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Il Papa incontra i suoi seminaristi

Ultimo Aggiornamento: 14/02/2010 05:47
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12/02/2010 18:24

  A colloquio con il rettore del Seminario Romano Maggiore

Il Papa incontra i suoi seminaristi


di Nicola Gori

Consueta visita di Benedetto XVI al Pontificio Seminario Romano Maggiore. Il Papa si reca tra i suoi seminaristi venerdì pomeriggio 12 febbraio, e, dopo la lectio divina, si ferma a cena con loro. L'occasione, come da tradizione, è la memoria liturgica della patrona, la Madonna della Fiducia. Quest'anno però c'è una novità:  il Papa incontra tutti gli alunni dei cinque seminari della diocesi.
La visita avviene in un momento di cambiamento nell'iter formativo dei futuri sacerdoti. Due le principali innovazioni. La più importante è l'introduzione di un anno pastorale, durante il quale i seminaristi potranno compiere un'esperienza diretta in parrocchia per quattro giorni alla settimana. La seconda riguarda la composizione delle classi che ospiteranno un numero inferiore di studenti, seguiti peraltro dagli stessi educatori per alcuni anni, in modo da facilitare la reciproca conoscenza e favorire la direzione spirituale, oltreché la formazione. Il rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore, monsignor Giovanni Tani, parla di queste novità nell'intervista al nostro giornale.

La visita di Benedetto XVI al Pontificio Seminario Romano Maggiore è sempre un momento privilegiato per riscoprire l'appartenenza alla Chiesa universale. Come vivete questa esperienza?

La presenza del Papa è un privilegio, in quanto viene tra noi come vescovo di Roma nel suo seminario. La nostra comunità è composta da alunni non solo di Roma, ma anche di altre diocesi d'Italia e del mondo. Abbiamo 14 studenti non italiani; provengono dall'Argentina, da Haiti, da Paesi europei e dell'Est asiatico. Ci sono poi 44 alunni provenienti da tutta Italia, in rappresentanza di 20 diocesi. I seminaristi romani sono 28. Complessivamente la comunità conta 86 alunni. Vorrei sottolineare l'importanza del fatto che il Papa incontrerà i circa 200 alunni dei seminari della diocesi di Roma, dunque non solo quelli presenti nel nostro. Ve ne sono altri quattro:  il Pontificio Seminario romano minore, il Collegio diocesano Redemptoris Mater, l'Almo Collegio Capranica e il Seminario della Madonna del Divino Amore.

Quali novità ci sono nel progetto formativo del seminario di oggi?

È utile sottolineare due aspetti:  il primo, che dal prossimo anno gli studenti seguiranno un anno pastorale, cioè un periodo durante il quale ancora prima di aver ricevuto l'ordinazione diaconale, per quattro giorni alla settimana, dal giovedì alla domenica, presteranno servizio nelle varie parrocchie della città. Ciò servirà per fare un'esperienza di passaggio dal seminario alla parrocchia e per farsi conoscere dai parroci, i quali saranno coinvolti nel discernimento e nel far conoscere la realtà ecclesiale. La seconda novità è che anche per l'anno successivo, il settimo dell'iter formativo, quello dell'ordinazione diaconale, prevede quattro giorni di presenza nelle parrocchie. Ovviamente ciò comporta che, se si considera l'anno propedeutico obbligatorio, salgono a otto gli anni di permanenza complessiva in seminario. Al termine del settimo anno gli studenti avranno già concluso anche gli studi. E questo è un vantaggio. Un altro cambiamento importante è la suddivisione della comunità in piccoli gruppi. Le classi così ridotte verranno seguite da un educatore che sarà a contatto quotidiano con gli alunni. Una classe avrà per due anni lo stesso educatore per la filosofia e per tre anni un altro educatore per la teologia. L'intento è quello di favorire una conoscenza più approfondita degli studenti, in modo da offrire dei consigli e degli aiuti più appropriati.

Quali sono le principali difficoltà per un giovane che decide di entrare in Seminario?

