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DISCORSO: il discorso escatologico (24, 1-25,46)
 
Questo è il quinto e ultimo discorso di Gesù nel vangelo di Matteo: nei capitoli 5-7 abbiamo incontrato quello della montagna, nel capitolo 10 il discorso missionario, nel capitolo 13 quello sulle parabole e nel capitolo 18 quello sulla Chiesa. Quest’ultimo viene chiamato “escatologico” (termine greco che significa “riguardante le cose ultime”) perché viene considerato il fine ultimo della storia. Bisogna subito notare però, che nelle parole di Gesù si intrecciano piani diversi: alla fine del tempo si associa l’evento clamoroso della fine di Gerusalemme e del suo tempio - avvenuta nel 70 d.C. ad opera dei romani -  e vissuta in modo traumatico dagli stessi evangelisti, che lo hanno fatto emergere nel discorso di Cristo. Inoltre, com’era costume in quel tempo, il linguaggio di Gesù è costellato di immagini e simboli caratteristici della letteratura “apocalittica”, che noi abbiamo già spiegato leggendo il vangelo di Luca.
Il discorso, quindi, si riferisce sia alla caduta di Gerusalemme che alla fine escatologica, ma è impossibile individuare quali versetti si riferiscono all’uno o all’altro evento. Non va mai dimenticato che sia buona parte del pensiero biblico dell’Antico e Nuovo Testamento, come la storia e l’escatologia, sono fuse insieme in un modo che è del tutto estraneo al pensiero moderno.
·        La predizione della distruzione del tempio (24,1-25, 30)
Nella prima parte dei discorso escatologico (soprattutto nei primi versetti del capitolo 24) si vede bene l’intreccio dei due piani, storico ed escatologico: da un lato, c’è l’accenno al crollo del tempio a cui Gesù fa riferimento, cioè agli eventi del 70 (“… non resterà pietra su pietra che venga distrutta” v.2), dall’altro, si parla della “venuta” piena e definitiva di Cristo alla fine del mondo (“…dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo” v.3). Ciò che Gesù, subito dopo, raffigura – rifacendosi sempre alle immagini del linguaggio apocalittico – è lo svolgersi della storia della Chiesa, con le persecuzioni esterne e con le crisi interne (“l’amore di molti si raffredderà” v. 12).
Il discorso continua con la rappresentazione, sempre con immagini apocalittiche, dell’ “l’abominio della desolazione”[38] e della grande tribolazione, cioè la fase degli ultimi tempi, tratteggiata con catastrofi cosmiche, con le crisi create dai falsi profeti e dagli pseudo-messia (i “ falsi cristi”). Il vertice rimane “la venuta del Figlio dell’uomo”, l’ultima grande manifestazione (la parusìa) che sigillerà la storia. Essa sarà inattesa e destinata a tutti i popoli, che saranno sottoposti a giudizio. Tutto il brano è pervaso da uno stato di tensione, di speranza e di timore ed è un invito a impegnarsi seriamente per il regno di Dio, lasciando a margine le cose secondarie.
L’accenno alla “grande tromba” (v. 31) fa parte della scenografia apocalittica. Ad essa si ispira anche Paolo in 1 Cor 15,52 (“al suono dell’ultima tromba”) e in 1 Tess. 4,16 (“al suono della tromba di Dio”).
Il discorso “escatologico” presenta a questo punto una mini-parabola (v. 32), quella del fico che con il suo fogliame segnala la vicinanza dell’estate. Allo stesso modo nella storia ci sono segni che ne indicano la direzione e la meta. Data la complessità dei temi – e tenendo conto del già citato intreccio dei piani – non sempre è facile distinguere se Gesù si stia riferendo alla storia nel suo svolgimento o alla fine dei tempi. E’ il caso del v. 34: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo accada”. Si tratta della distruzione di Gerusalemme o della venuta finale come imminente di Cristo, secondo quanto desiderava la Chiesa delle origini?
La seconda parte del discorso escatologico si apre (24,36) e si chiude (25,13) con la medesima affermazione: nessuno conosce il “giorno” e l’ “ora”. Il tema è chiaro: la venuta del Signore è imprevedibile, di qui la necessità della vigilanza.
Al tempo di Noè – racconta il libro della Genesi (6, 6-12) – “la malvagità degli uomini era grande sulla terra e ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male; la terra per causa loro era piena di violenza”.
Gesù paragona gli uomini di questa generazione, cioè di coloro che vivono nella fase finale della storia (quindi anche noi) alla generazione dei tempi di Noè: essi vivevano nella spensieratezza totale delle cose che incombevano su di essi: mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito. Nel paragone è messa in evidenza la autocoscienza e il godimento della vita come fondamento della propria sicurezza.
