00 25/11/2008 11:34

ISTRUZIONE SULLA GRANDEZZA (10, 41-45)

I discepoli dovranno capovolgere il comportamento abituale di coloro che sono in autorità e che governano con la forza, la loro nuova norma di condotta - essere servi di tutti - è resa possibile dalla stessa missione di servizio di Gesù.<o:p></o:p>

"Il Figlio dell'uomo è venuto per servire": l'uso del titolo "Figlio dell'uomo", che denota l'autorità di Gesù, accentua il paradosso della sua volontaria sottomissione.<o:p></o:p>

"Per dare la vita in riscatto": questa frase, modellata su Is. 53, 10-12 specifica il senso del servizio di Gesù come una morte espiatrice per tutti gli uomini. La rarità con la quale Gesù descrive la sua missione nei termini di Is. 53, e il fatto che questi testi si trovano unicamente nella fonte marciana, ha indotto Jeremias a supporre che Gesù abbia confidato la sua rivelazione soltanto ai suoi discepoli più intimi.<o:p></o:p>

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GUARIGIONE DEL CIECO BARTIMEO (10, 46-52)

Questo miracolo, assieme alla guarigione del cieco di 8, 22-26, prelude all'entrata messianica di Gesù in Gerusalemme.<o:p></o:p>

"Gerico": città giudaica a ca. 27 km. a nord est di Gerusalemme nella vallata del Giordano. Il corrispondente miracolo in 8, 22-26 è introdotto dalla identica informazione geografica.<o:p></o:p>

"Bartimeo": soltanto Marco ne indica il nome.<o:p></o:p>

"Cominciò a gridare": questa parola si riscontra in connessione con manifestazioni o riconoscimenti della trascendenza di Gesù (1,24; 3,11; 5,7; 11,9); ma per la prima volta questa rumorosa acclamazione di Gesù mediante l'uso di un titolo messianico è qui fatta da qualcuno che non è un demonio.<o:p></o:p>

"Figlio di Davide": questo titolo designa Gesù come l'erede della promessa fatta a Davide per bocca di Natan (2 Sam. 7, 12-16; 1 Cron. 17, 11-14; Sal. 89, 29-38).<o:p></o:p>

"Molti lo sgridavano": in 3,12 e 8,30 Gesù rimprovera e impone il silenzio; ma qui Gesù non mostra alcun risentimento per l'acclamazione di Bartimeo.<o:p></o:p>

"Che vuoi che io ti faccia?": la domanda di Gesù è la stessa da lui posta a Giacomo e Giovanni (10,36). La loro richiesta di posti di onore contrasta con l'umile richiesta di Bartimeo; ciò mostra che il cieco ha visto meglio di loro la vera natura dell'autorità regale di Gesù: si abbassa per servire.

IV. IL MINISTERO DI GESU' A GERUSALEMME

INGRESSO MESSIANICO A GERUSALEMME (11, 1-10)

Gerusalemme e il tempio sono il quadro nel quale avvengono gli ultimi episodi dell'attività pubblica di Gesù (capitoli 11-13). Gerusalemme e il tempio sono il cuore dell'ebraismo: è qui che dovrebbe avvenire l'accoglienza, invece è qui che si consuma il rifiuto.<o:p></o:p>

Il racconto di Mc. è succinto ma esprime bene il suo concetto: impossibilitato a negare di essere il Messia promesso, Gesù cerca di mostrare ai suoi discepoli e alla folla quale tipo di Messia egli sia, non un uomo di guerra, ma dimesso e a cavallo di un asino. La folla è sconcertata, ma ne percepisce il significato quanto basta per rendersi conto che egli non è il Messia delle loro speranze.<o:p></o:p>

Nella cornice festosa del pellegrinaggio pasquale Gesù fa la sua solenne entrata nella città. Si direbbe un momento di trionfo. Ma è certo un trionfo di breve durata: ciò che resta è la delusione dello sguardo di Gesù che cerca qualcosa che non trova, è la profonda solitudine di un Messia che non è capito.<o:p></o:p>

Ciò che anzitutto colpisce in questo racconto - e lo fa solenne - è il ricco sottofondo veterotestamentario. La scena sembra costruita sulla falsariga di un testo di Zaccaria (9,9): "Gioisci, figlia, di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re: è giusto e vittorioso, è umile e cavalca un asinello; toglierà i carri da guerra e annuncerà la pace alle genti.<o:p></o:p>

