ROMA, sabato, 20 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo scritto dal prof. Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali all'Università del Molise.
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1. Preludio: l’eccitazione della citazione
Sono bastati minimi passaggi di due dispacci inviati rispettivamente da Tittman nella seconda metà del 1943 e da Osborne verso la fine del 1944, ignorando deliberatamente tutto il resto, per scatenare un putiferio di polemiche. Neppure da molte parti cattoliche si è fatto caso ad alcuni dati elementari, che di per sé sarebbero bastati a sgonfiare il dibattito dall’aria di scoop, insufflato da un lancio dell’ANSA e poi riverberatosi il 1° febbraio 2010 per effetto di due articoli del Corriere della Sera e della Stampa.
Casarrubea e Cereghino se la sono presa, anche col sottoscritto. Rispondendo a un lettore che li accusava di far male il loro lavoro, i due “studiosi” hanno detto: «Quanto ai libri che il suggeritore ad orecchio del Tornielli, e cioè il prof. Napolitano, ci accusa di non aver letto, è noto che Cereghinoed io lavoriamo principalmente su documenti. Non andando a caccia di reperti inediti, ma per il semplice gusto di sapere gli errori che chi ci ha preceduto ha commesso».
A parte la caduta nel ridicolo, Casarrubea e Cereghino hanno dimostrato d’ignorare l’abbiccì della metodologia storiografica: sapere ciò che esiste su un tema che si vuole studiare ed evitare, per quanto possibile, di arrivare buoni ultimi a dire ciò che gli storici veri hanno detto da tempo. E semmai accade ciò, prendersi la briga di riconoscere il lavoro altrui attraverso quella formula cortese che scientificamente si esprime nella locuzione “citato in”, citato da”, “cfr.” “vedasi”, ecc.
Ma non sapendo chi aveva già pubblicato e che cosa, e quindi non sapendo chi citare, Casarrubea e Cereghino bellamente si sono ben guardati dall’onesta pratica di riconoscere i cosiddetti credits.
Non parliamo poi di altre loro lacune nell’abbeccedario storiografico: per esempio, nello studio delle fonti si parte sempre dalla saggistica, dalla memorialistica e dai documenti editi, per poi iniziare lo scavo archivistico su ciò che è ancora ignoto. Perché se la ricerca d’archivio non crea “valore aggiunto” per la Storia, allora essa diventa sterile citarsi addosso.
Non ci esprimiamo sugli altri temi storici su cui Casarrubea e Cereghino lavorano, perché non potremmo giudicarli. Diciamo solo che nel campo specifico a noi noto, quello di Pio XII, essi si sono mossi assai goffamente, soprattutto quando sono stati “scoperti”.
Il documento di Tittman era noto da anni; per saperlo ci è bastato aprire un libro in un arco di tempo (diciamo la pura verità) pari a quattro-cinqueminuti. Casarrubea e Cereghino se n’erano accorti? No.
Ma essi dicono di non aver mai detto che si trattava di un inedito. Sarà. Certo che posare da pionieri archivistici descrivendo il dispaccio di Tittman, dato alle stampe nel lontano 1964, come il documento «da noi ritrovato a Londra poche settimane fa» non equivale a dire la stessa cosa?
Alla luce dei precedenti ci pare di sì. Perché anche un paio di anni fa Casarrubea e Cereghino pensavano di aver fatto chissà quali scoperte. Accadde il 27 novembre 2008, quando nel post Quando Montini vedeva rosso pubblicarono il verbale (fra l’altro mal tradotto) di una conversazione avuta dal diplomatico americano Parsons con Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI), per dimostrare che questi era un fervente anticomunista. Questo documento, essi scrissero, era stato «da noi rintracciato al Nara [National Archives and Records Administrations: gli archivi americani, n.d.r.] di College Park nel Maryland nel 2004».
Sapete la novità? I due ritenevano il documento “inedito”, ma esso era già stato pubblicato, guarda caso, sempre da Ennio Di Nolfo (a cui fischieranno le orecchie?), nel suo libro Vaticano e Stati Uniti del 1978. Anche in questo caso, lo facemmo notare ai due “scopritori”, i quali così ci risposero: «Effettivamente, Lei ha ragione e ci scusiamo dell’errore. Come Lei stesso ha notato, abbiamo provveduto immediatamente a rimuovere la dicitura “inedito” dal nostro blog».
