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IL PRIMATO DI ROMA PER L’ORIENTE ORTODOSSO NEL PRIMO MILLENNIO
Prof. Enrico Morini1
Ricordiamo tutti il viaggio del papa in Grecia nel maggio 2001 e forse anche le polemiche che questa iniziativa suscitò all’interno della stessa gerarchia della Chiesa greco-ortodossa. La decisione, alla fine favorevole, fu preceduta da un articolo del metropolita Callinico del Pireo, nella quale questo presule, padre spirituale dell’arcivescovo di Atene, spiegava ai suoi fedeli le ragioni del suo no: il papa non era un pellegrino qualunque, bensì “un uomo di Chiesa che pretende un potere universale (kosmokratoria)”. Kosmokrator, cioè “che tiene in mano il cosmo”, è una prerogativa di Dio, da Lui demandata temporaneamente al Cristo («Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra»: Mt. 28, 18). Che un uomo, anche se di Chiesa, la rivendichi è un peccato di superbia, il «grande peccato» del salmo 19 (18), 14. È la negazione dell’essenza stessa del cristianesimo, fondato sull’umiltà, sulla primazialità come servizio («Chi vuol essere il prima tra voi sia vostro servo; chi vuol essere grande sia l’ultimo di tutti». Su questi presupposti ideologici, nei momenti di più accesa polemica con il cattolicesimo – proprio in quel periodo, XVII-XVIII secolo, che vede il proselitismo cattolico insinuarsi nel mondo ortodosso, con lo strumento, sino ad allora inusitato delle unioni parziali con Chiese ortodosse locali o della costituzione di gerarchie di rito orientale per i fedeli individualmente convertiti (fenomeni entrambi che vanno sotto il nome di uniatismo) – si arriva, da parte ortodossa, ad attribuire al papato la funzione dell’Anticristo. Temo proprio che molti dei monaci e delle monache che hanno sfilato nel 2001 per le vie di Atene e di Kiev, in occasione delle rispettive visite del papa in quelle città, brandendo crocifissi, icone, stendardi di parrocchie e monasteri o striscioni da stadio inneggianti all’Ortodossia, la pensassero ancora così. Ecco allora il dramma delle due Chiese sorelle che, condannando l’una la superbia del papa romano che aspira alla kosmokratoria, l’altra la superbia Graecorum – come si esprimevano i polemisti latini medioevali – che non piegano la dura cervice a riconoscere le prerogative di governo episcopale su tutta la Chiesa del successore di Pietro, si accusano vicendevolmente del peccato luciferino di un orgoglio smodato. Questa comunque è la percezione che l’Ortodossia ha oggi del papato. Ovviamente c’è modo e modo di esprimerla: ma anche il patriarca Dimitrios I, successore di Atenagora sul trono primaziale dell’Ortodossia e solerte continuatore delle aperture ecumeniche del suo indimenticabile predecessore, si premurò di precisarlo, nel suo discorso di intronizzazione del luglio 1972, mentre il mondo cristiano ascoltava con il fiato sospeso, chiedendosi chi fosse
costui: nessun vescovo nella Chiesa – si espresse più o meno - è, per diritto divino, superiore ad un altro e le gerarchie sapientemente stabilite tra patriarchi, arcivescovi, metropoliti e vescovi, sono state decise dalla Chiesa, sono di diritto ecclesiastico. Ma è sempre stato così? Ecco che anche la storia, oltre alla filosofia, si fa ancilla theologiae. Un confronto meramente teologico non farebbe che riproporre all’infinito la contrapposizione delle rispettive argomentazioni, entrambe supportate dalle classiche – e non probanti per la controparte - autorità bibliche e patristiche. Nell’ausilio invece dell’indagine storica, la prassi può illuminare la teoria ed anzi credo che proprio nell’esperienza del passato stia la chiave per risolvere nel futuro, quando Dio vorrà, i problemi del presente. Si può pertanto dire che, se la teologia divide, la storia unisce (nonostante proprio le vicende del passato abbiano messo in luce tanta ostilità, tanta supponenza, tanti pregiudizi, tante chiusure mentali dall’una e dall’altra parte). Infatti all’attivo della storia, se così si può dire, c’è l’esperienza di comunione del primo millennio, quando le specificità teologiche e le peculiarità ecclesiologiche delle due parti della cristianità si erano già manifestate, senza in alcun modo compromettere l’unità della Chiesa. Di storia allora io parlerò questa sera - io che cerco di fare lo storico e non vanto assolutamente competenze teologiche – nell’intento di ricostruire, attraverso la testimonianza delle fonti, la concezione che la cristianità ortodossa ha mostrato di avere, in ordine alla posizione del vescovo di Roma nella Chiesa universale, nel corso del primo millennio, quando le due Chiese vivevano ancora in piena comunione canonica e sacramentale. Non tratterò, si badi bene, della concezione ortodossa del primato di Pietro e della sua trasmissibilità, che è un tema prettamente teologico, anche se qualche spunto teorico al riguardo sarà indirettamente evidenziato nelle testimonianze relative alla prassi che verremo presentando.