Le vesti stese per terra sembrano ricordare l'intronizzazione regale di Jehu (2 Re 9,13): "S'affrettarono a prendere ciascuno il proprio mantello e lo posero sotto i piedi di Jehu, alla sommità dei gradini, poi suonarono la tromba e gridarono: Jahwè è fatto re!".<o:p></o:p>

Il grido della piccola folla che accompagna Gesù, ricorda il Salmo 118, un salmo processionale: "Benedetto chi viene nel nome del Signore".<o:p></o:p>

Questo ricco sottofondo veterotestamentario rivela il modo con cui la comunità cristiana ha letto l'episodio, scorgendo in esso un profondo senso messianico. Mc. da parte sua, come al solito, sembra attento a non permettere equivoci sul messianismo regale di Gesù: un Messia umile e pacifico.<o:p></o:p>

Comunque l'evangelista afferma, che Gesù morirà, ma egli rimane sempre il "Signore" (11,3), che ha a disposizione ogni cosa, perfino l'asino di uno sconosciuto contadino. Se si dimenticasse questa dimensione (che cioè Gesù è il Signore) non si capirebbe la Passione: non è il rifiuto di un profeta qualsiasi, ma del Signore; non è la manifestazione del coraggio di un profeta che giunge al martirio, ma la manifestazione dell'amore di Dio nei nostri confronti.<o:p></o:p>

"Inviò due dei suoi discepoli": nei preparativi per l'ingresso di Gesù a Gerusalemme c'è una forte somiglianza con i preparativi per la cena della Pasqua giudaica (14, 13-16), ed entrambi le pericopi sottolineano il fatto che Gesù prevede gli avvenimenti.<o:p></o:p>

"Osanna": originariamente era un'invocazione di aiuto nella difficoltà (2 Sam. 14,4; 2 Re 6,16) e una preghiera per ottenere la pioggia (Sal. 118,25). A motivo della sua connessione con la Festa dei Tabernacoli, il Salmo 118 finì per diventare un'espressione della speranza messianica e "osanna" un grido liturgico di omaggio a Dio o al Messia mentre fa il suo ingresso trionfale a Gerusalemme.<o:p></o:p>

"Entrò nel tempio di Gerusalemme": il seguito naturale dell'ingresso trionfale di Gesù sembrerebbe la sua cacciata dei profanatori dal tempio (11, 15-19) e l'attacco contro le autorità giudaiche (11, 27-33). Marco, invece, interrompe questa sequenza, inserendo nel racconto della purificazione del tempio, la maledizione della pianta del fico, dato che entrambi i gesti simboleggiano il giudizio di Dio contro Israele.<o:p></o:p>

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LA PIANTA DEL FICO STERILE (11, 12-33)<o:p></o:p>

Il racconto della maledizione del fico era probabilmente in origine un racconto unitario e a sé stante (maledizione del fico - cacciata dei venditori dal tempio - parole sulla fede e la preghiera). Marco lo spezzò in due e ne fece un racconto-cornice: il quadro sul quale bisogna puntare l'attenzione è l'episodio della purificazione del tempio. Le tre parti della pericope sono unite da Mc. in modo intelligente, dobbiamo sforzarci di cogliere il significato di questo legame.<o:p></o:p>

La maledizione del fico è un gesto parabolico che esprime plasticamente il giudizio di Dio su Israele. L'informazione che non era la stagione dei fichi rende assurda la pretesa di Gesù. Questo significa che l'episodio è simbolico: non è la sterilità del fico che interessa, ma quella di Israele. E Israele non ha scuse: è già stato più volte rimproverato (Ger. 8,13; Gioele 1,7; Michea 7,1) e dovrebbe sapere quali sono i frutti che Dio vuole raccogliere. Comunque, Mc. ce lo dice attraverso l'episodio del tempio e le parole sulla fede.<o:p></o:p>