Ci sono sicuramente delle difficoltà esterne, ma non le vedo come principali. Secondo me il punto focale è che quando un giovane ha ricevuto la chiamata, uno degli ostacoli è la troppa introspezione. Riscontro un'insistenza nel girare intorno al proprio sentire, che conduce al soggettivismo. Il giovane compie un'esperienza con diversi risvolti emotivi, pertanto quando l'emozione non conduce più in quel senso, si va un po' in crisi. Cosa manca? Manca una concezione di fede, una fede più solida, più basata sulla roccia. Occorre un cammino che regga agli urti della vita e che permetta di fidarsi di più della parola udita. Sarebbe importante riconoscere che più dell'ascolto di se stessi, occorre affidarsi alla Chiesa, all'aiuto del padre spirituale, cioè a chi è in grado di indicare in maniera più oggettiva il percorso da seguire.

L'Anno sacerdotale ha suscitato un risveglio vocazionale nella diocesi di Roma?

C'è stata una coincidenza tra l'Anno sacerdotale e quanto il cardinale vicario sta sollecitando già da più di un anno, cioè una riflessione diocesana sulla pastorale vocazionale. A partire da questa iniziativa, il Seminario ha promosso una serie di incontri a sfondo vocazionale per giovani. Queste conversazioni hanno due cadenze:  la prima comprende tre momenti nell'arco dell'anno, dove i giovani sono invitati a riflettere sulla vocazione e sul senso della vita. La seconda cadenza è mensile:  appuntamenti di meditazione e riflessione incentrati sulla lectio divina sul Vangelo di Giovanni, dove si narra dell'episodio del cieco nato. Vi partecipano un centinaio di giovani e in alcuni di loro si sta manifestando una chiamata vocazionale. Vorrei aggiungere che sul sito www.seminarioromano.it si possono trovare i programmi di questa attività.


(©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2010)
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13/02/2010 10:43

 




Il Papa ai futuri sacerdoti: il cristianesimo non è moralismo ma dono


Nella Lectio divina di fronte ai seminaristi della diocesi di Roma



di Mirko Testa

ROMA, venerdì, 12 febbraio 2010 (ZENIT.org).-

Il cristianesimo non consiste nel rispettare delle norme esteriori quanto nel penetrare il mistero di Dio, che si è sacrificato gratuitamente ed ha sofferto per amore, e modellare su di esso il nostro agire.

E' quanto ha detto, questo venerdì sera, Benedetto XVI incontrandosi nella Cappella del Seminario Romano Maggiore con i circa 200 alunni seminaristi della diocesi di Roma - accompagnati dai loro rettori, direttori spirituali ed educatori – e con i ragazzi dell'anno propedeutico che stano verificando la loro vocazione e la possibilità di entrare in seminario l'anno prossimo.

La tradizione vuole che in occasione della Festa della Patrona dell’istituto - la Madonna della Fiducia, che viene celebrata il 13 febbraio - il Pontefice incontri i seminaristi e si trattenga con loro a cena.

Quest’anno, per la prima volta, si sono raccolti insieme al Seminario Romano per incontrare il Papa tutti i seminaristi della diocesi di Roma, compresi quelli quindi del Pontificio Seminario Romano Minore, del Collegio diocesano “Redemptoris Mater”, dell'Almo Collegio Capranica e del Seminario della Madonna del Divino Amore.

Prima dell'incontro il Pontefice, accompagnato dal Rettore del Seminario Romano Maggiore, mons. Giovanni Tani, e dal Cardinale Vicario Agostino Vallini, si è raccolto per qualche istante in preghiera.

A fare gli onori di casa è stato mons. Tani che in un breve indirizzo di saluto ha ricordato che “da anni, precisamente dal 1993, in occasione del Sinodo Romano è il Papa che ordina insieme tutti i presbiteri della sua diocesi. In questi ultimi anni si sono aggiunti altri momenti comunitari vissuti da tuti i seminaristi di Roma”.

“Di particolare importanza è la settimana di settembre durante la quale i seminaristi dei 4 seminari maggiori vivono insieme – ha continuato –. Innanzitutto, per conoscersi e poi per riflettere e confrontarsi su temi di formazione al presbiterato e su aspetti della vita della diocesi di Roma”.

“Viviamo con gioia e trepidazione questo momento, Santità, durante il quale lei come primo nostro formatore ci aiuterà ad ascoltare la Parola del Signore e a camminare nella sua volontà”, ha poi terminato.