Il cristiano non deve lasciarsi sorprendere da un avvenimento così imprevisto. Egli sa molto bene quello che lo attende e che la rapidità degli avvenimenti ultimi non permette di pensare alla conversione nell’ultimo momento. La generazione di Noè passò alla storia come la più corrotta di tutte (1 Pt 3,20). Non si fa menzione dei suoi peccati concreti, ma si costata solo il fatto: vivevano sicuri e felici e all’improvviso li sorprese il diluvio.
Sebbene l’insegnamento principale di questo brano sia incentrato sull’atteggiamento di spensieratezza e di vita facile della generazione del diluvio, un insegnamento non meno importante, anche se secondario, deve essere visto nella vita di Noè. Il suo comportamento traduce perfettamente la condotta dell’uomo di fede. Egli non aveva alcun indizio per dedurre la catastrofe che si avvicinava: si fidò unicamente della Parola di Dio e portò a compimento quella costruzione assurda in un paese arido, lasciandosi guidare solo dall’ordine che aveva ricevuto da Dio. Al modo di Abramo, egli è dunque il modello di coloro che ripongono la loro fede incondizionata in Dio. Si dice ai cristiani: siate come Noè, e non come i suoi contemporanei. Infatti, quando verrà il Figlio dell’uomo, si ripeterà quello che avvenne allora: uno “sarà preso”, perché appartiene a Cristo (Mt 10, 32-33) e l’altro “sarà lasciato”. E questo, senza preavvisi, nella piena vita di ogni giorno, nel lavoro, nei campi, o in casa.
Questa vigilanza attenta e costante è illustrata da tre parabole: quella del servo fidato e prudente (24, 45-51), la parabola delle ragazze sagge e delle stolte (25, 1-13), e la parabola dei talenti (25, 14-30).
La prima parabola precisa il contenuto del vegliare: è l’atteggiamento di chi amministra i beni saggiamente e “distribuisce il cibo a ciascuno”, il contrario è l’atteggiamento di chi, confidando nell’assenza del padrone, si fa egli stesso padrone e opprime i fratelli e si immerge nei piaceri. Vigilare non è dunque solo attesa, ma impegno concreto.
La parabola delle vergini affronta il tema da un’altra prospettiva: bisogna essere pronti a ogni evenienza, anche al ritardo. Dunque, né calcolare il ritardo (per poi approfittarne) né rimanere delusi. Il pericolo è duplice: darsi alla follia perché il Signore ritarda, oppure non avere la pazienza di attendere a lungo il suo ritorno. Ma la cosa più importante è questa: non è la vicinanza o la lontananza del ritorno del Signore che rende importante il tempo nel quale viviamo. Esso è importante perché ricco di possibilità di salvezza.
La terza parabola, quella dei talenti, spiega che vigilare significa passare dalle parole ai fatti, e la scena del giudizio (vv. 14-30) che conclude il discorso escatologico, precisa che i fatti – in base ai quali saremo giudicati – si riconducono all’amore.
La chiave dell’intera parabola è il dialogo fra il servo malvagio e il padrone (vv. 24-27). Il servo ha una sua idea del padrone, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. In una simile concezione di Dio c’è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza della legge. Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto.
Anche noi siamo tentati di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta invece la pretesa del padrone. E’ la medesima reazione che sorge nei confronti di altre parabole: per esempio, nei confronti della parabola che racconta di un padrone che dà la stessa paga agli operai che hanno lavorato un’intera giornata e agli operai che hanno lavorato un’ora soltanto (Mt 20,12); o nei confronti della parabola del prodigo, che racconta di un padre che perdona e festeggia il ritorno del figlio che uscì di casa e sperperò il patrimonio (e mai nessuna festa, invece, per il figlio rimasto in casa: Lc 15, 29-30). Questa nostra reazione è la stessa degli scribi e farisei, degli scrupolosi osservanti della legge. Essi concepiscono la giustizia come un rapporto di parità: tanto-quanto. Gesù invece si muove nella prospettiva dell’amore, che è senza calcoli e senza paura. Anche il servo della parabola deve uscire dall’angusta prospettiva del tanto-quanto. Il servo non deve porre dei limiti al proprio servizio, perché l’amore non ha limiti e non deve avere paura di correre rischi, perché nell’amore non c’è paura.
La parabola dunque ha lo scopo di far comprendere la vera natura del rapporto che corre tra Dio e l’uomo. E’ tutto l’opposto di quel timore servile che cerca in Dio rifugio e sicurezza, con una esatta osservanza dei suoi comandamenti. E’ invece un rapporto di amore, dal quale possono scaturire coraggio, generosità e libertà.