Errare è umano; ma perseverare? Poco più di mese prima (era l’ottobre 2008), l’ANSA aveva parlato di un documento pubblicato sul blog diCasarrubea in questi termini: «Un nuovo tassello da inserire nel cangiante e spesso contraddittorio mosaico del rapporto tra Pio XII e gli ebrei nell'autunno del 1943». Un nuovo tassello? Il documento in questione, verbale di un colloquio tra Osborne e il Papa avvenuto il 18 ottobre 1943, era già noto dalle ricerche di Owen Chadwick, il cui Great Britain and the Vatican era uscito nel 1986, e in edizione italiana nel 2007. E siamo a tre.
Non hanno mai parlato, Casarrubea e Cereghino, di aver scoperto degli inediti noti da gran tempo? Ammesso e non concesso ciò (dato che hanno riconosciuto l’errore e se ne sono scusati con noi), resta il fatto che i due sono un esempio inimitabile (leggasi: da non imitare) di disinformazione storiografica.
«Non abbiamo parlato d’inediti», affermano; ma neppure hanno mai detto che le cose che si pubblicavano erano edite, e da chi. Semplicemente non ne sapevano niente. E questo la dice lunga sull’inconsistenza del metodo storico di Casarrubea e Cereghino.
Se la prendono col sottoscritto? Pazienza.
All’indomani della pubblicazione del nostro recente articolo su di loro, hanno scritto: «Desideriamo ringraziare Matteo Luigi Napolitano, esimio professore di Storia delle Relazioni internazionali, per l’ illuminante articolo Pio XII e i falsi scoop pubblicato il 2 febbraio 2010 nel sitowww.vaticanfiles.splinder.com. Ci sorprende tuttavia che un intellettuale di tale levatura ignori l’esistenza del fascicolo confidenziale Sir D.Osborne’s audience with the Pope on 10th november 1944, reperibile ai National Archives di Kew Gardens (GB), ai segni [SIC! Per «segnatura archivistica» n.d.r.] FO 371/44213, da noi riportato nel Pdf allegato al post Beato lui!, in data 30 gennaio 2010, nel nostro sito www.casarrubea.wordpress.com. Ci sorprende altresì che nel citare tale documento Napolitano abbia omesso la frase che introduce e spiega la natura della discussione tra Sir Osborne e il principe Pacelli».
Amen.
A parte che siamo noi a ringraziare loro per l’eccessiva attenzione (e non lo diciamo pro forma), aggiungiamo che non vale la pena neppure di replicare con ciò che è ovvio: il nostro articolo del 2 febbraio è quasi tutto incentrato sulla lettura del documento che essi pensano (non sappiamo perché) che noi abbiamo ignorato.
Ma hanno letto ciò che abbiamo scritto?
Resta, certamente, ancora molto da dire sul dispaccio di Osborne. Lo faremo fra un momento. Ma ora, una prima una diversione: sul documento diTittman datato 19 ottobre 1943.
2. Ma il documento di Tittman è proprio del 19 ottobre 1943?
Sul documento di Tittman ritenevamo di aver detto tutto già in un articolo precedente.
O quasi tutto.
Cereghino e Casarrubea hanno giurato e spergiurato che il colloquio fra Tittman e Pio XII si svolse il 19 ottobre 1943, e che il documento in questione dimostra l’insensibilità del Papa, che non parlò degli ebrei romani, razziati tre giorni prima.
A parte che i due non spiegano come non sia stato Tittman, proprio tre giorni dopo i tragici eventi romani, a tirar fuori lui l’argomento col Papa, di sua iniziativa (e quindi non spiegano il “silenzio” di Tittman in proposito); a parte ciò, forse la questione della data in cui si svolse effettivamente il colloquio fra Tittman e Pio XII richiederebbe assai maggiore prudenza.
Andiamo a spiegare.