Il gesto di Gesù al tempio ha senza dubbio un significato messianico e ripropone il tema del giudizio: i riferimenti a Isaia 56,7 ("la mia casa è casa di preghiera per tutti i popoli") e Ger. 7,11 ("ne avete fatto una spelonca di ladri") sono in proposito chiari. Ed è molto più di un gesto di purificazione: non una semplice riforma ma un superamento. I venditori di animali e i cambiavalute non costituivano una presenza illegale, e neppure erano un disturbo (sedevano infatti nel cortile dei gentili). La loro presenza era necessaria al normale svolgimento del culto: i numerosi pellegrini giunti da ogni parte dovevano comperare animali per offrire i sacrifici prescritti, e per le offerte era necessario che le monete straniere (ritenute impure) venissero cambiate in monete ebraiche.<o:p></o:p>

Il gesto di Gesù sembra, dunque, impedire lo svolgimento delle funzioni normali del tempio, i suoi sacrifici e il suo culto. Forse è nello stesso senso che va interpretata la strana annotazione di Marco (11,16). "non permetteva che si portasse qualcosa attraverso il tempio". Gesù proclama che il tempio è decaduto, ha finito la sua funzione (non solo il tempio ma l'intera economia ebraica): la presenza di Dio è un fatto "universale" (ecco perché Mc. prolunga la citazione di Isaia fino a comprendere "per tutte le genti") ed è una presenza per tutti, anche per i rifugiati (ecco perché Mt. 21,24 parla di "ciechi e zoppi").<o:p></o:p>

Se Dio giudica Israele è perché questi si è chiuso e non vuole decidersi ad aprirsi al Messia e alle genti. Non si considera più una realtà aperta, provvisoria e disponibile.<o:p></o:p>

Ed è così che il discorso arriva alla fede. C'è fede e fede, e non sempre ciò che gli uomini chiamano fede è tale agli occhi di Dio. Lungo il racconto evangelico diverse parole di Gesù ci hanno richiamato alla fede: qui si vuole sottolinearne la potenza (la vera fede è capace di sollevare le montagne). Ma la potenza della fede non sta nella quantità: le molte preghiere e le molte pratiche dei giudei non erano la vera fede. Che cos'è, allora, la fede? Quali sono le condizioni della sua potenza?<o:p></o:p>

Fede è attendere da Dio, e non da noi o dalle nostre opere: la fede è gratuità, ed è per questo che si esprime nella preghiera. <o:p></o:p>

Fede è attendere da Dio quello che Egli vuole darci: non dobbiamo ostinarci a voler essere noi la misura del progetto di Dio. E' Dio la misura del dono, non noi.<o:p></o:p>

Fede è rendersi disponibili, perché Dio ci apra alla "novità" del regno messianico e alla "universalità" delle genti: la negazione della fede è il ripiegamento su di sé, la gelosa conservazione del proprio privilegio.<o:p></o:p>

Fede è l'atteggiamento di chi "non esita nel suo cuore" (11,23): la negazione della fede è il continuo "ondeggiare fra Dio da una parte, e tutte le altre possibili idee dall'altra".<o:p></o:p>

Fede, infine, è prolungare a tutti ciò che Dio ha fatto per noi: sta qui la sorgente e la misura del perdono. Ma ciò suppone la consapevolezza di essere per primi perdonati, gratuitamente da Dio. <o:p></o:p>

Il capitolo si chiude con una polemica contro i gran sacerdoti, gli scribi e gli anziani (11, 27-33): "Con quale autorità fai queste cose?". L'interrogativo è importante, e si riferisce a tutta l'attività di Gesù, non solo al gesto del tempio. Ma Gesù non risponde: "Nemmeno io vi dirò con quale autorità faccio questo". La risposta può essere accolta solo da coloro che vogliono decedersi e non hanno paura di rispondere con chiarezza.<o:p></o:p>

"Visto da lontano un fico che aveva delle foglie": testi quali Ger. 8,13; Os 9,10; Mc. 7, 1-6 suggeriscono l'idea che la pianta del fico simboleggi Israele.<o:p></o:p>

"Nessuno possa mangiare più i suoi frutti": la maledizione dell'albero da parte di Gesù è una parabola che rappresenta drammaticamente il giudizio di Dio contro lo sterile Israele.<o:p></o:p>

"Entrando nel tempio": è impossibile determinare se questo avvenimento abbia avuto luogo all'inizio del ministero di Gesù (Gv. 2, 13-17) o alla fine.<o:p></o:p>

"Si mise a cacciare": nel contesto della maledizione del fico da parte di Gesù e nella luce di Is. 56,8; Ez. 40-48; Os. 9,15; Mal. 3,1, l'azione di Gesù è vista come un esercizio della sua autorità messianica, simboleggiante il giudizio di Dio contro gli abusi del tempio.<o:p></o:p>

