

Il restauro della Cappella Paolina lascia aperti ancora molti interrogativi

Un capolavoro annerito da migliaia di candele


Il 30 giugno alle 11.30 sono stati presentati nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano i restauri della Cappella Paolina, in vista dell'inaugurazione presieduta dal Papa il 4 luglio prossimo. Sono intervenuti il cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, Pier Carlo Cuscianna, direttore dei Servizi Tecnici del Governatorato e il delegato del direttore dei Musei Vaticani per i Dipartimenti scientifici e i laboratori, del quale pubblichiamo una ricostruzione complessiva dell'opera di restauro.

(Dopo la scoperta dell'icona di san Paolo 
È la più antica icona di san Paolo e dopo la sorprendente scoperta della tomba dell'apostolo Paolo Benedetto XVI conferma solennemente: I RESTI NELLA TOMBA SONO VERAMENTE DI SAN PAOLO, sembra non manchino ancora delle sorprendenti novità! ndr)

di Arnold Nesselrath

La Cappella Paolina non è soltanto topograficamente collegata con la Cappella Sistina attraverso la Sala Regia, ma come cappella parva del Palazzo Apostolico Vaticano, sta anche in uno stretto rapporto liturgico con la cappella magna, ridecorata da Sisto iv. Non essendoci nella Sistina un tabernacolo, la Paolina ospita tutte le funzioni di una Cappella del Santissimo Sacramento. Si celebravano qui le Quarantore, per le quali si montava generalmente una grande macchina su cui bruciavano centinaia di candele e torce; in mezzo a queste veniva esposto l'ostensorio con l'Ostia che risplendeva per le luci attorno. Il Giovedì e il Venerdì Santo veniva installato qui tradizionalmente il Santo Sepolcro.



La nuova cappella parva, costruita tra il 1537 e 1539 da Paolo iii (1534-1549) e dedicata al suo patrono, l'Apostolo delle genti, aveva anche un'altra funzione specifica. Era destinata a servire durante il conclave come luogo dove si raccoglievano i voti, una tradizione interrotta definitivamente solo nel 1670.
La commissione data a Michelangelo di raccontare sulle pareti laterali in due grandi affreschi storie dei principi degli apostoli, la conversione di Saulo e la crocifissione di san Pietro, aveva quindi in questo luogo un significato programmatico.

Michelangelo mette in scena con la massima tensione il momento di capovolgimento nella vita di Saulo/Paolo sulla via di Damasco:  su un raggio di luce, che brilla di nuovo dopo il restauro attraverso tutto l'affresco, Cristo precipita capovolto dall'angolo estremo in alto a sinistra e si lancia verso il persecutore della sua gente schiacciandolo all'estremo bordo inferiore dell'intera composizione. Michelangelo impiega la metafora del raggio per dare alla  rivelazione  un'espressione  visiva. Il vuoto profondo, che si sarebbe creato al centro della scena, è stato riempito  dal  Buonarroti  con  il  cavallo nero  sul  quale  viaggiava  il  protagonista ora caduto per terra e accecato. L'animale, imbizzarrito per le voci e le luci dal cielo fugge al galoppo come un demone appena esorcizzato verso il paesaggio del fondo lontano, che si è riaperto con la recente pulitura. Il giovane scudiero non riesce più a domarlo e viene trascinato dalla forza del cavallo.

Cristo in alto è accompagnato da una folla di angeli nudi, imparentati chiaramente con quelli nella visione della risurrezione alla fine dei tempi che Michelangelo aveva dipinto sopra l'altare della Sistina. L'artista potrebbe aver utilizzato qui modelli che aveva originariamente preparato per la Caduta degli angeli ribelli, l'affresco destinato alla controfacciata della Sistina. Questa era allora in rovina a causa del grave incidente del fatidico Natale del 1522, ma Paolo iii non aveva più fatto eseguire la sostituzione concordata da Michelangelo con il precedente Pontefice, Clemente VII, con grande disappunto dell'artista.