Dio, radice della sua vigna


Subito dopo il Papa ha tenuto la lectio divina incentrata sulla parabola della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), che ben si colloca nell'Anno sacerdotale in corso, perché “parla indirettamente ma profondamente del sacramento, della chiamata, dello stare nella vigna del Signore e di essere servitore del suo mistero”.

La vite – ha spiegato il Pontefice – è una immagine veterotestamentaria che serve a indicare il Popolo di Dio: “Dio ha piantato una vite in questo mondo. Dio ha coltivato questa vite, la sua vigna, protetto questa sua vigna”.

Allo stesso tempo, ha continuato, “questa immagine della vite, della vigna ha un significato sponsale ed è espressione del fatto che Dio cerca l'amore della sua creatura, che vuole entrare in una relazione di amore, in una relazione sponsale con il mondo tramite il Popolo da lui eletto”.

Tuttavia, ha commentato il Santo Padre, “la storia concreta è una storia di infedeltà” che invece di “uva preziosa” ha generato “solo piccole cose immangiabili”.

Infatti, “questa unità, questa unione senza condizione tra uomo e Dio” non si è tramutata “nella comunione dell'amore”. Al contrario, “l'uomo si ritira in se stesso, vuole avere se stesso, vuole avere Dio per sé, vuole avere il mondo per sé. E così la vigna viene devastata” e “diventa un deserto”.

Ma “Dio – ha continuato il Santo Padre – si fa uomo e diventa egli stesso così radice della vite” e “così la vite è indistruttibile poiché Dio stesso si è impiantato in questa terra”.

Ecco dunque che “il cristianesimo non è un moralismo. Non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo”, perché in realtà “dobbiamo, innanzitutto, entrare in questo mistero ontologico in cui Dio si dà”.

Dobbiamo “stare in Lui”, identificarci con Lui, essere “nobilitati nel suo sangue” per “agire con Cristo”, perché - ha spiegato il Papa - “l'etica è conseguenza dell'essere” e “l'essere precede l'agire”. “Non è più una obbedienza, una cosa esteriore ma è realizzazione del dono del nuovo essere”.



Vivere nella creatività dell'amore di Cristo


Successivamente il Papa ha ricordato l'invito rivolto da Gesù agli apostoli nel contesto dell'Ultima Cena: “amatevi come io vi ho amati”, commentando che quella qui espressa è “una radicalizzazione dell'amore del prossimo a imitazione del Cristo”.

“Ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto il Signore. Il Signore ci ha dato se stesso”, ci “ha dato la vera novità di essere membri nel suo Corpo”.

E quindi, “la nuova Legge non è un altro mandato più difficile degli altri. La nuova Legge è un dono”, è “la presenza dello Spirito Santo datoci nel sacramento del Battesimo, nella Cresima e datoci ogni giorno nella Santissima Eucaristia”.

“La novità quindi è che Dio si è fatto conoscere – ha aggiunto –, che Dio si è mostrato, che Dio non è più il Dio ignoto, cercato ma non trovato o solo indovinato da lontano”. “Dio si è fatto vedere nel volto di Cristo”, “si è mostrato nella sua totale realtà, ha mostrato che è ragione e amore” e così ci ha resi suoi amici.

“Purtroppo ancora oggi – ha osservato il Pontefice – molti vivono lontani da Cristo, non conoscono il suo volto e così l'eterna tentazione del dualismo si rinnova sempre e forse non c'è solo un principio buono ma anche un principio del male”, così che a dominare è la visione di un mondo in balia di “due realtà ugualmente forti”.

“Anche nella teologia cattolica – ha poi lamentato – si diffonde adesso questa tesi che Dio non sarebbe onnipotente”. Si tenta cioè una sorta di “apologia di Dio”, secondo cui Dio “non sarebbe responsabile per il male che troviamo ampiamente nel mondo”.

“Ma che povera apologia: un Dio non onnipotente”. “E come potremmo affidarci a questo Dio, come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male?”, si è domandato.

“Ma Dio non è più sconosciuto: nel volto del Cristo crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell'onnipotenza”, quel mito alimentato dagli uomini che concepiscono la potenza come “capacità di distruggere, di far male”.

Al contrario, ha spiegato il Papa, “la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire” per noi.