Di recente, in un’intervista a ZENIT, il prof. Ronald Rychlak ha ricordato che l’ “Osservatore Romano” del 15 ottobre 1943 dava notizia di un’udienza concessa dal Papa a Tittman il giorno prima, 14 ottobre 1943. Ciò spiegherebbe come mai fra i due non sia stato affrontato il tema della razzia degli ebrei romani, verificatasi solo due giorni dopo quel colloquio.
Visto che dalla precisa datazione di questo colloquio dipende l’accusa di “silenzio” di Pio XII sulla razzia degli ebrei romani, la questione non è di poco conto, ma va necessariamente affrontata su basi più solide di una semplice segnalazione del pur autorevole giornale vaticano.
Ebbene, le fonti archivistiche confermano la segnalazione dell’ ”Osservatore Romano”. Come si legge infatti nel foglio d’udienza del 14 ottobre 1943[1], Tittman venne effettivamente ricevuto in udienza dal Papa alle ore 11,00 di quel giorno. Se si sfoglia il registro e si va alla data del 19 ottobre 1943, il nome di Tittman non compare affatto, neppure inserito come aggiunta dell’ultim’ora. Né appare successivamente. Al foglio del 18 ottobre 1943, invece, compare il nome di Osborne (udienza alle ore 9,00, di cui infatti c’è traccia archivistica). E infatti, lo stesso Osborne parla dei fatti del 16 ottobre nel suo dispaccio del 31 successivo: esito dei colloqui avvenuti col papa a ridosso dei tragici eventi romani.
Le fonti archivistiche danno quindi per probabile che il famoso dispaccio di Tittman (che anche nella collana americana reca la data del 19 ottobre 1943) sia in realtà il resoconto della conversazione fra Tittman e Pio XII del 14 ottobre precedente. Ecco perché non si parla della razzia degli ebrei romani, che è di due giorni posteriore; mentre, al contrario, nel caso di Osborne, si vede bene che la questione degli ebrei romani è stata toccata.
In un appunto del 21 ottobre 1943, monsignor Tardini si riferisce proprio a un colloquio fra il Papa e Tittman sulla sorte di Roma e sulle assicurazioni date da Myron Taylor in proposito. «Sua Santità – scrive Tardini – si era lamentata perché il popolo italiano non era stato trattato secondo le date assicurazioni» dategli da Roosevelt nelle due lettere del 16 e del 20 giugno 1943 (e infatti il 19 luglio era arrivato il primo bombardamento di Roma[2]). Fu proprio la salvezza di Roma uno dei temi del colloquio Tittman-Pio XII; anche se il primo non riferì al PresidenteRoosevelt le lamentele del Papa.
L’appunto di Tardini non potrebbe tuttavia, preso in sé, lasciar ipotizzare l’errore di datazione del dispaccio di Tittman, se non si andasse proprio all’originale del documento conservato negli archivi britannici di Kew, e se non si conoscesse un minimo di tecnica di corrispondenza diplomatica.
Non essendoci in Vaticano un’ambasciata o una rappresentanza diplomatica ufficiale americana, Tittman non aveva (a differenza di MyronTaylor, rappresentante personale di Roosevelt presso il Papa) un proprio servizio cifra per la corrispondenza segreta col suo Governo. Nel caso del dispaccio in esame, Tittman lo affidò alle cure del collega britannico, Osborne, perché fosse cifrato e ritrasmesso a Washington. Osborne, ricevuto il messaggio, lo trasmise al Foreign Office di Londra, che a sua volta lo “rifischiò” a Washington e anche al Ministro britannico residente ad Algeri.
Tre passaggi del dispaccio, dunque: Tittman a Osborne, Osborne al suo Governo, e quest’ultimo a Washington.
Ed è proprio a questo punto che la copia archivistica del dispaccio di Tittman, resa nota da Cereghino e Casarrubea, rivela qualcosa d’insospettato.
La copia che i due hanno pubblicato è conservata nei file della Rappresentanza britannica ad Algeri (infatti in intestazione appare il timbro “copia per il ministro residente”). Vi si legge che essa è partita dal Foreign Office alle ore 21,25 del 21 ottobre 1943, per arrivare ad Algeri alle ore 13,00 del giorno dopo.