1 Docente di Storia e Istituzioni della Chiesa Ortodossa presso l’Università di Bologna e diacono permanentedella Chiesa bolognese |
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1. La Pentarchia Il governo della Chiesa nel primo millennio si fonda su due criteri, apparentemente alternativi, ma che in realtà non si contraddicono ed anzi si compongono in una soluzione ad incastro, in virtù della quale la loro sovrapposizione non implica l’elisione di uno dei due. Questi due criteri sono il sistema della Pentarchia dei patriarchi e la posizione primaziale di Roma. Il primo soprattutto richiede oggi, trattandosi di una prassi e di una teoria di governo della Chiesa da tempo storicamente superata, un’adeguata presentazione. Esso consiste, come suggerisce la semantica greca del termine (“governo dei cinque”) nel riconoscimento alle cinque sedi maggiori della cristianità antica (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), oltre all’autorità direttamente esercitata sui rispettivi spazi giurisdizionali (l’occidente, la Tracia e l’Asia minore, l’Egitto e la Cirenaica, l’Asia – cioè la 3 Siria e il Libano – e le tre Palestine – Israele e Giordania), di una responsabilità collettiva in ordine all'ortodossia della fede ed al governo della Chiesa universale. Poiché tale ordinamento emerge per la prima volta come una realtà stabilmente istituita nelle Novelle giustinianee, si può dire che esso compare all'orizzonte istituzionale della Chiesa già nella pienezza delle sue funzioni. Proprio le Novelle infatti, e precisamente nel proemio della VI, dedicato alla gemmazione dell'unico indiviso potere divino nelle forme storiche della regalità e del sacerdozio, forniscono alla Pentarchia, anche in questo caso indirettamente, il quadro istituzionale di riferimento. Se infatti la regalità è, per definizione, monocratica, il sacerdozio è invece policentrico, ha una struttura che storicamente si è venuta qualificando a cinque vertici. La Pentarchia nasce precisamente nel momento in cui l'imperatore, unico detentore della regalità, scegliendo i titolari di queste cinque sedi come interlocutori per parte del sacerdozio, ratifica implicitamente un organigramma interno che la Chiesa si è data attraverso una evoluzione, segnata innanzitutto dalle delibere dei primi quattro concili, e gli annette valenze indubbiamente nuove di ordine ecclesiologico e di natura istituzionale. Per facilitare la comprensione e la memorizzazione di quello verrò presentando, mi pare opportuno anticipare a questo punto alcuni dati conclusivi, in ordine all’intersecarsi dei due principi quello pentarchico e quello del primato romano. a. Nella teoria e nella prassi relative a questo sistema pentarchico i cinque vertici del sacerdozio non sono sullo stesso piano: c'è un primo trono, quello di Roma, «vetta della montagna apostolica», il cui titolare, «capo di tutti i vescovi», è il vertice nell'ambito del vertice a cinque punte del sacerdozio. b. Se Pentarchia e primato romano non sono modelli ecclesiologici alternativi, si riscontra tuttavia una versione "pentarchica" del primato romano non certo coincidente con quella romana in auge nel tempo che precede, accompagna e segue la piena operatività di questa forma di governo della Chiesa universale. Il primato romano è un elemento già presente nella legislazione imperiale ben prima che compaia il sistema pentarchico, come risulta dal Codice Teodosiano, (Novella XVII di Valentiniano III dell'8 luglio 445) che sancisce il primato di questa sede sulla triplice base del meritum dell'apostolo Pietro, della dignitas della città di Roma nonché dell'auctoritas di una non precisata sinodo che avrebbe interdetto la «inlicita praesumptio» di «quid adtemptare... praeter auctoritatem sedis istius». Esso verrà di nuovo a più riprese ratificato dalla successiva legislazione imperiale pressoché simultaneamente alle disposizioni che definiscono il ruolo dell'istituzione pentarchica, sino ad esserne riconosciuto un elemento costitutivo. Senonché, se la Pentarchia presuppone il primato romano, le diverse accezioni in cui esso è inteso a Roma ed in oriente autorizzano a parlare di un inespresso equivoco pentarchico persistente per tutto il tempo in cui la responsabilità collettiva delle cinque sedi patriarcali nel governo della Chiesa universale fu effettivamente esercitata. 4 c. La Pentarchia, come ideale e metodo di governo, corrisponde ad un periodo preciso, ad una fase limitata nel tempo e ad un certo punto esauritasi nella vita della Chiesa. Trattandosi della struttura ecclesiastica caratteristica della Chiesa imperiale, essa presuppone ovviamente l'esistenza dell'impero e, fondandosi sull'istituzione patriarcale, presuppone altresì che l'organigramma delle cinque sedi sia completo. Se pertanto, in senso puramente teorico, l'arco di vita della Pentarchia si estende ad un intero millennio, dal 451 - anno di Calcedonia - al 1453 - anno della caduta dell'impero -, praticamente esso è ben più ristretto. Dal costituirsi del collegio dei cinque patriarcati, non ancora tecnicamente così definiti, all'attribuzione ad esso di specifiche competenze, disciplinari e dogmatiche, nella guida della Chiesa ecumenica, deve passare circa un secolo. Con la fine dell'unità religiosa tra oriente e occidente, definitivamente consumatasi, anche nella coscienza ecclesiale, all'inizio del XIII, tale istituzione aveva già perso non soltanto di attualità, ma anche di senso. Persino tra questi due estremi già più ravvicinati il periodo di effettivo funzionamento del sistema pentarchico nella dinamica religiosa della Chiesa imperiale fu in realtà ancora più ridotto: lo si potrebbe porre, a stretto rigore, dall'età giustinianea all'estinguersi della dinastia di Eraclio. In tal senso si può dire che il sistema pentarchico è la forma di governo della Chiesa caratteristica di due secoli avanzati dell'età tardo-antica, il VI ed il VII. La storia della Pentarchia è tuttavia più lunga della sua vita reale e si può pertanto suddividerla, nel corso del primo millennio, in due momenti. a. Il primo è appunto il periodo della Pentarchia reale, cioè quello dell'effettivo funzionamento di questa istituzione. È la fase in cui, come è stato acutamente osservato da Gilbert Dagron, la Pentarchia è una prassi senza teoria, in quanto alle cinque sedi maggiori del sacerdozio è riconosciuto il ruolo di interlocutore collettivo della regalità, senza il supporto di particolari giustificazioni sul piano ecclesiologico. b. Durante la seconda iconomachia - all'inizio pertanto del IX secolo - si assiste, soprattutto ad opera del patriarca Niceforo e di Teodoro Studita, ad una tardiva eleborazione di una vera e propria, anche se non sistematica, ecclesiologia pentarchica, proprio quando questa forma di governo collegiale della Chiesa risulta nei fatti difficilmente praticabile per la sopravvenuta estraneità dei tre patriarcati orientali alla diretta sovranità dell'impero a motivo dell'invasione islamica. Ciò vale soprattutto per le sedi di Alessandria e di Antiochia; nella misura in cui Gerusalemme riesce ad interagire con Roma e con Costantinopoli, tramite i nuclei monastici palestinesi stanziati in occidente e l'invio di rappresentanti alle autorità ecclesiastiche delle due Rome, si può dire che la Pentarchia si è ridotta di fatto ad una triarchia. É il momento in cui la Pentarchia, osserva questa volta il Dagron, è una teoria senza più prassi. Noi diremmo che è il periodo della Pentarchia virtuale. |
