di Franco Camisasca
Nel primo capitolo del romanzo il Manzoni si sofferma diffusamente sui "bravi": deve giustificare come mai il povero don Abbondio li tema così fortemente; ma probabilmente il motivo è più ampio: parlare dei bravi e delle gride significa introdurre un tema che poi percorrerà tutto il romanzo, quello della giustizia: parola-chiave per comprendere uno dei significati più importanti del romanzo.
E chi ha a che fare con la giustizia? Non tanto don Abbondio, anche se ne sembra la prima vittima, quanto piuttosto Renzo che con la ingiustizia del suo tempo deve fare i conti. Senza soffermarci sulla guerra di parole che il giovane deve sostenere con don Abbondio - anche questo ha a che vedere con la giustizia - lo seguiamo mentre cammina a passi infuriati verso la casa di Lucia con "la smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile". Il suo animo è turbato; lui, giovane pacifico e libero da cattiverie, è diventato in quel frangente un possibile omicida; il suo pensiero va a come prendere a tradimento don Rodrigo per farsi giustizia da solo. Il narratore con un intervento metatestuale non può non dire che "i provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi" (capitolo ii). Il male non si può valutare solo per l'atto malvagio in sé, la questione è più grave perché porta una depravazione in chi subisce un gesto cattivo. La vittima è indotta a sua volta al male. Quando poi incontra Lucia che, saputa la vicenda, piange, Renzo si arrabbia e urla il suo desiderio di farsi giustizia.
Ci vuole il parere di Agnese per fermare momentaneamente l'ira del giovane, ma purtroppo questo parere - di consultare un illustre uomo di legge che li avrebbe saputi consigliare su come trarsi dall'impiccio - si trasforma in un nuovo dramma; Renzo si trova di fronte all'ingiustizia della giustizia. Le leggi esistono, però non saranno mai applicate per gente come lui. Infatti il dottor Azzeccagarbugli, quando esce dall'equivoco in cui era caduto, caccia il giovane: "non m'impiccio con ragazzi, non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria. (...) Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo" (capitolo iii).
L'impatto con la legge, questa volta civile, poiché con quella ecclesiastica già si era imbattuto tra le fandonie di don Abbondio, è drammatico e conferma lo sfortunato giovane nella possibilità della ingiustizia. Anzi il fatto sembra aggravato - per noi lettori, che sappiamo, forse meglio di Renzo, leggere la situazione, tutto appare grottesco - dalle parole usate, "ragazzo" e "galantuomo", che stabiliscono un confronto/scontro tra i contendenti a scapito ovviamente di chi "galantuomo" non ha ragioni per mostrarsi. E da qui non è fuori luogo arguire che Renzo continuasse a coltivare in sé l'idea di farsi giustizia da solo. E la rabbia aumenta quando viene a sapere da padre Cristoforo che don Rodrigo è irremovibile; il frate non sa riferirgli "le parole dell'iniquo che è forte", perché esse "penetrano e sfuggono", ciò lo convince sempre più: "la finirò io: io la finirò!... La farò io, la giustizia, io!..." e rivolto a Lucia: "questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!" (capitolo vii) Un Renzo sconvolto che usa la parola giustizia come sinonimo di vendetta, infatti il suo animo è preso da questa passione.
Scappati i due giovani dal paese, dopo l'inutile e discutibile tentativo di matrimonio di sorpresa, con il solo conforto delle parole di fra Cristoforo - "preghiamo tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch'Egli ha voluto" (capitolo viii) - Renzo si ritrova a Milano a compiere una esperienza per lui del tutto nuova: diventare protagonista di un evento in cui la giustizia sembra avere molto a che fare. Ma qui non si tratta di una questione semplicemente privata, da questo momento il "povero montanaro" deve fare i conti con una città "sollevata" in un giorno in cui "ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento". È il giorno del tumulto di san Martino, quando la folla sta assaltando i forni per rubare pane e farina. L'impatto è con una città in cui prevale la violenza. Renzo non si sente estraneo all'opinione comune secondo cui la scarsezza del pane fosse causata dagli incettatori e dai fornai ed "era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l'alimento che essi, secondo quell'opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo" (capitolo xi). Il giovane montanaro è vittima non solo della giustizia ma anche della mentalità corrente che lo porta a sposare le tesi populiste che attribuiscono indiscriminatamente ad alcuni la mancanza del pane. In un primo momento resta fuori dal tumulto, ma poi, in attesa del padre Bonaventura che doveva ospitarlo al convento, butta un'occhiata dove "il brulichio è più folto e più rumoroso". Assiste all'assalto al forno delle grucce e al furore crescente della massa, senza per altro capire molto; tuttavia non gli manca il buon senso per osservare in cuor suo che "se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?".
