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Invettiva contro Scribi e Farisei (23, 1-39)
Questo capitolo 23 è un vero e proprio discorso che ha costruito Mt con la tecnica che più gli è abituale e cioè,  utilizza parole del Signore pronunciate in contesti diversi e li mette insieme perché hanno affinità tematiche. Nel nostro capitolo l’evangelista ha raccolto molte parole polemiche del Signore, per mettere in evidenza il vertice della rottura fra Gesù e i farisei. Un’opposizione delineata fin dall’inizio del ministero in Galilea e che raggiunge il suo culmine nelle controversie a Gerusalemme, dopo l’entrata messianica (21, 1-11) e la purificazione del tempio (21, 12-17).
Tutti i gruppi giudaici (farisei e scribi, sadducei e zeloti) hanno preso posizione contro di lui, ma egli li ha costretti al silenzio: “Nessuno poteva rispondergli neppure una parola, e da quel giorno nessuno osò più interrogarlo” (22,46). Ora è Gesù che li attacca, mettendo a nudo le vere e nascoste radici della loro resistenza.
Il discorso è composto da un’introduzione, seguita da sette “guai” contro gli scribi e i farisei, e una conclusione.
Nell’introduzione Gesù condannando le contraddizioni degli scribi e dei farisei, descrive - a modo di contrasto – le caratteristiche del vero discepolo. Scribi e farisei, guide spirituali del giudaismo, si sono seduti sulla cattedra di Mosè, (cioè si sono presentati come continuatori del suo magistero: lo ripetono, lo difendono, lo interpretano autorevolmente, lo attualizzano), ma al loro insegnamento non corrisponde il loro comportamento. Hanno un’autorità che va riconosciuta (“Osservate tutto ciò che vi dicono”), ma hanno un comportamento che non va imitato (“Dicono e non fanno”).
Due sono i rimproveri che muove loro Gesù: l’incoerenza (“legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente[35], ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”) e la ricerca di sé (“allargano i loro fillattèri[36] e allungano le frange[37], amano i posti d’onore nei conviti”).
Filatterie e frange avevano un significato simbolico: conservare sempre il ricordo della legge del Signore e l’impegno di osservarla. Ma era proprio questo che scribi e farisei non facevano.
L’introduzione si conclude con il rigetto da parte di Gesù di tre titoli onorifici (maestro, padre e dottore) perché c’è un solo Padre: Dio,  un solo maestro e dottore: il Messia, e i discepoli sono tutti fratelli.
Nel primo “guai” (23,13) emerge la metafora delle chiavi del Regno, metafora usata per Pietro in 16,19 e applicata qui a scribi e farisei. Per Regno si intende qui il Regno inaugurato dalla proclamazione di Gesù. I farisei rifiutano di credere in Gesù ed escludono dalla comunità giudaica coloro che credono.
Nel secondo “guai” (23,15), Gesù mette l’accento sul proselitismo (la conversione di un pagano alla religione ebraica). La propaganda religiosa giudaica era molto attiva al tempo di Gesù. Mt inserisce qui un versetto molto duro (“un figlio della Geenna il doppio di voi”), ed è difficile capire cosa ci sia alla base di questa condanna così severa dei proseliti. Questo versetto, a quanto pare, riflette l’esperienza della chiesa apostolica ( e con ogni probabilità, quella giudeo-cristiana di Mt). E’ possibile, infatti, che i proseliti (i pagani convertiti alla religione ebraica) mostrassero maggiore ostilità nei confronti dei giudeo-cristiani (giudei convertiti al cristianesimo), considerati da loro come rinnegati, di quanta ne mostrassero i giudei nativi.
Nel terzo “guai” (23,16-22) viene criticato l’insegnamento farisaico. Il punto in questione è l’insegnamento rabbinico sull’obbligo dei giuramenti. La questione è se la formula del giuramento sia o meno obbligatoria. Chi desiderava sottrarsi all’obbligo del giuramento poteva andare in cerca di una interpretazione che negasse la validità della formula usata. Per sciogliere coloro che li avevano imprudentemente emessi, i rabbini ricorrevano a sottili argomenti. E’ la casistica di tali evasioni ciò che Gesù attacca. Scribi e farisei sono guide cieche perché, pur studiando con cura meticolosa la legge e pur sforzandosi di praticarla, non colgono l’anima profonda della legge stessa, complicano senza motivo per la gente semplice il comandamento originario di Dio, e nello stesso tempo lo esteriorizzano e lo circondano di scappatoie che permettono agli esperti (cioè a loro stessi) di evadere con coscienza tranquilla. Sono molti i segni della loro cecità: la confusione tra il rigorismo minuzioso dell’osservanza della legge (distraggono l’attenzione da ciò che è essenziale e la concentrano su ciò che è secondario) e l’autentica obbedienza al Signore (che è gioiosa libertà).