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2. La Pentarchia reale 5 Nel primo momento, quello della Pentarchia in atto, un tentativo di delineare il ruolo di Roma nell'ambito di questa istituzione dovrà pertanto fondarsi, nell'assenza di elaborazioni teoriche, sull'esame del rituale istituzionale della Pentarchia, cioè sulle forme ordinarie e straordinarie degli strumenti di comunione tra le cinque sedi patriarcali e soprattutto sui titoli ufficiali e gli epiteti ideologici attribuiti in questo periodo dalle altre sedi a quella romana. a. Roma nel rituale istituzionale della Pentarchia Gli strumenti ordinari di comunione del vertice a cinque punte del sacerdozio al suo interno e con la regalità sono quattro: due, l'istituzione dell'apocrisiario romano ed il provvedimento di conferma dell'elezione patriarcale da parte dell'imperatore, riguardano il rapporto della sede romana con il sovrano e due, le lettere sinodali, con la professione di fede del neopatriarca, e i dittici, leggendo i quali ogni patriarca esprime liturgicamente la comunione con gli altri, riguardano invece il mutuo rapporto dei titolari delle cinque sedi ecumeniche. Le forme straordinarie di comunione sono a loro volta due, precisamente la presenza dei topotereti romani ai concili - rappresentanti temporanei del papa, mentre l'apocrisiario lo è in forma permanente - ai quali viene attribuito un ruolo primaziale, nonché i viaggi dei papi a Costantinopoli. Quello di apocrisiario è un ufficio che presuppone la lontananza e la stabilità nelle rispettive residenze delle due autorità, ecclesiastica e civile, necessitate a mantenersi in continuo contatto. Espressione caratteristica dell'afferenza della Chiesa romana al sistema ideologico-culturale dell'impero romano cristiano, esso rappresenta l'istituzione propria della chiesa imperiale e si inquadra perfettamente nella forma di governo pentarchico della Chiesa: non è un caso che essa sia espressamente contemplata per la prima volta nella legislazione giustinianea. L'apocrisiario romano è normalmente un diacono romano residente a Costantinopoli, che ha la dimora ufficiale nel palazzo di Placidia, già alloggio nella capitale dell'arcivescovo Teofilo d'Alessandria e dove prendono dimora anche i topotereti romani ai concili che si svolgono a Costantinopoli. Egli è rappresentante del suo patriarca presso il sovrano e non presso la sede costantinopolitana, anche se di fatto funge pure da canale normale per le relazioni tra il papa ed il patriarca. La lettera di conferma imperiale all'elezione papale è lo strumento che forse più di ogni altro mette in evidenza l'inquadramento della sede romana nel sistema ideologico-religioso dell'impero. Se il rescritto imperiale di Costantino IV del 684-85 al clero, al popolo ed all'esercito di Roma abolì formalmente l'obbligo della ratifica imperiale alla nomina papale, in realtà confermò l'essenzialità di questa misura, demandandola all'esarco ravennate, suo rappresentante in Italia, unicamente perché la consacrazione del nuovo papa avvenga «absque tarditate». Peraltro già una prima conferma dell'elezione doveva venire dall'esarco, mentre il prefetto di Roma provvedeva ad inviare nella capitale la documentazione canonica del neoeletto per la ratifica imperiale. 6 Il neoeletto doveva anche pagare una tassa di elezione, soppressa nel 681, su richiesta di papa Agatone, da Costantino IV, che nel rescritto conferma l'obbligo per il nuovo papa, sancito da una «antica consuetudine», di attendere la conferma imperiale per ricevere la consacrazione. Con il termine sinodiche intendiamo sia le lettere sinodiche vere e proprie - ma dette anche sistatiche o intronistiche -, così chiamate in quanto inviate dall'organismo collegiale che aveva eletto il nuovo patriarca e dal neoeletto, che vi univa la propria professione di fede, ai titolari delle altre sedi, sia le risposte di questi ultimi, chiamate propriamente antisinodiche, che, riconoscendo l'ortodossia del neoeletto, lo accoglievano nella piena comunione di fede. Questo scambio epistolare, momento fondante la comunione ecclesiastica in regime pentarchico, era assolutamente previo a qualsiasi relazione ufficiale con il nuovo titolare di una sede patriarcale precedentemente vacante. Esso suggellava la legittimità della successione episcopale, coinvolgendo direttamente le altre sedi apostoliche, garanti dell'unità dei vertici del sacerdozio nella professione della fede ortodossa, soprattutto cristologica. I dittici, contenenti l'elenco del patriarchi vivi e defunti che i colleghi della Pentarchia si impegnavano a commemorare liturgicamente. , rappresentano l'epifania liturgico-sacramenatale dell'unanimità nella fede e della piena comunione ecclesiale tra le cinque sedi ecumeniche la cui concordia garantisce l'indefettibilità della dottrina. Per quanto riguarda il ruolo primaziale della sede romana come viene testimoniato da quella forma straordinaria di partecipazione al governo pentarchico della Chiesa che fu l'istituzione dei topotereti, cioè i luogotenenti delle sedi patriarcali ai concili ecumenici, basterà, in quanto campione particolarmente significativo per la cronologia della Pentarchia reale, considerare l'accurata descrizione che il Liber pontificalis romano ci ha lasciato dell'accoglienza a Costantinopoli dei topotereti romani al concilio del 680-681, il sesto ecumenico. Ricevuti dal sovrano nella chiesa palatina di S. Pietro,, essi vengono alloggiati, a spese di quest'ultimo, nel palazzo di Placidia e, nella processione alla chiesa delle Blacherne, siedono su cavalli bardati (« Nelle sedute conciliari hanno il primo posto nell'ordine di precedenza e, di conseguenza, firmano per primi il logos prosfonetico all'imperatore e il decretodogmatico, come risulta negli Atti conciliari dagli elenchi dei partecipanti e dall'ordine delle firme in calce ai documenti. A suggello liturgico dell'onore riconosciuto alla sede di Roma nell'ambito della Chiesa imperiale, anche in presenza di altri membri del collegio pentarchico, il 21 aprile 681, ottava di Pasqua, al vescovo Giovanni di Porto, membro della delegazione romana, fu chiesto di celebrare in latino la divina Mistagogia nella Grande Chiesa di S. Sofia, davanti a due patriarchi, Giorgio di Costantinopoli e Macario di Antiochia, ed all'imperatore. Del resto che tra il titolare della regalità ed il primo referente del sacerdozio sia effettivamente presupposto un legame spirituale, evidente riflesso delle 7 rispettive posizioni istituzionale, lo mostrerà anche il cerimoniale di corte, registrato nel X secolo da Costantino VII Porfirogrenito, che attribuisce al papa di Roma - nelle parole rivolte ai suoi legati sia dal sovrano stesso sia dal logoteta che li interroga - il titolo di padre spirituale dell'imperatore. Le formule riservate ai patriarchi di Alessandria di Antiochia e di Gerusalemme, mostrano infatti che questi altri membri del collegio pentarchico non godevano di tale prerogativa. |