Ecco dunque che la stessa vera giustizia si rivela non più come una “obbedienza ad alcune norme” ma come “l'amore creativo che trova di per sé la ricchezza e l'abbondanza del bene”; come il “vivere nella creatività dell'amore con Cristo e in Cristo”, di un amore impregnato di “dinamismo”.



Pregare come processo di purificazione


Il Papa è quindi passato a parlare del valore della preghiera e dell'importanza di invocare da Dio “il dono divino”, “la grande realtà”, “perché ci dia il suo Spirito così che possiamo rispondere alle esigenze della vita e aiutare gli altri nelle loro sofferenze”.

“E' giusto pregare Dio anche per le cose piccole della nostra vita di ogni giorno – ha precisato il Pontefice – ma allo stesso tempo il pregare è un cammino, direi una scala: dobbiamo sempre più imparare le cose che possiamo pregare e le cose che non vanno pregate perché sono espressione del mio egoismo” o della “mia superbia”.

In questo modo, pregare “diventa un processo di purificazione dei nostri pensieri, dei nostri desideri”.

“Rimanere in Cristo è un processo di lenta purificazione, di liberazione da me stesso”, un “cammino vero” che si apre alla gioia e che è caratterizzato da “un sottofondo sacramentale”.

“Così – ha continuato – possiamo imparare che Dio risponde alle nostre preghiere”, e spesso “le corregge, le trasforma, le guida perché siamo finalmente e realmente rami del suo Figlio, della 'vite vera', membri del suo Corpo”.

“Ringraziamo Dio per la grandezza del suo amore – ha quindi concluso –. Preghiamo perché ci aiuti a crescere nel suo amore e a rimanere realmente nel suo amore”.

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VISITA AL SEMINARIO ROMANO MAGGIORE IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA, 12.02.2010

“LECTIO DIVINA” CON I SEMINARISTI

PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Eminenza, Eccellenze,
Cari amici,

ogni anno è per me una grande gioia essere con i seminaristi della diocesi di Roma, con i giovani che si preparano a rispondere alla chiamata del Signore per essere lavoratori nella sua vigna, sacerdoti del suo mistero. E’ questa la gioia di vedere che la Chiesa vive, che il futuro della Chiesa è presente anche nelle nostre terre, proprio anche a Roma.

In quest’Anno Sacerdotale, vogliamo essere particolarmente attenti alle parole del Signore concernenti il nostro servizio. Il brano del Vangelo ora letto parla indirettamente, ma profondamente, del nostro Sacramento, della nostra chiamata a stare nella vigna del Signore, ad essere servitori del suo mistero.

In questo breve brano, troviamo alcune parole-chiave, che danno l’indicazione dell’annuncio che il Signore vuole fare con questo testo. “Rimanere”: in questo breve brano, troviamo dieci volte la parola “rimanere”; poi, il nuovo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”, “Non più servi ma amici”, “Portate frutto”; e, finalmente: “Chiedete, pregate e vi sarà dato, vi sarà data la gioia”. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad entrare nel senso delle sue parole, perché queste parole possano penetrare il nostro cuore e così possano essere via e vita in noi, con noi e tramite noi.

La prima parola è: “Rimanete in me, nel mio amore”.

Il rimanere nel Signore è fondamentale come primo tema di questo brano. Rimanere: dove? Nell’amore, nell’amore di Cristo, nell’essere amati e nell’amare il Signore. Tutto il capitolo 15 concretizza il luogo del nostro rimanere, perché i primi otto versetti espongono e presentano la parabola della vite: “Io sono la vite e voi i rami”.

La vite è un’immagine veterotestamentaria che troviamo sia nei Profeti, sia nei Salmi e ha un duplice significato: è una parabola per il popolo di Dio, che è la sua vigna. Egli ha piantato una vite in questo mondo, ha coltivato questa vite, ha coltivato la sua vigna, protetto questa sua vigna, e con quale intento? Naturalmente, con l’intento di trovare frutto, di trovare il dono prezioso dell’uva, del vino buono.

E così appare il secondo significato: il vino è simbolo, è espressione della gioia dell’amore. Il Signore ha creato il suo popolo per trovare la risposta del suo amore e così questa immagine della vite, della vigna, ha un significato sponsale, è espressione del fatto che Dio cerca l’amore della sua creatura, vuole entrare in una relazione d’amore, in una relazione sponsale con il mondo tramite il popolo da lui eletto.