Ma ecco l’intestazione del documento:
«Indirizzato a Washington tel. No. 7199, 21 ottobre, e al Ministro Residente ad Algeri. Quanto segue ricevuto da [Rappresentanza] Santa Sede telegramma No. 388, 19 ottobre. Inizia. “Quanto segue [stavolta è Osborne a scrivere] è del mio collega statunitense No. 198, che egli chiede sia ritrasmesso a Washington”»
Ed è a questo punto che Osborne inserisce a sua volta le virgolette e cita il testo integrale del dispaccio di Tittman.
E’ insomma un gioco di matrioske: il Foreign Office apre le virgolette e cita il dispaccio di Osborne, il quale a sua volta apre le virgolette e cita quello di Tittman.
Ed è proprio osservando questa concatenazione che si nota una cosa: la data del 19 ottobre 1943 è quella del telegramma di Osborne dal Vaticano,non quella del dispaccio di Tittman. Quando infatti il Foreign Office scrive che ha «ricevuto da Santa Sede telegramma No. 388, 19 ottobre» significa infatti che il telegramma di Osborne è del 19 ottobre 1943. Nulla, quindi, ci dice che quello di Tittman, inoltrato a Londra perché giunga a Washington, abbia la stessa data.
E infatti, aperte le virgolette dopo il «begins» (ossia: «Inizia la citazione del dispaccio di Tittman»), Osborne non riporta alcuna data, ma solo il testo del dispaccio di Tittman. Se Osborne avesse conosciuto la data del dispaccio di Tittman, l’avrebbe indicata insieme al numero di dispaccio, riportato perché evidentemente appariva nella minuta da cifrare e ritrasmettere (anche Eden, quando ritrasmise a Washington un altro telegramma diOsborne, indicò, oltre al numero di partenza del di lui dispaccio, anche la data).
Si consideri poi un altro elemento, che forse non è trascurabile. Nella bozza presentata da Casarrubea e Cereghino, Tittman scrive: «Ho avuto un’udienza oggi col Papa, che non avevo visto da lunedì». Se si identifica quell’oggi con il 19 ottobre 1943, ebbene quel giorno era martedì. Non sarebbe stato più logico che Tittman scrivesse:«Ho avuto un’udienza oggi col Papa, che non vedevo da ieri»?
Ultima considerazione: Tittman aveva il rango di un’incaricato d’affari, e come tale non aveva col Papa un contatto diretto come accadeva per i colleghi col rango più elevato di ambasciatore. I contatti più frequenti Tittman li aveva col Segretario di Stato card. Maglione, ma ancor più con i due Sostituti alla Segreteria di Stato, i monsignori Tardini e Montini (il futuro Paolo VI). Non è quindi pensabile, per l’attenta prassi diplomatica e di protocollo vigente non solo in Vaticano ma anche altrove, che egli fosse ricevuto in udienza personalmente dal Papa (ossia da un Capo di Stato) addirittura per due giorni di seguito.
Ma come si è visto, il registro delle udienze del Maestro di Camera del Pontefice né alla data del 18 ottobre né a quella del 19 riporta un’udienza concessa dal Papa a Tittman. Considerate quindi le fonti vaticane, ma soprattutto il gioco a incastro di dispacci che furono trasmessi dal Vaticano (quello di Osborne che “contiene” quello di Tittman; quello del Foreign Office che li contiene entrambi), le probabilità che Tittman non abbia mai incontrato Pio XII il 19 ottobre 1943, e che il suo dispaccio sia anteriore di ben cinque giorni, sono altissime.
Priva di senso sarebbe quindi la polemica su Pio XII che non si sofferma con Tittman sulla sorte degli ebrei romani: come poteva, dato che la razzia non era ancora avvenuta? E poi va ribadito che chi apre questa polemica contro Pio XII, sostenendo che il suo colloquio con Tittman avvenne il 19 ottobre 1943 e che il Papa tacque sugli ebrei romani, non si chiede poi come mai non sia stato lo stesso Tittman ad affrontare l’argomento, di sua iniziativa, col Papa. Volendo parlare superficialmente del “silenzio” di Pio XII, non s’indaga insomma su quello di Tittman.