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b. Scenari da Pentarchia La più straordinaria tra le forme non ordinarie di esercizio del governo pentarchico della Chiesa è indubbiamente rappresentata dai viaggi dei papi a Costantinopoli, anche se, a dire il vero, nel secondo quarto del VI secolo - proprio all'inizio pertanto della Pentarchia in atto - essi avevano assunto una cadenza decennale, divenendo quasi eventi periodici nell'ordinaria dinamica ecclesiale. L'unità delle due Rome, mai compromessa sul piano ideale, si esprime visibilmente, in questi eventi, nell'incontro del referente della regalità con il più alto referente del sacerdozio e questo incontro si sostanzia di gesti ideologicamente significativi, di celebrazioni liturgiche emblematiche, in cui i presupposti ideologici e le concezione ecclesiologiche occasionalmente si materializzano, dando vita a fugaci "scene da Pentarchia". Tutto in questi viaggi sembra calibrato in base alla taxis che sovrintende ai rapporti interni ai due ordini giuridici (regalità e sacerdozio) e agli organigrammi ecclesiastici: è questa la chiave di lettura più corretta dell'evento, al fine di evitare strumentalizzazioni, o almeno fraintendimenti, dai quali non sembra immune neppure la fonte romana più vicina ai fatti, il Liber Pontificalis, così sollecita nell'informarci sui particolari dell'accoglienza che la capitale riserva all'illustre ospite. L'accoglienza che «tutta la città» riserva a papa Giovanni I nel 526, andandogli incontro al quindicesimo miglio con ceri e croce, è ascrivibile, più che all'onore per gli apostoli Pietro e Paolo - come si premura di sottolineare il Liber Pontificalis - al ruolo specifico del papa romano come «capo delsacerdozio». Si tratta di un vero e proprio adventus sacerdotale, parallelo, nella valenza ideologica e nelle modalità esteriori, a quello imperiale, come fa intendere anche la notazione della stessa fonte che la folla accorsa all'arrivo di papa Vigilio nella capitale nel 546, lo accompagna a S. Sofia al canto dell'acclamazione «Ecce advenit dominator Dominus». Precisamente a questa sua qualifica, che lo pone al vertice della Pentarchia, si deve che il sovrano gratifichi il papa della proskynesis strettamente riservata allasua stessa persona. Così leggiamo - sempre nel Liber Pontificalis - che Giustino nel 526 «adoravit beatissimum Iohannem papam» e Giustiniano II nel 711 «cum segno in capite prostravit» davanti a papa Costantino I. In entrambi i casi non si tratta di una professione d'umiltà, come interpretano i redattori romani - «humiliavit se prorsus», si legge a proposito di Giustino e si parla di «tanta humilitas boni principis» a proposito dell'analogo gesto del Rinotmeto - ma di 8 un rituale attentamente calibrato nel quadro dei rapporti tra i due ordini giuridici della regalità e del sacerdozio. In tale prospettiva si spiega anche la decisione di Giustino di farsi incoronare «cum gloria» da papa Giovanni: pur avendo il sovrano già ricevuto la corona dalle mani del patriarca ecumenico nel luglio 518, l'incoronazione da parte del «vertice del sacerdozio» rappresentava logicamente l'optimum normativo in ordine alla piena legittimazione del vertice dell'impero. Non meno indicative, in ordine, questa volta, alla scala gerarchica interna alla Pentarchia, risultano le grandi celebrazioni liturgiche presiedute dal papa nella sede stessa - o almeno nell'area di pertinenza - della giurisdizione patriarcale della Nuova Roma, dalla liturgia pasquale celebrata da papa Giovanni I in S. Sofia «plena voce romanis precibus» a quella officiata da papa Costantino I a Nicomedia. Nel corso di essa il princeps, Giustiniano II, si comunica «ab eius manibus», a suggello di un quadro prettamente "sinfonico" in cui il titolare dell'imperium riceve il pane consacrato, in quanto primo dei fedeli, direttamente dalle mani del primo dei sacerdoti, al quale peraltro ha ingiunto, in virtù delle proprie prerogative, di raggiungerlo in Oriente. Con l'arrivo del vescovo dell'Antica Roma nella Nuova, dove risiede un altro « patriarca dell'ecumene » - papa Costantino I viene accolto al settimo miglio dalla città, oltre che dal coimperatore Tiberio, anche dal patriarca Cirro -, si verifica la compresenza, sia pure temporanea ed eccezionale, dei due più alti referenti del sacerdozio. Alcuni eventi sino ad allora inusitati, verificatisi in quelle occasioni e registrati dalle fonti coeve, anche costantinopolitane, ci documentano un puntuale rispetto per l'organigramma interno alla Pentarchia. Appena giunto nella capitale, papa Agapeto ottiene da Giustiniano la rimozione del patriarca costantinopolitano Antimo, di orientamento teologico anticalcedoniano, col pretesto della sua anticanonica traslazione dalla sede metropolitana di Trebisonda. Quando a succedergli sarà eletto il prete e xenodoco Mena, sarà il papa, come suo unico superiore nel sacerdozio, a consacrarlo vescovo ed a intronizzarlo, al posto del metropolita di Eraclea, sulla cattedra patriarcale della Grande Chiesa. Nella lettera di Agapeto al patriarca Pietro di Gerusalemme il papa stesso non manca di sottolineare l'eccezionalità dell'evento, richiamando le leggendarie consacrazioni di vescovi orientali compiute dall'apostolo Pietro - dopo le quali l'Oriente cristiano non avrebbe più avuto vescovi «consacrati dalla cattedra» petrina - ed enfatizzando la duplice valenza del gesto, illustrante ad un tempo sia la dignità della sede del consacrante sia le qualità personali del consacrato. È significativo che il termine con cui, in questa stessa lettera, il papa definisce la natura del suo intervento contro Antimo - «abbiamo rimesso in riga la tracotanza della cattedra che è in Costantinopoli» -, sia stato ripreso letteralmente, proprio in ambito costantinopolitano, nella Vita breve del patriarca Mena, donde è passato in una nota di Sinassario italo-greca dedicata a questo santo. 