Tutto quanto abbiamo rilevato finora appartiene al tenore originario della parabola. L’evangelista Matteo, che raccoglie la parabola dalla tradizione, la rielabora e la inserisce nel discorso escatologico e se ne serve per illustrare il suo pressante invito alla vigilanza. Lo scopo dell’evangelista è chiarito da un “infatti” posto all’inizio: “Vigilate dunque perché non conoscete né il giorno né l’ora; avverrà infatti come di un uomo che, dovendo partire…”.
Ma che significa in concreto vigilare? Il servo vigile e fedele – ci dice Matteo – è colui che, superando il timore servile e la gretta concezione farisaica del dovere religioso, traduce il messaggio in atti concreti, generosi e coraggiosi. Dio al suo ritorno non vuole quanto ci ha dato, ma molto di più. A coloro che si muovono nell’amore e si assumono il rischio delle decisioni, si aprono prospettive sempre nuove. Chi invece resta inerte e pauroso, diventa sterile, e gli sarà tolto anche quello che ha (v. 29).
·        Il giudizio finale  (25, 31-36)
Matteo conclude il discorso escatologico e l’intera serie dei discorsi di Gesù con la grandiosa scena del giudizio: l’appartenenza al regno non esige l’esplicita conoscenza di Cristo, ma soltanto la concreta accoglienza del fratello bisognoso. Lo stesso cristiano non gode di alcuna garanzia: anch’egli sarà giudicato unicamente in base alla carità. Ma che significato dare a quei “piccoli miei fratelli?” coi quali Gesù sembra identificarsi? Chi sono? I poveri semplicemente, i discepoli di Gesù o i missionari poveri e perseguitati?
Prima di rispondere a queste domande, vogliamo chiarire tre affermazioni che ci sembrano sicure.
Prima: il giudice è chiamato “figlio dell’uomo” e “re”, e questo “re” è Gesù di Nazaret, colui che fu perseguitato, rifiutato e crocifisso, e che nella sua vita condivise in tutto la debolezza della condizione umana: la fame, la nudità, la solitudine. Ed è un re che si identifica con i più umili, i più piccoli: anche nella funzione di giudice universale rimane fedele a quella logica di solidarietà che lo guidò in tutta la sua esistenza terrena. E’ dunque un re che vive sotto spoglie sconosciute, sotto le spoglie dei suoi “piccoli fratelli”.
Seconda: sbaglieremmo se vedessimo in questa pagina una logica diversa da quella della Croce, diciamo un contrasto fra il Cristo crocifisso e il giudice escatologico, come se alla logica dell’amore (Croce) venisse alla fine sostituita la logica della potenza (giudizio). Nulla di tutto questo: il giudizio svela la vera identità dell’uomo: è solo l’amore verso i fratelli che dona all’uomo consistenza e salvezza.
Terza: Matteo altrove ci  ha detto che gli uomini al giudizio dovranno rendere conto di tutti gli atti della loro vita (16,27), perfino di ogni parola (12,36). Qui però Gesù ricorda solo l’accoglienza agli esclusi. Un’accoglienza fattiva: tutto il giudizio è costruito attorno alla contrapposizione tra il “fare” e il “non fare”. E’ la solita tesi cara a Matteo: l’essenziale della vita concreta non è  di dire e nemmeno di confessare Cristo a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi. Questa è la volontà di Dio e questa  è la vigilanza.
Ritorniamo ora alla domanda iniziale: chi sono i “piccoli” che Gesù chiama “miei fratelli” e nei quali si rende presente al punto da ritenere fatto a se stesso quanto fatto a loro? Il termine “piccolo” (Mt 18,6.10.14) è usato altrove per indicare i cristiani deboli, spesso trascurati dalle élites della comunità. Secondo un altro testo (10,42) i “piccoli” sono i predicatori del vangelo, poveri e bisognosi di accoglienza. Il termine “fratello” invece ha un senso più generale e indica i discepoli. La conclusione è questa: i piccoli fratelli di Gesù sono i membri della comunità, trascurati, deboli, insignificanti, disprezzati. E in particolare sono i predicatori del vangelo, poveri e perseguitati. Pertanto l’avvertimento racchiuso in questa scena di giudizio è duplice: uno rivolto a tutti gli uomini e l’altro alla Chiesa. A tutti: la sorte di ogni uomo dipende dall’accoglienza mostrata ai missionari del vangelo, cioè, ai discepoli di Cristo. E alla Chiesa: nessuna comunità è al riparo dal giudizio, anche la comunità verrà giudicata in base all’accoglienza che essa concretamente avrà mostrata verso i poveri, i trascurati e i piccoli. L’amore rimane, dunque, la grande discriminante che definisce i veri discepoli di Cristo ed è anche l’impegno fondamentale per il tempo della storia, in attesa della venuta piena e definitiva del Signore.
Tavola sinottica
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