Che Cristo sia circondato dalla gloria degli angeli è un elemento insolito per l'iconografia della conversione di Saulo; il dialogo si svolge normalmente in modo diretto solo tra i due protagonisti. Nel momento in cui Michelangelo rappresenta la visione di Saulo come cielo intero, allude al martirio di santo Stefano che vedeva il cielo aperto mentre Saulo presiedeva alla sua esecuzione e la Bibbia lo stigmatizza come persecutore dei cristiani.

Diverse scelte iconografiche fuori dagli schemi abituali evidenziano l'intensa discussione tra la committenza e l'artista, altre aspettano ancora spiegazioni soddisfacenti:  perché Michelangelo ha rappresentato Paolo da vecchio? Perché non segue la tipologia plotiniana con la sua fisionomia sviluppata in epoca tardo antica? Perché decide di vestire le gambe, che aveva inizialmente cominciato a dipingere nude?

Insolito è anche l'abbinamento degli episodi scelti della vita dei santi Pietro e Paolo, perché la conversione di Saulo avrebbe richiesto la consegna delle chiavi a Pietro, mentre alla crocifissione di san Pietro doveva corrispondere la decollazione di san Paolo. Chi ha scelto l'attuale soluzione ha voluto incrociare i confronti tradizionali, portando ancora più vicino i principi degli apostoli. Proprio nella loro unione viene espresso il passaggio dalla conversione al martirio. Inoltre viene evidenziato che la conversione non garantisce ancora di vedere, ma che solo il martirio porta alla visione.

Lo sguardo di san Pietro è forte e deciso. Lui è l'unico degli oltre cento personaggi presenti in questi due dipinti che guarda fuori dall'affresco e prende un contatto, per così dire diretto, con il visitatore, salvo forse due delle donne dolenti in primo piano.
Il pittore però le ha collocate come mezze figure apparentemente più in basso, come davanti all'affresco:  si troverebbero cioè nella nostra realtà.

Lo sguardo di Pietro è diretto a tutti quelli che entrano in questa cappella, primo di tutti naturalmente al suo successore, una volta persino eletto sotto questo sguardo. Ma è ugualmente diretto ai cardinali che hanno eletto il Papa, così come ai cardinali che non sono stati eletti.
Infine Pietro guarda ogni singolo visitatore, che stabilirà un proprio dialogo e diventerà partecipe degli eventi negli affreschi. Sembra che Michelangelo abbia sentito la necessità di enfatizzare questo rapporto, perché ha modificato la croce e la posizione del primo  Papa nel corso dell'esecuzione della pittura. Ne testimoniano i pentimenti nell'intonaco le cancellazioni e i cambi nelle stesure del colore.

Rimane enigmatica anche la questione dei chiodi con i quali san Pietro è ora fissato sulla croce, che non sono autografi di Michelangelo:  l'artista li aveva omessi per un motivo ben preciso o no? Mancano comunque nelle prime incisioni che riproducono l'affresco, e nel 1564 era nata un'accesa polemica sull'argomento, documentata nel testo del critico d'arte Andrea Gilio. Sembra che già nel Cinquecento qualcuno abbia voluto intervenire come correttore di questo elemento significativo, perché compaiono nelle incisioni di fine secolo.

Michelangelo ha voluto collocare le due scene in un paesaggio ideale, quasi astratto, e non in una topografia precisa. Non segue nessuna delle due tradizioni medioevali. Una presume la crocifissione di san Pietro nel circo di Nerone, cioè in Vaticano. L'altra interpreta il brano inter duas metas come a mezza strada tra la meta Remi, la piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e la meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo, quindi sul Gianicolo. Il pittore si affida soltanto alle sue figure e le colloca nello spazio; o meglio, crea lo spazio collocando le figure, variando le grandezze e le proporzioni, aumentando l'incisione del contorno o la sfumatura dei tratti della fisionomia. Questa è stata la grande rivelazione alle fine dei restauri, quando le figure dipinte che si incontravano tutti i giorni faccia a faccia sui ponteggi avevano preso le loro giuste posizioni nello spazio come su un palco, ed erano entrate nei loro ruoli nella scena da rappresentare.