9 Il quadro dei rapporti fra i titolari delle due Rome, in questo VI secolo ritmato da così frequenti visite papali nella capitale, non appare più così idilliaco, soprattutto nelle seriori fonti cronachistiche costantinopolitane che, con sguardo retrospettivo, riferiscono i medesimi eventi. A proposito dell'arrivo di Giovanni I a Costantinopoli, Teofane registra un contrasto con il patriarca Epifanio proprio sull'ordine di precedenza: il papa rifiuta di assidersi su di un trono di pari dignità con il presule costantinopolitano e pretende un posto che manifesti la sua posizione primaziale. Il cronista dipende per questa notizia da uno scritto costantinopolitano dell'inizio del secolo – siamo nel IX -, il cui autore, che si presenta come un prete di nome Procopio, presente a Costantinopoli all'arrivo di Giovanni I, avrebbe compilato questo testo proprio per dimostrare al papa che, nonostante egli pretendesse la precedenza liturgica su Epifanio di Costantinopoli, in realtà la Nuova Roma era ecclesiasticamente anteriore all'Antica, in quanto Andrea aveva istituito Stachis protovescovo di Bisanzio prima del protoepiscopato petrino a Roma. Secondo questa fonte costantinopolitana il papa non avrebbe negato la priorità cronologica dell'episcopato bizantino su quello romano, ma avrebbe però dichiarato che a fondamento del primato romano non c'era la preesistenza come sede episcopale, bensì la sua corrispondenza al ruolo primaziale del primo fra i primi degli apostoli. A loro volta le drammatiche vicende che contrassegnarono la permanenza di Vigilio a Costantinopoli e che videro nel 551 il papa strappato a viva forza dalle colonne dell'altare della chiesa di S. Pietro in Ormisda (dimora dell'apocrisiario) e trascinato con la corda al collo, fino a sera, per le vie della capitale, sono attribuite, in ambito costantinopolitano al risentimento di diverse controparti, a seconda della sensibilità ecclesiologica del momento. L'antiocheno Giovanni Malala, testimone degli eventi, pone l'episodio correttamente, anche se vagamente, in relazione a contrasti con Giustiniano, che noi sappiamo relativi alla condanna dei Tre Capitoli. Si sofferma poi a descrivere, a tinte assai vivaci, come il messo imperiale abbia afferrato il papa per la barba e come questi, nella sua resistenza, abbia divelto le colonne e trascinato l'altare nella sua caduta; dopo il ritiro del papa a Calcedonia, sarà sempre l'imperatore, ad accogliere di nuovo Vigilio nella capitale. Fonti costantinopolitane dell’inizio del IX secolo, come il cronista Teofane, attribuiscono invece l'incidente, in modo ecclesiologicamente significativo, ad un contrasto tra i due patriarchi, con una motivazione che potrebbe apparire singolare se non corrispondesse ad un topos scritturistico. Papa Vigilio a Costantinopoli si sarebbe infatti insuperbito, proprio per gli onori tributatigli da Giustiniano, e si sarebbe spinto a scomunicare il patriarca Mena, imponendogli una penitenza di quattro mesi, mentre il presule costantinopolitano, come ritorsione, avrebbe imposto al papa analoghe sanzioni. |
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c. Roma vista dagli altri: i titoli ufficiali 10 Per quanto riguarda i titoli istituzionali che vediamo riservati alla sede romana in questo primo periodo di effettivo governo pentarchico della Chiesa imperiale, essi mi sono sembrati esemplarmente compendiati in due espressioni. La prima è la presidenza apostolica (apostolikè proedria), che il patriarca Giovanni VI riconosce nel 713 a papa Costantino. Essa non allude necessariamente alle origini petrine: anzi, a fronte della frequenza con cui Roma viene definita, nella corrispondenza ufficiale dall’oriente, trono apostolico, il richiamo all’apostolo fondatore della Chiesa romana è decisamente infrequente, almeno fino al concilio del 680-81. Proprio in questa sede - dopo che nel 642-43 Sergio di Cipro aveva applicato direttamente al papa il loghion mattaico sulla promessa del primato - il passaggio delle prerogative dell' apostolo ai suoi successori sulla sede romana viene affermato con un procedimento prolettico, trasferendo all' apostolo lati tolatura di cui gode la Chiesa di Roma nel concerto delle Chiese: vediamo così l' imperatore Costantino IV professare nella lettera al papa di avere visto in lui «con la vista intelletuale nientemeno che Pietro, l' esarco del coro degli apostoli e titolare della prima sede, che teologizzava il mistero dell' economia». Al titolo petrino per eccellenza, esarco del coro degli apostoli, equivalente qui a primo dei due capicoro (protokoryphaios), si aggiunge quelloecclesiastico-giurisdizionale, proprio del vescovo di Roma ( titolare della primasede): sembra quasi che Pietro stesso, anziché essere lui a determinare, come apostolo fondatore, la posizione primaziale della sede romana, goda di riflesso del primato ecclesiasticamente riconosciuto alla Chiesa da lui fondata. Il termine |
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d. Roma vista dagli altri: le metafore Ancor più significativi, in ordine al ruolo specifico della sede romana in tutta l'ecumene cristiana e, di riflesso, nella Pentarchia, sono i titoli, non più relativi alla dimensione istituzionale, bensì di carattere metaforico. Sono essenzialmente due, quello di kephalè, testa, e quello di koruphè, vetta. La metafora del capo, di evidente matrice neotestamentaria, viene applicata alla sede romana già dal canone di Sardica, che prevede che i vescovi facciano riferimento «ad Petri apostoli sedem» come «ad caput»; essa sarà poi ampiamente divulgata da Giustiniano, che definisce Roma «caput... omnium ecclesiarum» e il suo vescovo «caput omnium sanctissimorum Dei sacerdotum». Il famoso editto di Foca del 607, che definirà anch’esso Roma «caput omnium ecclesiarum» e che così larga eco ebbe in occidente, come ci testimonia la notizia che ne diedero il Liber Pontificalis romano, l'opera cronachistica di Beda e quella storica di Paolo Diacono, va letto in stretta continuità con la terminologia giustinianea, perdendo così molta della sua asserita problematicità. Dalla metà del VII secolo tale 12 metafora sarebbe divenuta topica nella fraseologia ufficiale in transito dalla Nuova all'Antica Roma. Quando la metafora ecclesiologica del capo viene applicata non già al corpo della Chiesa (la cui testa è, per autorità neotestamentaria, il Cristo stesso) bensì al sacerdozio, come già nella Novella 131, del 545, essa attribuisce a Roma una primazialità proprio nell'ambito di quel collegio pentarchico che, nel suo complesso, rappresenta, a fronte della regalità, la funzione del sacerdozio. Nell’epistola apologetica del patriarca Giovanni VI a papa Costantino, del 713, la prerogativa di Roma di essere la «testa del sacerdozio cristiano» viene giustificata con il ricorso all'espressione «a termini di normativa canonica»: ciò implica la sua