Resterebbe da vedere l’originale conservato negli archivi americani dell’esemplare che poi è stato pubblicato nella raccolta statunitense con la data del 19 ottobre 1943. E’ l’unico punto che invita davvero alla cautela, anche perché riporta una differenza nel testo (Tittman, vi si legge, non vedeva il Papa dall’anno precedente, e non dal precedente lunedì). Alla nota che accompagna questo documento si legge: «Questo messaggio fu trasmesso al Dipartimento di Stato dal Rappresentante britannico in Vaticano, attraverso l’ambasciata britannica a Washington e ricevuto al Dipartimento il 25 ottobre»[3]. Il che ci fa supporre (data l’impossibilità per Tittman di cifrare i suoi dispacci) che si tratti non di un originale ma di una copia circolare, in cui ci sarebbero errori di datazione.
3. Il documento di Osborne del 10 novembre 1944. Basta leggere per capire
Vale ora la pena allora di fare alcune considerazioni aggiuntive sull’altro documento, quello di Osborne del 10 novembre 1944, oltre quanto abbiamo già detto a ridosso della polemica.
3.1 Il documento di Osborne del 10 novembre 1944 è ricco e sorprendente per diversi aspetti. Vi abbiamo contato almeno diciotto punto, alcuni non proprio trascurabili per un serio dibattito storico. Peschiamo a caso
a) Osborne nota il risentimento di fascisti e nazisti perché il Vaticano sta ospitando diplomatici stranieri di Paesi in guerra con l'Italia, molti dei quali erano già accreditati presso il Quirinale (tipico è proprio il caso di Harold Tittman, autore dell’altro documento assai discusso, quello del 19 ottobre 1943);
b) Osborne è convinto che se le sorti belliche non fossero poi mutate a svantaggio della Germania, quest’ultima avrebbe certamente invaso sia il Vaticano sia le sedi diplomatiche dei Paesi nemici dell’Asse, ospitate in Vaticano. Di conseguenza, Pio XII offrì questa ospitalità in un momento in cui le sorti belliche erano ancora favorevoli alla Germania, accollandosi pertanto un grave rischio di rappresaglia;
c) Osborne è grato a Pio XII poiché questi ha tollerato che i diplomatici in Vaticano, rappresentanti dei Paesi Alleati, inviassero all'esterno corrispondenza segreta di carattere politico e militare. Questo fatto non ci sembra trascurabile. Perché Osborne dimostra che Pio XII fu il capo di uno Stato neutrale ma non imparziale, perché schierato con gli Alleati. Il che conferma delle ipotesi di lavoro già note agli studiosi, perché formulate in un importante dibattito fra studiosi italiani, i cui risultati possono leggersi nel bel libro su Pio XII, curato da Andrea Riccardi[4].
d) Osborne propone al suo Governo che si ringrazi ufficialmente il Papa: per tutto questo, ma anche per aver ospitato ufficiali già prigionieri di guerra della Germania);
e) Candidamente Osborne s’illude che in Russia, dopo la libertà concessa alla Chiesa ortodossa, ci si trovi alla vigilia di un grande mutamento, di cui Stalin è l'artefice: quello di una Russia con una rinata religione nazionale cristiana!
3.2 C'è poi nel famoso dispaccio di Osborne la questione dell’appello in favore degli ebrei d’Ungheria, che ha sollevato tante sterili polemiche.
Nel dispaccio, l'appello per gli ebrei d'Ungheria non è il tema principale (ventitre parole in tutto in un dispaccio fluviale), e ciò per varie ragioni:
a) perché quella che viene presentata come una “proposta di Eden” (parlare per gli ebrei d'Ungheria), non è affatto di Eden. Scrive Montini: «Il Ministro Osborne circa il suo foglio del 1° novembre, dice che la proposta proviene dall'ambiente israelita: il Governo britannico si limita a raccomandarla» ma del World Jewish Congress, il Congresso Mondiale Ebraico, al quale però il Vaticano sta già rispondendo. Fra l'altro, Eden è stato preceduto, nel trasmettere queste proposte ebraiche, dal Governo americano[5].
b) Il 28 ottobre e il 19 ottobre 1944, il Delegato apostolico a Washington, Amleto Cicognani, ha già trasmesso al Papa queste richieste diambienti ebraici americani[6]. Insomma, la “proposta di Eden” non è cosa nuova.