 
Soltanto nella Conversione di Paolo Michelangelo sembra aver concesso, forse al consigliere pontificio che seguiva i lavori per il Papa, un elemento iconografico determinante, che però non toglie niente al paesaggio vuoto, quasi astratto, senza piante, case o scenette episodiche che rendono tutto più ameno e distraggono dall'impatto con quello che accade.

In fondo a destra il Buonarroti ha dipinto una piccola veduta della città di Damasco, eseguita non in affresco, ma a secco, sovrapponendola alle colline in fondo. L'originale sottile di Michelangelo era coperto da una ridipintura di una veduta orientalistica simile ai presepi napoletani. Ispirato alla pittura antica, oggi diremmo pompeiana, il Buonarroti aveva fatto intuire con sublimi pennellate di bianco di san Giovanni in una atmosfera sfumata la meta del viaggio di Saulo. Lo stile dell'architettura con le cupole, le torrette e l'edicola della porta di città allude alle grandi opere che Michelangelo alla sua età avanzata stava ancora per creare. Già durante i lavori nella Cappella Paolina finiva la tomba di Papa Giulio ii iniziato nel lontano 1505, diventava nel 1546 architetto della fabbrica della Basilica di San Pietro e cominciava il grande progetto urbanistico della Piazza del Campidoglio. Quindi il fatto che lavori quattro anni a una parete - in totale otto per le due scene - che Botticelli in Sistina o Raffaello nelle Stanze eseguirono in una media di tre mesi, ha anche un motivo in tutti questi impegni.

Il restauro appena concluso ha sin dall'inizio cercato di restituire Michelangelo nel suo insieme e di presentare la Cappella del santissimo Sacramento del Palazzo Apostolico come grande unità artistica e estetica. Michelangelo non era il protagonista, ma è stato la misura per i pittori Lorenzo Sabbatini, Federico Zuccari e i loro stuccatori, che furono chiamati da Papa Gregorio xiii e hanno cambiato completamente l'aspetto dell'ambiente, così come per gli stuccatori che hanno abbellito con decori raffinatissimi il nuovo presbiterio aggiunto  alla  navata  sotto  Paolo  v. Lo stesso vale anche per l'attuale restauro, che ha recuperato proprio la solennità della decorazione del tardo Cinquecento.

Il confronto con la storia del monumento guida sempre tutti i restauri dei Musei Vaticani e permette di avvicinarsi al suo significato e alla sua estetica. Per quanto si cerchi di orientarsi a un momento preciso nella storia, le vicende del tempo rimangono visibili e continueranno a esserlo in futuro. La Cappella Paolina rimane, anche dopo l'intervento presente, una storia dei Papi con diverse aggiunte posteriori:  cosa manifesta tra l'altro nella controfacciata, nell'arredamento liturgico e in numerosi dettagli.
Nonostante tutto, è la migliore interpretazione che tutti quelli che hanno contribuito all'attuale restauro hanno potuto offrire.

Con l'interesse e l'intervento che il Santo Padre ha voluto dare con le sue due visite al cantiere, vale qui di nuovo  la  formula  usata  al  tempo  di Giulio ii:  il lavoro è stato eseguito ad praescriptum Benedicti.



(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)
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Gli affreschi visti da vicino

Quando Michelangelo corregge Michelangelo


di Maurizio De Luca

Il restauro della Cappella Paolina ha rappresentato uno degli interventi più articolati e impegnativi eseguiti dal Laboratorio restauro dipinti dei Musei Vaticani, non tanto per l'estensione delle sue superfici, quanto per la complessità dei problemi tecnici affrontati e per le scelte messe in atto nella restituzione estetica finale. Lo scenario che si presentava all'inizio dei lavori era quello di un ambiente che aveva perso la sua connotazione materica costituita dall'alternanza tra i due principali protagonisti della decorazione:  il metallo dell'oro e il bianco dello stucco romano.