dipendenza da un determinato organigramma che la Chiesa si era già autonomamente attribuito, prescindendo apparentemente dall'apostolicità petrina, sulla base di un sostanziale adattamento delle sue strutture alle categorie storico-culturali dell'impero. Valore analogo hanno le metafore della vetta, o della cima, e della sorgente, applicate sempre a Roma, nel riordino legislativo giustinianeo, e sempre in relazione non già alla Chiesa, ma al sacerdozio. Il duplice attributo papale di «scaturigine e culmine del sacerdozio» verrà compendiato, nel secolo successivo, in un titolo che esprime, con tutta l'intesità del genitivo accrescitivo, il grado di eccellenza assoluta nel sacerdozio riconosciuto al patriarca dell'Antica Roma: egli viene infatti salutato, nel libello presentato dagli igumeni greci di Roma alla sinodo lateranense del 649, come sacerdote dei sacerdoti. Ci pare significativo che nei titoli cristologici in uso nel cristianesimo ortodosso, quello relativo alla regalità del Cristo corrisponda al genitivo intensivo, re dei re, mentre quello relativo alla sua sovraeminente dignità sacerdotale sia non già sacerdote dei sacerdoti, ma sempre grande sommo sacerdote, in un senso cioè che pone in evidenza non solo la sua eccellenza nei confronti del sacerdozio ebraico, ma anche e soprattutto il suo carattere di fonte primaria del sacerdozio cristiano. |
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3. La Pentarchia virtuale La Pentarchia, già messa alla prova nel suo effettivo funzionamento dall'invasione islamica dell'oriente cristiano a partire dalla seconda metà del VII secolo, venne anche ideologicamente messa in crisi, nel secolo successivo, dagli imperatori iconomachi, la cui prospettiva ecclesiologica si rivela, da vari indizi, totalmente estranea a questa antica istituzione della Chiesa tardo-antica. Lo schema ideologico-politico di questi sovrani pare orientato a rompere la consonanza tra impero e sacerdozio: essi riprendono infatti, enfatizzando le proprie prerogative religiose, il modello inaugurato dagli imperatori monoteliti del VII secolo di un sovrano assimilato al genesiaco Melchisedec nel riunire in sé la regalità ed un sacerdozio. Le loro misure legislative promuovono inoltre la perfetta coincidenza tra i confini effettivi dell'impero e l'ambito giurisdizionale del patriarcato di Costantinopoli, quasi assimilando a quest’ultimo l’intera Chiesa imperiale. Si comprende allora come l'ecumenicità della sinodo 13 iconomaca di Hieria del 753 sia rivendicata sulla pretesa continuità dottrinale di questa assemblea con i sei precedenti concili ecumenici, lasciando cadere il requisito della presenza dei rappresentanti di tutte e cinque le giurisdizioni patriarcali. Sarà precisamente l'esigenza di negare l'ecumencità di Hieria, per affermare quella della sinodo nicena del 787, a determinare la rivendicazione della perenne validità della struttura pentarchica della Chiesa ed anzi a produrre - da parte dei polemisti iconofili, principalmente Niceforo di Costantinopoli e Teodoro Studita - l'elaborazione organica di una teoria pentarchica, proprio quando tale realtà è ormai un fenomeno puramente virtuale. |
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a. Roma nella Pentarchia secondo Niceforo il Confessore Anche se il ruolo di Roma appare in Niceforo indubbiamente ridimensionato, la Pentarchia presuppone comunque un primato di Roma. La sua ecclesiologia tradisce però una concezione sostanzialmente egualitaria della Pentarchia, implicita nella sottolineatura che nella Chiesa non si dà priorità di sedi e che i cinque patriarcati hanno tutti, nella dinamica conciliare, un ruolo di presidenza. La loro symphonia, espressione dell'unità di tutta la Chiesa, e la loro comune deliberazione, vera regola della fede, rappresentano il criterio essenziale per la legittimità canonica di un concilio, entro un quadro normativo fatto globalmente risalire a tutte le fonti del diritto ecclesiastico. Niceforo contempla la possibilità che su uno dei cinque troni possa insediarsi un titolare eterodosso. In tal caso egli ritiene sufficiente il consenso degli altri quattro patriarchi per anatematizzarlo e quindi privarlo di legittimità. Quando poi non si registra tra le sedi patriarcali l'unanimità di consenso in ambito dottrinale, valido di per sé a definire la retta fede anche al di fuori del contesto conciliare, è la fede romana a costituire il parametro dell'ortodossia e a diventare normativa, in quanto garanzia sufficiente di comunione con il pleroma ecclesiale. A complemento della posizione primaziale riconosciuta a Roma in ambito dottrinale, Niceforo riprende il concetto tradizionale del papa romano come primo nel sacerdozio:scrive infatti che questi ne è l’esarco, ha cioè il primo rango nel sacerdozio. La novità consiste semmai nel fatto che egli fonda tale prerogativa sulla dignità di cui gode l'apostolo Pietro all'interno del collegio apostolico. È così stretta l'analogia tra la relazione Pietro-apostoli e quella papa-sacerdotes, cioè vescovi, che anche Niceforo indulge alla "prolessi dei titoli": il rapporto di Pietro con gli altri apostoli viene infatti anche da lui espresso con termini propri del lessico ecclesiastico. Pietro è il primate (cioè presidente nel senso di presedente, proedros) dei discepoli, colui che fruisce, nei loro confronti, del primo rango. |
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b. Roma nella Pentarchia secondo Teodoro Studita L’aspetto qualificante il pensiero dello Studita è l’enfasi su Roma come “interim dell’ortodossia”, cui «è rimesso il potere del concilio», com'egli scrive al sakellarios Leone. Questo potere comporterebbe, a parere di Jean Gouillard,in circostanze straordinarie, la duplice facoltà sia di sanzionare l'ecumenicità di 14 un concilio, inizialmente privo di qualcuno dei requisiti necessari, sia di dispensare dal ricorso al concilio per la definizione della fede ortodossa. Teodoro è portato dall'emergenza nella Chiesa, a sottolineare la prerogativa straordinaria del papato di essere succedaneo del concilio. L’affermazione, nella stessa lettera, che da Roma viene la certezza della fede sembra da intendersi nel senso che il papa in questi suoi pronunciamenti dottrinali esprime in realtà la fede dei cinque patriarcati, che è la fede della Chiesa, indipendentemente dal fatto che uno di essi sia occupato da un titolare eterodosso. In quest'ultima eventualità Teodoro prevede esplicitamente che egli venga corretto dai suoi pari e non da Roma soltanto. L'arbitrato di Roma non è pertanto isolabile dal contesto pentarchico, che è poi quello della Chiesa universale. La vigorosa accentuazione in senso petrino dell'apostolicità romana non può considerarsi separatamente dal quadro ecclesiologico delineato da Teodoro con l'intreccio dei titoli e delle metafore, nel gioco delle graduazioni e delle sovrapposizioni. Nella Chiesa, corpo del Cristo, di cui Egli è il capo, ogni figura che ha autorità è una testa (kephalè) e una vetta (koryphè). Per i patriarchi l'attributo generico di koryphai richiede una specificazione, quella di vertici della gerarchia, e il corpo della Chiesa viene perciò detto a cinque vertici ed anche il suo potere è a cinquevertici , in quanto queste cinque sedi apostoliche hanno collettivamente ereditato il potere conferito dal Cristo al collegio apostolico di legare e di sciogliere. In virtù di questo stesso mandato conferito personalmente a Pietro, il vescovo di Roma è, tra questi pastori, «l’arcipastore di tutta la Chiesa sotto il cielo», come il Cristo evidentemente lo è dell'intera Chiesa terrestre e celeste. |