Ma poi la storia concreta è una storia di infedeltà: invece di uva preziosa, vengono prodotte solo piccole “cose immangiabili”, non giunge la risposta di questo grande amore, non nasce questa unità, questa unione senza condizioni tra uomo e Dio, nella comunione dell’amore. L’uomo si ritira in se stesso, vuole avere se stesso solo per sé, vuole avere Dio per sé, vuole avere il mondo per sé. E così, la vigna viene devastata, il cinghiale del bosco, tutti i nemici vengono, e la vigna diventa un deserto.

Ma Dio non si arrende: Dio trova un nuovo modo per arrivare ad un amore libero, irrevocabile, al frutto di tale amore, alla vera uva: Dio si fa uomo, e così diventa Egli stesso radice della vite, diventa Egli stesso la vite, e così la vite diviene indistruttibile. Questo popolo di Dio non può essere distrutto, perché Dio stesso vi è entrato, si è impiantato in questa terra. Il nuovo popolo di Dio è realmente fondato in Dio stesso, che si fa uomo e così ci chiama ad essere in Lui la nuova vite e ci chiama a stare, a rimanere in Lui.

Teniamo presente, inoltre, che, nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, troviamo il discorso sul pane, che diventa il grande discorso sul mistero eucaristico. In questo capitolo 15 abbiamo il discorso sul vino: il Signore non parla esplicitamente dell’Eucaristia, ma, naturalmente, dietro il mistero del vino sta la realtà che Egli si è fatto frutto e vino per noi, che il suo sangue è il frutto dell’amore che nasce dalla terra per sempre e, nell’Eucaristia, il suo sangue diventa il nostro sangue, noi diventiamo nuovi, riceviamo una nuova identità, perché il sangue di Cristo diventa il nostro sangue. Così siamo imparentati con Dio nel Figlio e, nell’Eucaristia, diventa realtà questa grande realtà della vite nella quale noi siamo rami uniti con il Figlio e così uniti con l’amore eterno.

Rimanete”: rimanere in questo grande mistero, rimanere in questo nuovo dono del Signore, che ci ha reso popolo in se stesso, nel suo Corpo e col suo Sangue.

Mi sembra che dobbiamo meditare molto questo mistero, cioè che Dio stesso si fa Corpo, uno con noi; Sangue, uno con noi; che possiamo rimanere – rimanendo in questo mistero – nella comunione con Dio stesso, in questa grande storia di amore, che è la storia della vera felicità. Meditando questo dono – Dio si è fatto uno con noi tutti e, nello stesso tempo, ci fa tutti uno, una vite – dobbiamo anche iniziare a pregare, affinché sempre più questo mistero penetri nella nostra mente, nel nostro cuore, e sempre più siamo capaci di vedere e di vivere la grandezza del mistero, e così cominciare a realizzare questo imperativo: “Rimanete”.

Se continuiamo a leggere attentamente questo brano del Vangelo di Giovanni, troviamo anche un secondo imperativo: “Rimanete” e “Osservate i miei comandamenti”.

“Osservate” è solo il secondo livello; il primo è quello del “rimanere”, il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire e, nel contesto del suo Corpo, nel contesto dello stare in Lui, identificati con Lui, nobilitati con il suo Sangue, possiamo anche noi agire con Cristo.

L’etica è conseguenza dell’essere: prima il Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l’essere precede l’agire e da questo essere poi segue l’agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova identità. Quindi non è più un’obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del nuovo essere.

Lo dico ancora una volta: ringraziamo il Signore perché Lui ci precede, ci dà quanto dobbiamo dare noi, e noi possiamo essere poi, nella verità e nella forza del nostro nuovo essere, attori della sua realtà. Rimanere e osservare: l’osservare è il segno del rimanere e il rimanere è il dono che Lui ci dà, ma che deve essere rinnovato ogni giorno nella nostra vita.