Il narratore infatti commenta che "la devastazion de' forni, e lo scompiglio de' fornai non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva" (capitolo XII).
Come si modifica la situazione di Renzo? Coinvolto tra una folla che non è certo in grado di padroneggiare, dal momento che non ne conosce le dinamiche, proprio perché in tali circostanze "l'annunzio di una cosa la fa essere", quando una "voce maledetta" porta tutti a saccheggiare la casa del vicario di provvigione, Renzo si trova invischiato tra un "esercito tumultuoso".
L'idea dell'omicidio - la folla vuole ammazzare il vicario - gli causa orrore, anzi arriva a esprimere la propria opinione apertamente, ma è subito preso per una spia del vicario travestito da contadino. Il giovane non sa rendersi conto che la logica della massa non è la sua, c'è bisogno che il narratore lo ricordi a noi e forse anche a lui: nei tumulti popolari c'è sempre una parte più propensa al peggio e una no, tra esse la massa che è capace, contemporaneamente e verso il medesimo oggetto, di gridare "evviva e abbasso" solo perché mossa da passioni incontrollate. Alla folla è impossibile distinguere il bene dal male.
Il nostro contadino, forte delle sue certezze morali - si sente dalla parte migliore - non si avvede che la circostanza in cui si trova lo condiziona al punto da non essere più in grado di guardare le cose con capacità critica. Quando arriva, inaspettatamente, il governatore Antonio Ferrer, per portare in galera il vicario - così almeno si crede - Renzo è tra i suoi sostenitori: aveva visto la sua firma sulle gride; non può che essere un uomo di giustizia e quindi decide di "non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l'intento (capitolo XIIi). Si assiste a una specie di transfer: "al giovane montanaro (...) pareva quasi d'aver fatto amicizia con Antonio Ferrer"; si autoconvince di essere stato un importante protagonista nell'evento di giustizia di quella giornata. Quando la folla comincia a disperdersi non resiste all'impulso di dire anche lui il suo "debol parere" in un crocchio di gente. Ormai è convinto che per "mandare a effetto una cosa, basta farla entrare in grazia a quelli che girano per le strade" (capitolo xiv). Il poveretto non può immaginare quale serata lo aspetti, ma, preso da una foga oratoria, si dilunga in una disquisizione che, partendo dalla sua vicenda personale - per altro incomprensibile agli astanti - discetta sui tiranni che sono contro i dieci comandamenti, che non stanno in galera, mentre le gride ci sono; e poi sugli scribi e i farisei, che non fanno giustizia e fan girare il cervello dei galantuomini.
Da uomo alla ricerca della giustizia, Renzo si trasforma in un predicatore che sta per diventare ancora più decisamente vittima della giustizia, ma qui la sua responsabilità, o meglio la sua ingenuità, gioca un ruolo determinante. Si fa sera e il narratore osserva che "le cose diventavano tutte di un colore", cioè le cose stanno diventando confuse, non si riesce a distinguere il loro vero significato.
Convinto come la gente di Milano che le parole generano i fatti - d'altra parte i fatti della giornata sembrano confermarlo - con la sua concione ingenera negli astanti il convincimento che egli sia uno dei sobillatori, un organizzatore della insurrezione; fornisce di sé una immagine sbagliata. Alcuni applaudono, altri sono scettici, Renzo sente solo i complimenti. Ormai è in una spirale da cui non riesce ad uscire, si fa imbrogliare dallo sbirro che all'Osteria della Luna piena, complice qualche bicchiere di vino di troppo, riesce a farlo cantare. Prima resiste all'oste a cui non vuole fornire per iscritto le sue generalità perché carta, penna e calamaio sono strumenti del demonio: quando si scrive qualcosa si lascia aperta la possibilità della interpretazione; poi non si rende conto che i discorsi possono nascondere tranelli e rivela il suo nome al suo interlocutore. Da questo momento è nell'occhio della giustizia e la mattina dopo, quando si libera dai lacci delle guardie, sarà un ricercato dalla autorità giudiziaria. Una trasformazione repentina, poche ore di soggiorno milanese, da cercatore di giustizia a ricercato dalla giustizia. Ma ben altro lo aspetta.