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c. Roma nella Pentarchia per l’ecclesiologia dei concili del IX secolo La "crisi foziana" ci testimonia l'iniziale coesistenza di posizioni minimaliste e massimaliste in ordine al ruolo di Roma nella Pentarchia. Nelle due sinodi costantinopolitane dell'869-70 e del 879-80, esse continuano ad integrarsi vicendevolmente in una dinamica che non segue necessariamente i "partiti" ecclesiastici, ma divide trasversalmente gli schieramenti. Si potrebbe anzi aggiungere che al concilio dell'879-80 - come hanno intravvisto sia il cattolico Peri sia l’ortodosso Pheidas - le due sensibilità ecclesiologiche furono in grado di raggiungere un precario equilibrio, anche se la ratifica conciliare di una sostanziale diarchia tra le sedi delle due Rome avrebbe segnato inesorabilmente la fine della Pentarchia anche nella sua dimensione virtuale. Nell'assise dell'869-70 il patrikios Baanes, rappresentante imperiale al concilio, ripropone fedelmente la dottrina sull'origine divina della Pentarchia ed applica a tutti e cinque i patriarchi la qualifica di "capo della Chiesa" (altrimenti riservata al papa), nonché la promessa di indefettibilità della Chiesa contenuta nel loghion mattaico, interpretandola nel senso che alcuni resteranno comunque fedeli alla fede ortodossa (tre o almeno due su cinque). Ravvisa anche la possibilità che la retta fede sopravviva in uno soltanto, ma evita significativamente di precisare che questo sarebbe comunque quello romano, 15 "città di rifugio" dell'ortodossia perseguitata, come avevano teorizzato i teologi iconofili. Per converso il patriarca Ignazio - nella sua lettera scritta al papa Nicola I nell'868 e letta alla terza sessione del concilio - enfatizzava proprio quest'ultimo aspetto, coniando per il papa di Roma una nuova metafora, quella di medico («unum et singularem praecellentem atque catholicissimum medicum») per il corpo divino-umano di Cristo, che è la Chiesa, in preda alla febbre dell'eresia ed al disordine canonico-disciplinare. Al concilio, riunitosi esattamente dieci anni dopo, si trovano a confronto non già due ecclesiologie costantinopolitane, rispettivamente minimalista e massimalista per quanto riguarda il primato romano, bensì quella più gelosa delle prerogative patriarcali, ora propria dell'ambiente foziano, e l'ecclesiologia romana, esposta però dai legati papali in termini comparativamente misurati. Il successo di questo concilio d'unione è probabilmente dovuto all'incontro di due diverse forme di moderatismo. L'approccio moderato di Fozio al problema del primato romano è stato individuato da Frantisek Dvornik attraverso l'analisi delle modifiche apportate - o meglio, non apportate - dalla cancelleria patriarcale alle lettere papali arrivate in oriente, al momento della loro traduzione in greco. Tale indagine, anche se condotta per via indiretta - in quanto considera non già ciò che il patriarca dice, bensì ciò che lascia dire al papa - consente di pervenire a conclusioni significative. Mentre infatti vengono puntualmente espunte le censure papali nei confronti di Fozio, non altrettanto avviene per l'enfasi posta dal papa, nella lettera all'imperatore, sulle prerogative della propria sede. Quella di essere "a capo di tutte le Chiese" viene sì trasferita, nell'adattamento foziano, dal papa a Pietro, ma nondimeno è conservata la rivendicazione, per il trono apostolico romano, del potere petrino di legare e sciogliere, nonché l'universalità dell'estensione del suo diritto d'intervento, «fin dove può senza incorrere nel biasimo e nella condanna», in tutte le Chiese. La lettura sostanzialmente minimalista del primato romano, affermatasi nella pars Orientis dopo la vittoria di Fozio, emerge piuttosto dalla reazione negativa dei primi metropoliti del trono ecumenico all’affermazione dei legati che la Chiesa della Nuova Roma era stata pacificata dall’intervento dell'Antica. Anche in questo contraddittorio si percepisce tuttavia come i legati romani, rivendicando il primato della propria sede in termini inaspettatamente "pentarchici", abbiano ripreso, in questo scorcio finale della fase da me definita della "pentarchia virtuale", la prospettiva ecclesiologica tipicamente orientale al tempo della "pentarchia reale". Questo revival pentarchico comporta una ripresa, anche da parte dei legati romani, di un linguaggio arcaico, testimoniato dall’espressione papa ecumenico, già caratteristico del sentire pentarchico dell'oriente pre-iconoclastico e del tutto inconsueto su labbra occidentali. La "restaurazione pentarchica" formalmente promossa da questo concilio è tuttavia espressione di un modello di Chiesa sostanzialmente incompatibile con i presupposti teorici e le modalità pratiche di questa istituzione. La pentarchia delineata dal concilio dell'879-80 si regge infatti sul principio dell'isotimia, cioè 16 della parità nelle prerogative, tra la due Rome, almeno come linea di tendenza in via teorica e come dato di fatto nel concreto della dinamica ecclesiale. Fozio non esita a definire il papa, nell'accogliere i legati romani, suo "padre spirituale", secondo una terminologia ancora una volta pentarchica e riservata protocollarmente al rapporto tra il rappresentante della regalità (l'imperatore) edil vertice del sacerdozio (il papa), ma nondimeno viene acclamato dai suoi vescovi, con l'esplicito assenso dei legati romani, «sorvegliante del mondo intero, a immagine del Cristo, arcipastore», con la sorprendente appropriazione di attributi imperiali. Questa tendenza all'isotimia tra Roma e Costantinopoli ha la sua più autorevole ratifica nel primo canone promulgato da questo concilio che prescrive il reciproco riconoscimento, da parte dei titolari delle due Rome, delle misure canonico-disciplinari da essi deliberate nei confronti di chierici e laici della propria giurisdizione, dovunque si trovino. I legati di Roma, in una dichiarazione fatta nel corso della quinta sessione dal cardinale Pietro, affermano che il