Segue, poi, questo nuovo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”. Nessun amore è più grande di questo: “dare la vita per i propri amici”. Che cosa vuol dire? Anche qui non si tratta di un moralismo. Si potrebbe dire: “Non è un nuovo comandamento; il comandamento di amare il prossimo come se stessi esiste già nell’Antico Testamento”. Alcuni affermano: ”Tale amore va ancora più radicalizzato; questo amare l’altro deve imitare Cristo, che si è dato per noi; deve essere un amare eroico, fino al dono di se stessi”. In questo caso, però, il cristianesimo sarebbe un moralismo eroico. E’ vero che dobbiamo arrivare fino a questa radicalità dell’amore, che Cristo ci ha mostrato e donato, ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui: il Signore ci ha dato se stesso, e il Signore ci ha donato la vera novità di essere membri suoi nel suo corpo, di essere rami della vite che è Lui. Quindi, la novità è il dono, il grande dono, e dal dono, dalla novità del dono, segue anche, come ho detto, il nuovo agire.

San Tommaso d’Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge è la grazia dello Spirito Santo” (Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1). La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo datoci nel Sacramento del Battesimo, nella Cresima, e datoci ogni giorno nella Santissima Eucaristia. I Padri qui hanno distinto “sacramentum” ed “exemplum”. “Sacramentum” è il dono del nuovo essere, e questo dono diventa anche esempio per il nostro agire, ma il “sacramentum” precede, e noi viviamo dal sacramento. Qui vediamo la centralità del sacramento, che è centralità del dono.

Procediamo nella nostra riflessione. Il Signore dice: “Non vi chiamo più servi, il servo non sa quello che fa il suo padrone. Vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. Non più servi, che obbediscono al comando, ma amici che conoscono, che sono uniti nella stessa volontà, nello stesso amore. La novità quindi è che Dio si è fatto conoscere, che Dio si è mostrato, che Dio non è più il Dio ignoto, cercato, ma non trovato o solo indovinato da lontano. Dio si è fatto vedere: nel volto di Cristo vediamo Dio, Dio si è fatto “conosciuto”, e così ci ha fatto amici. Pensiamo come nella storia dell’umanità, in tutte le religioni arcaiche, si sa che c’è un Dio. Questa è una conoscenza immersa nel cuore dell’uomo, che Dio è uno, gli dèi non sono “il” Dio.
Ma questo Dio rimane molto lontano, sembra che non si faccia conoscere, non si faccia amare, non è amico, ma è lontano. Perciò le religioni si occupano poco di questo Dio, la vita concreta si occupa degli spiriti, delle realtà concrete che incontriamo ogni giorno e con le quali dobbiamo fare i calcoli quotidianamente. Dio rimane lontano.

Poi vediamo il grande movimento della filosofia: pensiamo a Platone, Aristotele, che iniziano a intuire come questo Dio è l’agathòn, la bontà stessa, è l’eros che muove il mondo, e tuttavia questo rimane un pensiero umano, è un’idea di Dio che si avvicina alla verità, ma è un’idea nostra e Dio rimane il Dio nascosto.
Poco tempo fa, mi ha scritto un professore di Regensburg, un professore di fisica, che aveva letto con grande ritardo il mio discorso all’Università di Regensburg, per dirmi che non poteva essere d’accordo con la mia logica o poteva esserlo solo in parte. Ha detto: “Certo, mi convince l’idea che la struttura razionale del mondo esiga una ragione creatrice, la quale ha fatto questa razionalità che non si spiega da se stessa”. E continuava: “Ma se può esserci un demiurgo – così si esprime -, un demiurgo mi sembra sicuro da quanto Lei dice, non vedo che ci sia un Dio amore, buono, giusto e misericordioso. Posso vedere che ci sia una ragione che precede la razionalità del cosmo, ma il resto no”. E così Dio gli rimane nascosto. E’ una ragione che precede le nostre ragioni, la nostra razionalità, la razionalità dell’essere, ma non c’è un amore eterno, non c’è la grande misericordia che ci dà da vivere.

Ed ecco, in Cristo, Dio si è mostrato nella sua totale verità, ha mostrato che è ragione e amore, che la ragione eterna è amore e così crea.

Purtroppo, anche oggi molti vivono lontani da Cristo, non conoscono il suo volto e così l’eterna tentazione del dualismo, che si nasconde anche nella lettera di questo professore, si rinnova sempre, cioè che forse non c’è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male; che il mondo è diviso e sono due realtà ugualmente forti: e che il Dio buono è solo una parte della realtà. Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un’apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male?