Purtroppo la loro collocazione in altezza non permette di apprezzare a pieno ciò che i restauratori hanno visto e toccato; un numero incredibile di invenzioni e di raffinati decori consegnati a una nuova visione attraverso un  paziente e lungo lavoro di ripulitura.
Un'idea di ciò che è stato recuperato sulle volte è fornita dall'agevole visione delle quattro coppie di angeli tedofori agli angoli della Cappella.

Poco considerati in passato, sono invece risultati di splendida fattura e con vesti finemente decorate in oro zecchino, con disegni personalizzati per ciascuna figura; otto angeli che appaiono a portare la luce varcando soglie angolari che si aprono sull'azzurro del cielo, attraverso cui si avverte il flusso dell'aria che ne muove le vesti.



Nel corso dell'intervento sulle volte sono emerse numerose ricostruzioni e integrazioni di intere sezioni decorative realizzate con materiali diversi - che si è scelto comunque di mantenere - limitandosi esclusivamente ad adattarle all'aspetto dello stucco romano recuperato per il resto delle superfici. All'interno delle sontuose cornici in stucco dorato prendevano nuova vita anche gli affreschi delle volte e delle pareti, opera di Zuccari e Sabbatini, che hanno fornito la possibilità di accogliere in un giusto ambiente gli effetti del restauro degli ultimi affreschi di Michelangelo. Dai primi test di pulitura e dagli studi preliminari compiuti nel 2003 già emergevano due distinte situazioni conservative. Per la scena di Saulo, le cause del degrado erano principalmente ascrivibili alla posizione della parete che, sino alla costruzione della facciata della Basilica di San Pietro a opera del Maderno, comunicava con l'esterno:  più di mezzo secolo di esposizione alle intemperie che hanno innescato la formazione di sali e la caduta di pellicola. Per il secondo affresco le cause erano principalmente imputabili alla trascuratezza e alla scarsa sensibilità dell'uomo - numerosi fori di chiodi, gocce di materiali cerosi e graffi - e a incaute pseudo-manutenzioni operate nel corso dei secoli.

L'ultimo restauro risale agli anni Trenta del Novecento e fu compiuto dal personale del Laboratorio di restauro dipinti dei Musei Vaticani appena istituito. Puntualmente notificato e documentato, l'intervento fu corredato anche da una delle prime indagini scientifiche della storia del restauro e si rivolse soprattutto alla capillare campagna di riadesione degli intonaci - a tutt'oggi risultata ancora valida - cui seguì una cauta pulitura utilizzando la cosiddetta pasta verde, un impasto di acqua, farina e sali di rame, l'evoluzione della famosa mollica di pane dei mundatores cinquecenteschi della Sistina. Gli affreschi furono anche ravvivati con del fiele di bue, una sostanza organica che l'azione del tempo ha scurito facendoci pervenire una tavolozza michelangiolesca dall'improponibile gamma cromatica. Le restituzioni grafiche degli anni Trenta relative al conteggio delle giornate (le porzioni d'intonaco umido sul quale il pittore dipinge nell'arco di alcune ore) ne segnalavano ottantacinque per la scena della conversione e ottantasette per quella della crocefissione. Su quest'ultimo affresco lo studio compiuto nel corso dell'attuale restauro ha portato a individuarne altre, sfuggite alla precedente indagine; la più evidente riguarda il cielo, che, segnalato come dipinto in un'unica soluzione, è risultato invece realizzato su due grandi stesure d'intonaco. Secondo la prassi pittorica in uso fino al XVII secolo era buona norma far coincidere quanto più possibile le cesure di fine giornata con il contorno dei soggetti da rappresentare.