"Non è forse scritto": Gesù cita Is. 56,7 e Ger. 7,11 e la prima parte di queste citazioni è una profezia messianica che si riferisce al posto che i gentili prenderanno nel tempio. Tenendo conto del fatto che Mc. fu scritto per i pagani e che l'azione di Gesù ebbe luogo nel cortile del tempio che separava i gentili dai giudei, può risultare significativo che soltanto Mc. citi l'intero versetto di Is. 56,7 inclusa la frase "tutti i popoli (gentili)".<o:p></o:p>

"La mattina seguente videro il fico seccato": questa pericope è una raccolta di detti eterogenei artificiosamente riuniti dalle parole-richiamo "fede" e "preghiera".<o:p></o:p>

"Con quale autorità fai queste cose?": nel contesto la domanda di scribi e sommi sacerdoti si riferisce all'ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme e all'espulsione dei mercanti dal tempio.<o:p></o:p>

"Il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini?": la contro-domanda di Gesù pone i suoi avversari di fronte a un dilemma che viene spiegato nei vv. 31-32. Incapaci di esprimere una decisione autorevole circa il battesimo, le autorità giudaiche preferiscono lasciare la domanda di Gesù senza risposta.<o:p></o:p>

"Essi temevano il popolo": la paura impedisce loro di esprimere un'opinione negativa contro Giovanni, esattamente come in 12,12 la stessa paura impedirà loro di arrestare Gesù immediatamente.<o:p></o:p>

"Neppure io vi dico con quale autorità": il nocciolo di questa narrazione è in questa solenne affermazione di Gesù; è una tacita rivendicazione di possedere un'autorità messianica concessagli da Dio.<o:p></o:p>

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PARABOLA DEI VIGNAIOLI OMICIDI (12, 1-12)<o:p></o:p>

Questa pericope è singolare tra le parabole di Gesù perché è un'allegoria di come il rifiuto dei profeti da parte di Israele abbia raggiunto il vertice con l'uccisione di Gesù, e di come, conseguentemente, Dio abbia privato Israele della sua primogenitura. Le allusioni a Is. 5, 1-7 rendono chiaro che la vigna rappresenta Israele (v. 1) o il regno di Dio (vv. 8-9); il padrone rappresenta Dio, i vignaioli rappresentano i capi religiosi di Israele; i servi sono i profeti; il figlio diletto è Gesù.<o:p></o:p>

"Un uomo piantò una vigna": queste parole sono state ampliate con una descrizione della vigna che è molto simile a quella di Is. 5, 1-2 e indica che la tradizione evangelica vide nella vigna la rappresentazione di Israele. <o:p></o:p>

Dato che la Chiesa primitiva trasformò in allegorie numerose parabole di Gesù, gli esegeti hanno cercato di recuperare le parabole originali togliendo da esse le connotazioni allegoriche in quanto aggiunte secondarie. Una volta costatato, tuttavia, che l'allegoria non era completamente estranea alla parabola semitica, si è arrivato alla conclusione che Gesù abbia formulato questa parabola così come viene riferita da Marco, e che quindi, Gesù stesso l'abbia intesa come un'allegoria del suo ruolo di Figlio di Dio nella storia religiosa di Israele e come una condanna assoluta d'Israele a causa del suo imminente rifiuto del Messia.<o:p></o:p>

"Poi la diede in affitto a dei vignaioli": i commentatori che non ammettono nessun aspetto allegorico nelle parabole originali di Gesù spiegano il canovaccio di questa parabola come un esatto riflesso delle condizioni economiche in Galilea prima dell'anno 66 d.C., quando vaste porzioni di terra erano possedute da latifondisti assenti e venivano affittate a contadini locali i quali avevano come compenso una determinata percentuale del prodotto. Questa situazione causava malcontento e sentimenti nazionalistici contro i proprietari stranieri e poté facilmente condurre alla situazione descritta nella parabola.<o:p></o:p>

Altri commentatori sono del parere che la parabola non contempli questa situazione economica e politica, e che i ripetuti invii dei servi e del figlio del proprietario e i loro maltrattamenti da parte dei vignaioli si possono spiegare unicamente come riferimenti allegorici voluti da Gesù stesso.<o:p></o:p>