Anche il quarto “guai” (23,23-24) è un’invettiva contro l’insegnamento di scribi e farisei. Il punto in questione era quali tipi di prodotti del campo erano soggetti alla legge della decima. Nell’interpretazione rigorista qualsiasi prodotto naturale era soggetto alla legge, un’interpretazione più umana limitava l’obbligo al tradizionale “grano, vino e olio”. I rabbini applicavano il precetto mosaico della decima da prelevare sui prodotti della terra anche alle piante più insignificanti e rare, quali: menta, aneto e cumìno, (minuscoli semi). Gesù non obietta contro questo rigorismo in se stesso, queste norme però, pur legittime, sono prive di valore quando sono disgiunte dalla giustizia, dalla misericordia e dalla fedeltà, veri e fondamentali precetti.
Il tocco finale del ridicolo è l’esempio dello scolare il moscerino e dell’inghiottire il cammello. Nell’antichità si usava fissare dei colini alla bocca delle caraffe per raccogliere qualsiasi tipo di insetto si infiltrasse nel vino. L’osservanza farisaica adoperava i colini non soltanto per questo scopo ma anche per colare qualsiasi sostanza impura che uno inavvertitamente potesse consumare. La casistica può perdersi talmente nei dettagli da dimenticare le cose veramente importanti e giuste da fare. Il cammello era l’animale più grosso conosciuto in Palestina, simili iperbole (esagerazioni, eccessi) dovevano essere comuni nel discorso popolare.
Il quinto “guai” (23,25-26) mette in discussione la devozione legale farisaica, ai limiti del fanatismo. Comunque, il piatto e il bicchiere non sono qui intesi in senso letterale: è dubbio che la prassi ebraica si accontentasse di lavare l’esterno dei recipienti. I recipienti sono metafore e simboleggiano le persone, e il “guai” è diretto alla preoccupazione di una corretta osservanza esteriore a scapito di una disposizione interiore.
Il sesto “guai” (23,27-28) è simile nella struttura al precedente. L’imbiancatura delle tombe nell’odierna Palestina risale al periodo neotestamentario, quando era una prassi comune. Siccome il contatto con i morti e le tombe causavano impurità, l’imbiancatura aveva lo scopo di identificare le tombe e mettere in guardia coloro che inavvertitamente avrebbero potute toccarle. L’interno delle tombe poi costituiva il grado supremo di impurità. Il punto in questione è anche qui la prassi farisaica: l’osservanza della legge, della quale i farisei si vantavano, era solo un mantello per nascondere una vita vissuta in una totale contraddizione con la legge. I vizi menzionati sono l’ipocrisia (la parola è un ritornello nel discorso) e l’illegalità.
Il settimo “guai” (23,29-36) è più lungo dei precedenti e riflette da una parte l’uccisione di Gesù e il definitivo adempimento delle Scritture, e dall’altra gli attacchi delle autorità giudaiche contro gli apostoli e i missionari della primitiva comunità cristiana. Prendendo spunto dalle tombe, Gesù denuncia la falsa venerazione di quei profeti che, in realtà, erano stati uccisi dagli stessi Ebrei, come attesta la storia di Israele e di tutta l’umanità, a partire da Abele per giungere fino a Zaccaria, un sacerdote giusto ucciso dal re Ioas di Giuda. Ma ancora oggi, scribi e farisei, continuano ad uccidere i profeti (“voi colmate la misura dei vostri padri”), ma Gesù continuerà a mandare “profeti, sapienti e scribi” (un’allusione ai missionari cristiani) che subiranno la stessa sorte dei profeti. Il destino è inevitabile: “nessuno scamperà dalla Geenna”; l’intero brano va letto alla luce della catastrofe del 70 d.C. Per coloro che erano abituati a pensare biblicamente questo evento fu chiaramente un giudizio di Dio e l’orrore del disastro mostrò che non fu un giudizio per un crimine qualsiasi ma per un immenso bagaglio di colpe. Abele (Gen 4,8) è la prima vittima dell’assassinio nella Bibbia e il profeta Zaccaria (2 Cron 24, 20-22) è l’ultima vittima dell’assassinio nella Bibbia ebraica che termina con i libri delle Cronache. Questa è indubbiamente la ragione per cui vengono menzionati questi due nomi.
Nella conclusione (23, 37-39) del discorso ritorna il tema fondamentale del Vangelo di Matteo: Gesù è il Salvatore promesso dall’AT, ma il popolo eletto lo ha respinto e così Israele si è escluso dalla storia della salvezza. Il lamento finale è pieno di tristezza, si direbbe di impotenza: “La vostra casa sarà deserta” (Ger 22,5). Israele ha rifiutato il suo Dio e Dio abbandona il suo popolo. Ma non è un abbandono definitivo e senza speranza, il piano di Dio non è sconfitto. L’ultima parola è un’allusione alla domenica delle Palme, e quindi alla Croce e al ritorno trionfale di Cristo nella gloria.
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