c) Inutile dire che, fra il 19 ottobre e il 10 novembre 1944, la Santa Sede si è già mossa con diverse iniziative in favore degli ebrei d'Ungheria[7]. Ecco perché la questione è, come dire, “tangenziale” e quasi dispersa nella lunga esposizione che si legge nel dispaccio di Osborne. L'enfasi che le è stata data è senza dubbio eccessiva.
d) E’ la questione dei crimini sovietici, invece, uno dei temi più importanti del dispaccio di Osborne. Ma l’ipotesi della denuncia anonima dei russi, come si dirà fra poco, è formulata da Pio XII "prima" di Osborne, e non su sua sollecitazione; come si evince dal documento, in cuiOsborne dà la sequenza esatta della sua conversazione col Papa.
3.3 Ed eccoci a parlare della denuncia dei crimini russi. Nel dispaccio di Osborne la sequenza esatta della discussione è la seguente:
a) Pio XII dice di essere pressato da più parti a denunciare i crimini russi, ma dice fin da subito che comunque, se decidesse di farlo, la denuncia sarebbe anonima, esattamente come ha fatto nel condannare i crimini tedeschi;
b) Osborne va di rinforzo: lo invita a non denunciare i russi per le gravi ripercussioni che ne seguirebbero e perché si noterebbe la differenza di trattamento rispetto ai tedeschi.
c) Pio XII non lascia finire Osborne; anzi lo interrompe, s'inserisce nel suo discorso («interjected», si legge nell’originale) per ribadire «che non era in questione alcun riferimento alla Russia per nome».
d) Osborne riprende il filo del discorso dicendo di non avere informazioni sui russi in Europa, ma che i crimini russi non potevano eguagliare quelli tedeschi (e «il papa non fece obiezione»); e che anzi non vi era precedente allo sterminio degli ebrei perpetrato con i metodi più efferati («Su ciò il papa concordò», aggiunse Osborne).
Questo si evince dal documento qui in esame, dalla sequenza ordinaria delle frasi, nell'ordinaria concatenazione e interpretazione delle parole che le formano. Questa è l’esatta narrazione dei fatti, trasmessa da Osborne al suo Governo Essa è quindi il portato della narrazione di Osborne. Se il diplomatico britannico avesse notato nel Pontefice un atteggiamento diverso dall'accordo e dalla sintonia con lui, per esempio una sufficiente e alquanto superba condiscendenza, semplicemente, Osborne (che era assai preciso nei suoi resoconti dal Vaticano) l'avrebbe scritto ece lo avrebbe fatto sapere.
3.4 Si chiede sempre a Pio XII di parlare: ma con quale modalità? E poi: qual'è lo step successivo? La cosa sarebbe stata senza conseguenze? E, se ci fossero state conseguenze, quali sarebbero state e chi le avrebbe pagate? Pur non potendo fare la storia con i se , resta il fatto assai probabile, studiando le circostanze storiche, che nel 1942-44 avrebbero potuto essere erano fondamentalmente due: rappresaglie a 360 gradi contro tutto ciò che fosse cattolico o che fosse collegato ai cattolici collegato; seria compromissione, se non totale smantellamento, della rete di aiuti vaticani (ma non solo vaticani), che si trovava a operare (vale la pena di ricordarlo sempre) non i Paesi liberi e democratici, ma esclusivamente nei territori occupati o satelliti della Germania.
3.5. Osborne resta in Vaticano per oltre quattro anni; occorre chiedersi se la posizione di Osborne sia sempre stata quella di esigere sempre e comunque una condanna pubblica dei nazisti da parte di Pio XII; o se abbia sempre ritenuto che una vera e propria condanna del nazismo non ci fosse mai stata.
Dal documento del 31 ottobre 1943 già citato, parrebbe di no. E pare di no anche vent'anni dopo quando, nel 1963, esce Il Vicario, e, comericorderemo ancora poco oltre, la posizione del drammaturgo tedesco è assai criticata da Osborne sul “Times”.