Ma Dio non è più sconosciuto: nel volto del Cristo Crocifisso vediamo Dio e vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. Per noi uomini potenza, potere è sempre identico alla capacità di distruggere, di far il male. Ma il vero concetto di onnipotenza che appare in Cristo è proprio il contrario: in Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire: qui si mostra la sua vera onnipotenza, che può giungere fino al punto di un amore che soffre per noi. E così vediamo che Lui è il vero Dio e il vero Dio, che è amore, é potere: il potere dell’amore. E noi possiamo affidarci al suo amore onnipotente e vivere in questo, con questo amore onnipotente.

Penso che dobbiamo sempre meditare di nuovo su questa realtà, ringraziare Dio perché si è mostrato, perché lo conosciamo in volto, faccia a faccia; non è più come Mosé che poteva vedere solo il dorso del Signore. Anche questa è un’idea bella, della quale San Gregorio Nisseno dice: “Vedere solo il dorso vuol dire che dobbiamo sempre andare dietro a Cristo”. Ma nello stesso tempo Dio ha mostrato con Cristo la sua faccia, il suo volto. Il velo del tempio è squarciato, è aperto, il mistero di Dio è visibile. Il primo comandamento che esclude immagini di Dio, perché esse potrebbero solo sminuirne la realtà, è cambiato, rinnovato, ha un’altra forma. Possiamo adesso, nell’uomo Cristo, vedere il volto di Dio, possiamo avere icone di Cristo e così vedere chi è Dio.

Io penso che chi ha capito questo, chi si è fatto toccare da questo mistero, che Dio si è svelato, si è squarciato il velo del tempio, mostrato il suo volto, trova una fonte di gioia permanente.

Possiamo solo dire: “Grazie. Sì, adesso sappiamo chi tu sei, chi è Dio e come rispondere a Lui”. E penso che questa gioia di conoscere Dio che si è mostrato, mostrato fino all’intimo del suo essere, implica anche la gioia del comunicare: chi ha capito questo, vive toccato da questa realtà, deve fare come hanno fatto i primi discepoli che vanno dai loro amici e fratelli dicendo: “Abbiamo trovato colui del quale parlano i Profeti. Adesso è presente”. La missionarietà non è una cosa esteriormente aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa. Chi ha visto, chi ha incontrato Gesù, deve andare dagli amici e deve dire agli amici: “Lo abbiamo trovato, è Gesù, il Crocifisso per noi”.

Continuando poi, il testo dice: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il frutto vostro rimanga”. Con questo ritorniamo all’inizio, all’immagine, alla parabola della vite: essa è creata per portare frutto. E qual è il frutto? Come abbiamo detto, il frutto è l’amore. Nell’Antico Testamento, con la Torah come prima tappa dell’autorivelazione di Dio, il frutto era compreso come giustizia, cioè vivere secondo la Parola di Dio, vivere nella volontà di Dio, e così vivere bene.

Ciò rimane, ma nello stesso tempo viene trasceso: la vera giustizia non consiste in un’obbedienza ad alcune norme, ma è amore, amore creativo, che trova da sé la ricchezza, l’abbondanza del bene. Abbondanza è una delle parole chiave del Nuovo Testamento, Dio stesso dà sempre con abbondanza. Per creare l’uomo, crea questa abbondanza di un cosmo immenso; per redimere l’uomo dà se stesso, nell’Eucaristia dà se stesso. E chi è unito con Cristo, chi è ramo nella vite, vive di questa legge, non chiede: “Posso ancora fare questo o no?”, “Devo fare questo o no?”, ma vive nell’entusiasmo dell’amore che non domanda: “questo è ancora necessario oppure proibito”, ma, semplicemente, nella creatività dell’amore, vuole vivere con Cristo e per Cristo e dare tutto se stesso per Lui e così entrare nella gioia del portare frutto. Teniamo anche presente che il Signore dice “Vi ho costituiti perché andiate”: è il dinamismo che vive nell’amore di Cristo; andare, cioè, non rimanere solo per me, vedere la mia perfezione, garantire per me la felicità eterna, ma dimenticare me stesso, andare come Cristo è andato, andare come Dio è andato dall’immensa sua maestà fino alla nostra povertà, per trovare frutto, per aiutarci, per donarci la possibilità di portare il vero frutto dell’amore. Quanto più siamo pieni di questa gioia di aver scoperto il volto di Dio, tanto più l’entusiasmo dell’amore sarà reale in noi e porterà frutto.

