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DISCORSI ED OMELIE DEL SANTO PADRE PRECEDENTI L'ANNO SACERDOTALE

Ultimo Aggiornamento: 26/09/2009 15:44
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26/09/2009 15:23

Card. Ratzinger: "Occorre che il prete accetti di mettersi in secondo piano, lasciando spazio al Cristo che solo può rimettere il peccato"

La condizione stessa del sacerdote è singolare, estranea alla società d’oggi.
Sembra incomprensibile una funzione, un ruolo che non si basino sul consenso della maggioranza, bensì sulla rappresentanza di un Altro che partecipa a un uomo la sua autorità.
In queste condizioni è grande la tentazione di passare da quella soprannaturale “autorità di rappresentanza" che contrassegna il sacerdozio cattolico a un ben più naturale “servizio di coordinamento del consenso”, cioè a una categoria comprensibile, perché solo umana e per di più omogenea alla cultura d’oggi.

Dunque, se ho ben capito, a suo avviso si eserciterebbe sul sacerdote una pressione culturale perché passi da un ruolo “sacrale” a un ruolo “sociale”, in linea con i meccanismi “democratici”, di consenso dal basso, che contrassegnano la società “laica , democratica, pluralista”.

Qualcosa del genere- conferma - Una tentazione di sfuggire dal mistero della struttura gerarchica fondata su Cristo verso il plausibile dell’organizzazione umana.

Per chiarire meglio il suo punto di vista ricorre a un esempio che è di grande attualità, il sacramento della riconciliazione, la confessione.

Ci sono sacerdoti che tendono a trasformarla quasi solo in un “colloquio”, in una sorta d' autoanalisi terapeutica tra due persone sullo stesso livello. Ciò sembra assai più umano, più personale, più adatto all’uomo di oggi.
Ma questo modo di confessarsi rischia di avere poco a che fare con la concezione cattolica del sacramento, dove non contano tanto le prestazioni, l’abilità di chi è investito dell’ufficio.
Occorre anzi che il prete accetti di mettersi in secondo piano, lasciando spazio al Cristo che solo può rimettere il peccato. Bisogna dunque anche qui tornare al concetto autentico del sacramento, dove uomini e mistero si incontrano.
Bisogna recuperare interamente il senso dello scandalo per cui un uomo può dire a un altro uomo “Io ti assolvo dai tuoi peccati”.
In quel momento - come del resto nella celebrazione di ogni altro sacramento - il prete non trae di certo la sua autorità dal consenso degli uomini, ma direttamente da Cristo.
L’”io” che dice “ti assolvo” non è quello di una creatura, ma è direttamente l’”Io” del Signore.

Eppure, dico, non sembrano infondate tante critiche al “vecchio” modo di confessarsi.

Replica subito: Mi sento sempre più a disagio quando sento definire con leggerezza “schematica”, “esteriore”, “anonima” la maniera un tempo diffusa di avvicinarsi al confessionale.
E mi suona sempre più amaro l’autoelogio di alcuni preti per i loro “colloqui penitenziali”, divenuti rari, ma “in compenso ben più personali”, come dicono.
A ben guardare, dietro la “schematicità” di certe confessioni di un tempo c’era anche la serietà dell’incontro tra due persone consapevoli di trovarsi davanti al mistero sconvolgente del perdono di Cristo che giunge attraverso le parole e il gesto di un uomo peccatore.
Senza dimenticare che in tanti “colloqui” divenuti sin troppo analitici è umano che si insinui una sorta di compiacenza, un’autoassoluzione che- nel profluvio delle spiegazioni – può non lasciare quasi più spazio al senso del peccato personale del quale, al di là di tutte le attenuanti, siamo sempre responsabili.

Un giudizio davvero severo, osservo: non rischia forse di essere troppo drastico?

Non voglio dire che non si potrebbe avere una riforma adeguata anche della celebrazione esteriore della confessione.
La storia mostra in proposito una tale ampiezza di sviluppi che sarebbe assurdo voler canonizzare per sempre una singola forma, quella attuale.
E’ indubbio che alcuni uomini, oggi, non riescono a trovare più nessuna accesso al tradizionale confessionale, mentre la forma colloquiale di confessione apre ad essi realmente una porta. Perciò non vorrei in nessun modo sottovalutare il significato di queste nuove possibilità e la benedizione che esse possono rappresentare per molti. Del resto, il problema fondamentale non è questo. Il punto decisivo della questione si trova ad un livello più profondo e ad esso volevo richiamare.
Tornando infatti alle radici in cui gli sembra di individuare la crisi del sacerdote, mi parla della tensione di ogni momento di un uomo, come è oggi il prete, chiamato ad andare assai spesso controcorrente.
Un uomo simile può alla fine stancarsi di opporsi, con le sue parole e ancor più con il suo stile di vita, alle ovvietà dell’apparenza così ragionevole che contrassegnano la nostra cultura.
Il prete - colui, cioè, attraverso il quale passa la forza del Signore - è stato sempre tentato di abituarsi alla grandezza, di farne una routine. Oggi la grandezza del Sacro potrebbe avvertirla come un peso, desiderare (magari inconsciamente) di liberarsene, abbassando il Mistero alla sua statura umana, piuttosto che abbandonarvisi con umiltà ma con fiducia per farsi elevare a quell’altezza.

(Rapporto sulla Fede, ed. San Paolo, cap. IV, pagg. 56-58).
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