Sorprende invece che un artista cimentatosi con la vastità di ben altre estensioni d'intonaco, nel caso degli affreschi paolini - dalla superficie relativamente ridotta - frazioni alcune zone dell'impianto compositivo con stesure d'intonaco dai contorni approssimativi e oggettivamente fuori contesto. Si può comprendere il perché Michelangelo non abbia "personalizzato" l'andamento di alcuni soggetti solo in considerazione del fatto che si sarebbe riservato di armonizzare il tutto a opera compiuta. La conferma è giunta nel corso del restauro con il recupero di pigmenti applicati a secco in prossimità dei confini tra le giornate e sulle vaste campiture del cielo e dei terreni. La pulitura ha fatto quindi conoscere un Michelangelo che si avvale di una tecnica di pittura murale molto vicina a quella dei suoi maestri quattrocenteschi. Infatti, oltre a dipingere su intonaco umido, quindi "a fresco", l'artista campisce le sue giornate di lavoro anche con la tecnica del "mezzo fresco", applicando cioè i colori mescolati alla calce su un intonaco parzialmente asciutto, per terminare, come sopra accennato, con l'armonizzazione sulla malta ormai completamente secca. Su alcune aree delle due scene, e in special modo su quella di san Pietro, sono stati individuati anche dei sottofondi di colore omogeneo sui quali il pittore dipinge contestualmente i soggetti da rappresentare:  è questo il "fare" quotidiano dell'anziano artista toscano nel praticare gli impalcati della Cappella per otto lunghi anni.

Michelangelo corregge se stesso, sia con limitate modifiche, sia con veri e propri mutamenti d'intenzione. Il più rilevante riguarda la scena della crocefissione, sulla quale decide di correggere l'impostazione prospettica della croce ruotandone il braccio orizzontale di qualche grado verso l'alto sul quale esegue una nuova mano sinistra dell'apostolo del quale modifica anche il capo facendogli assumere l'attuale postura quasi frontale.

Ma mentre Michelangelo si limita a ricoprire la prima redazione della croce e della mano sinistra, per realizzare la nuova testa del santo il pittore gratta letteralmente via il colore di quanto già dipinto, del quale si sono ritrovati ancora i lacerti che hanno permesso di stabilire come l'originaria posizione del capo fosse quasi completamente riversa all'ingiù. Osservando un disegno e alcune copie a stampa di artisti tardo cinquecenteschi, si è potuto anche comprendere come Michelangelo non avesse previsto alcun panneggio censorio e soprattutto nessun chiodo infisso nel corpo di san Pietro; infatti, i colori con i quali furono realizzate le suddette aggiunte, sono risultati applicati su una superficie pittorica originale già sporca e lacunosa. L'assenza dei chiodi potrebbe così ricondurre al momento immediatamente prima del martirio, quando cioè l'apostolo esprime la volontà di non essere crocefisso come Nostro Signore e la sua richiesta viene appunto sottolineata dal gesto di uno dei carnefici che punta il dito verso il basso. Tra le altre numerose informazioni che hanno reso l'attuale intervento denso di spunti per nuovi argomenti di studio, non si può non sottolineare la ricostituita possibilità di apprezzare a pieno tutto il luminoso impianto della Conversione.

Aldilà della salvaguardia delle opere d'arte, il restauro rappresenta un momento di conoscenza della materia pittorica che favorisce una sorta di intima complicità tra il restauratore e il pittore. Il distinguere lo scorrere sicuro di un pennello, dagli indugi o dai ripensamenti di momenti meno felici avvicina e riconduce a una dimensione più umana anche il più grande degli artisti. Questo contatto di quotidianità condivisa ha portato a individuare nel gruppo delle "dolenti" della Crocifissione di san Pietro la zona dove per l'ultima volta Michelangelo ha posato quel pennello che non impugnerà mai più per il resto della sua vita. E anche questo è un privilegio per il restauratore.



(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)
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