papa Giovanni VIII ha conferito il potere di legare e di sciogliere, ereditato dall'apostolo Pietro, al patriarca Fozio. Proprio uno dei principali convincimenti a cui siamo pervenuti nella nostra analisi è che, sia nella prassi sia nella teoria pentarchica, le prerogative anche più esclusive della sede romana prendono le mosse da un potere condiviso. Ciò viene esemplarmente espresso, quasi ai limiti del paradosso, nella già ricordata locuzione dell'imperatore Costantino IV, contenuta nella sua lettera al papa del dicembre 681, dove la posizione rispetto a Roma dei restanti patriarchi è definita, con un'unica formula, come quella di consedenti insieme alla maestà papale e, nel contempo, di sedenti dopo di essa. La compresenza delle dueparticelle, insieme e dopo, oggettivamente in contraddizione, fornisce a questa relazione una coloritura per così dire "antinomica", precisabile con difficoltà già in via teorica e pertanto ancora di più nel concreto della dinamica dei rapporti ecclesiali. Nel contempo, nella Chiesa "imperiale" si registra una prolungata continuità, dagli imperatori Giustiniano e Foca, a Costante II ed a Giustiniano II, nel riconoscimento alla sede romana della prerogativa di "capo di tutte le Chiese". La valenza "filo-romana" di questa definizione, costantemente ribadita, viene oggettivamente ridimensionata non solo dalla sua stretta correlazione con la qualifica papale - assai più pentarchica - di "capo del sacerdozio", ma soprattutto dal fatto che la fondazione petrina della Chiesa di Roma non è che uno dei fattori determinanti la sua posizione particolare nell'ambito della Pentarchia. Tale prerogativa pare infatti in sinergia, quando non apertamente sostituita, con altri fattori, come la normativa canonica, nonché la motivazione, tipicamente giustinianea, che, come Roma è patria legum, allo stesso titolo essa è anche fonssacerdotii. A sua volta il carattere normativo della fede di Roma - scoperto nel pieno della crisi iconoclastica - non è mai isolabile dalla struttura pentarchica della Chiesa: come ogni patriarca non è isolabile dal corpo episcopale della sua 17 giurisdizione - e ne esprime il punto di vista collettivo normalmente in sede conciliare - così Roma non è isolabile dagli altri quattro patriarchi, ed anche in questo caso dà voce all'intero collegio pentarchico. |
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4. Conclusione Avrei finito, senonché si impone qualche parola conclusiva. Forse il mio intervento è risultato troppo tecnico e può avere deluso le vostre aspettative. Credo però che abbiate tutti compreso la complessità del problema, afflitto peraltro da molteplici semplificazioni. Avete avuto la prova che non è vero che la tradizione ortodossa non riconosca al vescovo di Roma alcun primato, oppure, come spesso si sente dire, che gli riservi solo un primato d’onore. D’altra parte sarebbe troppo facile ridurre tutto al problema dell’esercizio di questo primato, all’esigenza di trovare modalità nuove per il suo esercizio, compatibili con l’ecclesiologia orientale. Si tratta infatti di un problema di prassi e le difficoltà pratiche si possono felicemente risolvere soltanto dopo un previo chiarimento teorico. A monte di tutto c’è la questione, prima ancora che dell’estensione, dei limiti di questo primato, se sia di origine divina oppure di matrice ecclesiastica, e su questo punto le prospettive già divergevano nel primo millennio di comunione tra le due Chiese. Nel secondo millennio poi, quello della separazione, le due posizioni si sono venute radicalizzando e divaricando. La mia impressione personale è che, dal medioevo ad oggi, la radicalizzazione del rifiuto ha portato la Chiesa ortodossa a sottovalutare le ammissioni implicite, su questo punto, nella sua stessa tradizione e nell’insegnamento dei suoi Padri, mentre l’enfasi cattolica sul primato romano ha comportato in parallelo una sopravvalutazione delle prerogative inequivocabilmente riconosciute, nella teoria e nella prassi, al vescovo di Roma. Al terzo millennio incombe il compito arduo di un riequilibrio bilaterale e di una sintesi, nell’ambito del legittimo pluralismo teologico, in un approccio multidisciplinare, nel quale, accanto all’esegesi biblica ed alla teologia dogmatica, ci sia posto anche per la storia. Bibliografia essenziale CONTE P., Chiesa e primato nelle lettere dei papi del secolo VII. Con appendice critica, Milano 1971 (Pubblicazione dell'Università Cattolica del S. Cuore. Saggi e ricerche, III. Scienze storiche, 4) DE VRIES W., Orient et Occident. Le structures ecclésiales vues dans l'histoire des sept premiers conciles oecuméniques, Paris 1974 (Histoire des doctrines ecclésiologiques, 5)D VORNIK F., Byzance et la primauté romaine, Paris, 1964 (Unam sanctam, 49) GABHAUER F., Die Pentarchietheorie. Ein Modell der Kirchenleitung von den Anfängen biszur Gegenwart , Frankfurt am Main 1993 (Frankfurter Theologische Studien, 42)GARUTI A., Il papa patriarca d'Occidente? Studio storico-dottrinale, Bologna 1990 (Collectio antoniana, 2) GRUMEL V., Saint Nicéphore de Constantinople et la primauté romaine, in «L'Unité del'Église», n° 75, 1935, pp. 545-549 18 JOANNOU P.-P., Papes, conciles et patriarches dans la tradition canonique de l'Église orientale jusqu'au IXe siècle, in Discipline generale antique (IVe-IXe siècle), I, 2: Les canonsdes synodes particuliers , Grottaferrata (Roma) 1962 (Pontificia Commissione per la redazione del Codice di Diritto Canonico Orientale, Fonti, IX), pp. 489-550 MAGI L., La sede romana nella corrispondenza degli imperatori e patriarchi bizantini (VI-VII sec.), Roma-Louvain 1972 (Bibliothèque de la Revue d'Histoire Ecclésiastique, 57)M ARELLA M., La Pentarchia. Storia di un'idea, in «Nicolaus», II, 1974, pp. 187-193ID. , Roma nel sistema pentarchico: problemi e prospettive, in «Nicolaus», IV, 1976, pp. 99- 138 NICOL D. M., The Byzantine View of Papal Sovereignity, in The Church and Sovereignity, c.590-1918. Essays in Honouur of Michael Wilks , Ed. by D. WOOD, Oxford 1991 (Studies in Church History, Subsidia, 9), pp. 173-185 O'CONNELL P., The Ecclesiology of St Nicephorus I (758-828) Patriarch of Constantinople. Pentarchy and Primacy, Roma 1972 (Orientalia Christiana Analecta, 194)PERI V., La Pentarchia: istituzione ecclesiale (IV-VII sec.) e teoria canonico-teologica, in Bisanzio, Roma e l'Italia nell'Alto Medioevo, I, Spoleto 1988 (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, XXXIV), pp. 209-311 SALAVILLE S., La primauté de Saint Pierre et du Pape d'après Saint Théodore Studite, in «Échos d'Orient», XVII, 1914-15, pp. 23-42 STÉPHANOU P., Deux conciles, deux ecclésiologies? Les conciles de Constantinople en 869 et 879, in «Orientalia Christiana Periodica», XXXIX, 1973, pp. 363-407
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