"Il figlio prediletto": la fraseologia si richiama a 1,11; 9,7 e si riferisce a Gesù.<o:p></o:p>

"E' l'erede, uccidiamolo": il loro piano è di uccidere l'unico erede superstite così che, se il padrone morisse senza testamento, la vigna potrebbe essere rivendicata dai vignaioli dipendenti.<o:p></o:p>

"Lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna": le parole di Gesù, più che una predizione della sua crocifissione, sono un'espressione della sua consapevolezza che egli condivide il destino dei profeti d'Israele (cfr. Mt. 23,29; 12, 41-42). Matteo e Luca che ci descrivono il figlio prima buttato fuori dalla vigna e poi ucciso, allegorizzano probabilmente il racconto alla luce della passione e della morte di Gesù (cfr. Gv. 19,17; Eb. 13,12).<o:p></o:p>

"Che farà il padrone della vigna?": come in altre parabole Gesù pone una domanda che è una sfida ai suoi uditori ad afferrare il senso del racconto.<o:p></o:p>

"Farà perire i coloni e darà la vigna ad altri: questo detto si riferisce alla perdita della primogenitura da parte di Israele.<o:p></o:p>

"La pietra scartata dai costruttori": questo Salmo (118, 22-23) era il testo di prova preferito nell'apologetica neotestamentaria per spiegare come il Messia, rigettato dai capi d'Israele, divenne la pietra d'angolo del nuovo popolo di Dio (At. 4,11; Lc. 9,22; Rm. 9,33; Ef. 2,20; 1 Pt. 2,7). Probabilmente Gesù usò in qualche occasione questa immagine veterotestamentaria come parte di una severa risposta ai suoi avversari, ma il legame del testo del salmo con la parabola in questione è indubbiamente dovuto o alla tradizione cristiana o a Marco.<o:p></o:p>

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IL TRIBUTO A CESARE (12, 13-17)<o:p></o:p>

Un tipico detto nel quale tutta la narrazione è subordinata al v.17 "Rendete a Cesare quello che è di Cesare...". Benché non ci sia alcuna indicazione quanto al tempo in cui ebbe luogo questo episodio, Marco lo colloca in una serie di dispute al termine del ministero di Gesù.<o:p></o:p>

"Alcuni farisei con gli erodiani": può darsi che Mc. consideri i farisei come i rappresentanti di coloro che tolleravano una certa collaborazione con Roma, e gli erodiani come i rappresentanti di fazioni più nazionalistiche che vi si opponevano.<o:p></o:p>

"E' lecito pagare il tributo a Cesare?": tra gli anni 6 e 70 d.C. gli abitanti della Giudea, Samaria e Idumea dovettero pagare un tributo all'imperatore. Oltre ad essere un costante richiamo alla loro sottomissione a Roma, questo tributo solleva anche scrupoli religiosi tra i giudei dato che doveva essere pagato con monete d'argento che portavano l'immagine dell'imperatore (cfr. Dt. 4,16.25; 5,9.10). La questione era molto dibattuta tra i giudei, e il tentativo di indurre Gesù a formulare una sua decisione era inteso a screditarlo presso gli aderenti dell'uno o dell'altro partito.<o:p></o:p>

"Portatemi un denaro": siccome le monete erano considerate come proprietà privata del monarca, il solo fatto che essi possedessero la moneta del tributo era un implicito riconoscimento della sovranità dell'imperatore nei loro confronti. Gesù replica che di conseguenza essi sono obbligati a pagare il tributo.<o:p></o:p>

"Date a Cesare... e a Dio...": nel contesto della convinzione che il regno di Dio fosse imminente e che tutti i regni terreni sarebbero scomparsi, il detto di Gesù è un'asserzione sulla relativa irrilevanza del potere politico di Roma nei confronti del regno di Dio, più che un'affermazione di principio sulla fedeltà alla Chiesa e allo stato.<o:p></o:p>

Al tempo in cui fu composto Marco, tuttavia, l'attesa di un'imminente fine del mondo era diminuita tra i cristiani, e l'affermazione di Gesù fu reinterpretata come la sanzione del principio che la fedeltà di un cittadino allo stato non deve necessariamente contrapporsi alla sua obbedienza a Dio (Rm. 13, 1-7). Il detto deve essere stato particolarmente pertinente per i cristiani romani durante le persecuzioni di Nerone (64 d.C.).

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