A volte la storia è fatta un po' anche di risultanti algebiche, specialmente quando ci sono in ballo personalità così forti (e neppure cattoliche) come Osborne; ebbene, nel 1963 riteniamo che Osborne abbia voluto chiudere, per ciò che lo riguardava, il discorso sul “silenzio” di Pio XII con una risultante algebrica nettamente positiva per questo Papa
Perché, infatti, elogiare così tanto Pio XII senza essere minimamente obbligato a farlo (Pio XII era morto e Osborne era ormai un privato cittadino; e teneva a specificare al “Times” di non essere neppure cattolico!)?
3.6 Va attirata l’attenzione anche su un altro non trascurabile aspetto della vicenda: l’uso strumentale delle parole del Papa. Esigere dal Vaticano una pubblica condanna di questo o di quello in tempo di guerra sottendeva sempre nei belligeranti fini propagandistici, dato che «ogni stato belligerante desidera che la sua causa sia considerata come una causa morale [...]. Ma nella gran parte dei casi, le Potenze non si aspettavano che il Papa dicesse che una delle sue azioni era buona. Essi speravano che dicesse che un atto compiuto dall'altra parte era malvagio, E se fossero riuscite a persuaderlo a dire questo, ciò sarebbe stato un vantaggio politico»[8].
Fin dal 10 giugno 1940, data dell'entrata in guerra dell'Italia, i rappresentanti diplomatici tedesco, inglese e francese presso la Santa Sede, ebbero l'incarico «di attirare l'attenzione del Papa sulle immoralità perpetrate dall'altra parte. Essi avevano inoltre l'incarico di suggerire che egli le condannasse pubblicamente. Di solito essi non si aspettavano di aver successo in questo compito. Sapevano che dal giugno 1940 il Papa aveva adottato una politica di stretta neutralità come la sola via per mantenersi al di sopra («standing above») di una situazione impossibile»[9].
Esempi di uso strumentale della condanna papale sono poi diffusi, e lo stesso Chadwick li illustra.
4. Osborne e il “silenzio” di Pio XII
Si vuole quindi a tutti i costi far passare l'idea di un Osborne non fa altro che chiedere a Pio XII di parlare contro i crimini nazisti.
Non è così. Proprio la razzia degli ebrei romani del 16 ottobre 1943 ne è la controprova. Se Pio XII, come si dice, fu insensibile al destino degli ebrei romani e preferì tacere dolosamente su questa tragedia, quale migliore occasione del 16 ottobre perché Osborne glielo facesse notare?
E invece, il 31 ottobre 1943, egli così scrive al suo Governo: «Non appena seppe degli arresti di ebrei a Roma, il Cardinale Segretario di Stato diresse e formulò all'Ambasciatore tedesco una [sorta? Questa parola è illeggibile ndr] di protesta. L'Ambasciatore si mosse immediatamente con il risultato che gran parte di loro fu rilasciata. L'intervento vaticano sembra dunque esser stato efficace nel salvare un certo numero di queste sfortunate persone. Ho chiesto di sapere se potessi io riferir questo e mi fu detto che avrei potuto ma solo per nostra conoscenza e non per darne pubblica ragione, poiché ogni pubblicazione d'informazioni condurrebbe probabilmente a nuove persecuzioni»[10].
Il resoconto di Osborne conferma dunque i documenti vaticani. Per cui la tesi del silenzio di Pio XII sulla deportazione degli ebrei romani, perOrborne, non regge. Si potrebbe andare avanti sul tema, ma la smentita più efficace alla tesi secondo cui Osborne ebbe un severo atteggiamento critico per il silenzio del Papa e avrebbe voluto una plateale dichiarazione di condanna della Shoah, la dà ancora una volta lo stesso Osborne, intervenendo nel 1963 proprio sulla polemica relativa al silenzio di Pio XII:
«Lungi dall’essere un diplomatico freddo (il che, suppongo, implica una persona di sangue freddo e disumana), Pio XII fu il personaggio più caldamente umano, gentile, generoso, simpatico (e, per inciso, santo) che io abbia mai avuto il privilegio d’incontrare nel corso di una lunga vita. So che la sua natura sensibile era acutamente e incessantemente sensibile al tragico volume di sofferenza umana causato dalla guerra e, senza il minimo dubbio, sarebbe stato pronto e felice di dare la sua vita per redimere l’umanità dalle sue conseguenze. E ciò senza guardare alla nazionalità o alla fede […]. Sono sicuro che Papa Pio XII è stato grossolanamente giudicato male dal dramma del signor Hochhuth».