E finalmente giungiamo all’ultima parola di questo brano: “Questo vi dico: ‘Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda’”. Una breve catechesi sulla preghiera, che ci sorprende sempre di nuovo. Due volte in questo capitolo 15 il Signore dice “Quanto chiederete vi do” e una volta ancora nel capitolo 16. E noi vorremmo dire: “Ma no, Signore, non è vero”. Tante preghiere buone e profonde di mamme che pregano per il figlio che sta morendo e non sono esaudite, tante preghiere perché succeda una cosa buona e il Signore non esaudisce.

Che cosa vuol dire questa promessa? Nel capitolo 16 il Signore ci offre la chiave per comprendere: ci dice quanto ci dà, che cosa è questo tutto, la charà, la gioia: se uno ha trovato la gioia ha trovato tutto e vede tutto nella luce dell’amore divino. Come San Francesco, il quale ha composto la grande poesia sul creato in una situazione desolata, eppure proprio lì, vicino al Signore sofferente, ha riscoperto la bellezza dell’essere, la bontà di Dio, e ha composto questa grande poesia.

È utile ricordare, nello stesso momento, anche alcuni versetti del Vangelo di Luca, dove il Signore, in una parabola, parla della preghiera, dicendo: “Se già voi che siete cattivi date cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre nel cielo darà a voi suoi figli lo Spirito Santo”. Lo Spirito Santo – nel Vangelo di Luca – è gioia, nel Vangelo di Giovanni è la stessa realtà: la gioia è lo Spirito Santo e lo Spirito Santo è la gioia, o, in altre parole, da Dio non chiediamo qualche piccola o grande cosa, da Dio invochiamo il dono divino, Dio stesso; questo è il grande dono che Dio ci dà: Dio stesso. In questo senso dobbiamo imparare a pregare, pregare per la grande realtà, per la realtà divina, perché Egli ci dia se stesso, ci dia il suo Spirito e così possiamo rispondere alle esigenze della vita e aiutare gli altri nelle loro sofferenze. Naturalmente, il Padre Nostro ce lo insegna. Possiamo pregare per tante cose, in tutti i nostri bisogni possiamo pregare: “Aiutami!”. Questo è molto umano e Dio è umano, come abbiamo visto; quindi è giusto pregare Dio anche per le piccole cose della nostra vita di ogni giorno.

Ma, nello stesso tempo, il pregare è un cammino, direi una scala: dobbiamo imparare sempre più per quali cose possiamo pregare e per quali cose non possiamo pregare, perché sono espressioni del mio egoismo. Non posso pregare per cose che sono nocive per gli altri, non posso pregare per cose che aiutano il mio egoismo, la mia superbia. Così il pregare, davanti agli occhi di Dio, diventa un processo di purificazione dei nostri pensieri, dei nostri desideri.

Come dice il Signore nella parabola della vite: dobbiamo essere potati, purificati, ogni giorno; vivere con Cristo, in Cristo, rimanere in Cristo, è un processo di purificazione, e solo in questo processo di lenta purificazione, di liberazione da noi stessi e dalla volontà di avere solo noi stessi, sta il cammino vero della vita, si apre il cammino della gioia.

Come ho già accennato, tutte queste parole del Signore hanno un sottofondo sacramentale. Il sottofondo fondamentale per la parabola della vite è il Battesimo: siamo impiantati in Cristo; e l’Eucaristia: siamo un pane, un corpo, un sangue, una vita con Cristo. E così anche questo processo di purificazione ha un sottofondo sacramentale: il sacramento della Penitenza, della Riconciliazione nel quale accettiamo questa pedagogia divina che giorno per giorno, lungo una vita, ci purifica e ci fa sempre più veri membri del suo corpo. In questo modo possiamo imparare che Dio risponde alle nostre preghiere, risponde spesso con la sua bontà anche alle preghiere piccole, ma spesso anche le corregge, le trasforma e le guida perché possiamo essere finalmente e realmente rami del suo Figlio, della vite vera, membri del suo Corpo.

Ringraziamo Dio per la grandezza del suo amore, preghiamo perché ci aiuti a crescere nel suo amore, a rimanere realmente nel suo amore.

© Copyright 2010 – Libreria Editrice Vaticana

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