E, chiudendo le sue considerazioni, Osborne aggiungeva di non essere neppure cattolico![11].
Pietra tombale, diremmo, quella apposta da Osborne sulla polemica del “silenzio” di Pio XII, scatenata dal dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth.
Con ciò non si vuole affatto dire che Osborne non fosse critico verso il Vaticano (era previsto dalla natura della sua missione), o che non volesse che la Santa Sede parlasse talvolta in maniera più chiara o con toni più energici. Ma, come si rileva soprattutto dal suo diario, prima dell’occupazione tedesca di Roma egli aveva in mente, più che gli ebrei in sé, tutti coloro che stavano soffrendo per la guerra. Al punto che lo stesso destino degli ebrei slovacchi, dopo le notizie giunte nel marzo 1942, ancora non sembrava toccarlo, dato che la sua attenzione era in quel momento attirata dalla sorte delle vittime in generale[12].
Certamente, dopo la dichiarazione interalleata del 17 dicembre 1942 la situazione cambiò molto; e anche Pio XII si fece meno prudente, col radiomessaggio natalizio del 1942 (che non va giudicato per la presenza o no della parola “ebrei” invece di “stirpe”; ma per le positive reazioni che esso suscitò in America, e per le negative reazioni che ne conseguirono in Germania).
Che Osborne poi pensasse che una politica di riserbo fosse la più adatta alle circostanze del momento lo si vede dalla raccomandazione fatta a Pio XII (che pure aveva già deciso di muoversi esattamente nel modo auspicato dal diplomatico) di non denunciare apertamente neppure i crimini sovietici.
Occorre insistere su questo punto: Osborne racconta che Pio XII non è ancora giunto «a una decisione su questo punto [denuncia dei crimini russin.d.r.], e in ogni caso la sua condanna sarebbe anonima, come nel caso della sua condanna dei misfatti tedeschi in passato».
Questa è la sequenza espositiva: Pio XII ha quindi già deciso, indipendentemente da Osborne, quale sarà la condotta da tenere. Osborne non fa altro che corroborarla; i due quindi concordano sull'utilità di un silenzio operativo in vari campi.
C’è poi un’altra questione da considerare. Una cosa è il silenzio, altra cosa è l'inazione. E, come si vede dalla documentazione vaticana (che, va ricordato, è in anche di origine ebraica), la Santa Sede non si mantenne inattiva, ma fece il possibile per salvare le vittime della guerra, e in primo luogo gli ebrei. Silenzio e riserbo erano purtroppo le vie più dirette per un'azione di salvezza segreta e articolata. Del resto, specularmente, silenzio e riserbo sui crimini sovietici erano per Osborne del pari necessari alla condotta della guerra.
Pretendere poi che il papa accendesse un megafono e condannasse i crimini hitleriani da Piazza San Pietro significa:
a) illudersi che Pio XII avesse una parola talmente taumaturgica da fermare i crimini hitleriani; ossia attribuirgli poteri di un Papa medievale in un'epoca del tutto secolarizzata;
b) dover spiegare che cosa sarebbe stato della rete di aiuti vaticani che (va ricordato ancora una volta, perché sempre lo si dimentica), si muoveva in gran parte all'interno di Paesi occupati o annessi dalla Germania (e quindi con diocesi e altre propaggini pontificie già compromesse e controllate nelle loro comunicazioni verso l'esterno).
Parlando di “silenzio” di Pio XII, non si considera poi un dato di fatto: che il nesso condanna plateale-alleviamento della sorte degli ebrei è un preconcetto, senza possibilità di controprova che le cose sarebbero andate esattamente in questa sequenza; una sequenza che quindi solo apparentemente è così logica. Tanto per banalizzare, occorre molta immaginazione per vedere un Hitler presenziare una domenica all'Angelus in piazza San Pietro, chiedendo perdono al Papa per la pubblica condanna comminatagli, e promettendo di non perpetrare più i suoi crimini.
La storia, purtroppo (e al di là dei desideri dello storico) non si può leggere inforcando un bel paio di occhiali rosa.
Continua...