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Intervento delle SS

Eppure non ci sono prove solide e documentate che la minaccia, se mai ci fu, sia arrivata al punto da divenire un piano preciso o almeno, un ordine di avvio a un tale piano. Il dott. Robert Kempner, sostituto accusatore di Weizsaecker al processo di Norimberga, attribuì le accuse a dichiarazioni tendenziose fatte da persone desiderose di farsi valere. Interrogando padre Zeiger, che testimoniava a favore di Weizsaecker, l’accusa si espresse in questo modo:

«Lei sa che questo “piano” era semplicemente un tentativo da parte di pochissimi per potersi vantare di aver avvisato il papa in tempo, e che Hitler non ha mai avuto un piano di questo genere? Al contrario, nei riguardi del papa, Hitler era molto timido non per ragioni di umanità, ma per motivi di propaganda (16).

Difatti, vi sono parecchi punti oscuri, lacune e contraddizioni che devono essere ancora chiariti, se mai sarà possibile. Uno di questi è il misterioso ruolo di uno dei più importanti ufficiali delle SS in Italia nel 19431944; l’Obergruppenführer di Stato Maggiore delle SS e generale delle Waffen SS Karl Friedrich Otto Wolff, già capo della segreteria personale di Heinrich Himmler e poi Hoechster SS- und Polizei-Führer in Italia. Nella sua testimonianza a favore di Weizsaecker al processo di Norimberga, Wolff riferì che nell’autunno del 1943 Weizsaecker gli aveva parlato delle sue preoccupazioni per i piani che erano stati discussi [sic] dalle autorità germaniche per l’evacuazione del papa, prima che i tedeschi lasciassero Roma. Già quella volta, disse Wolff, la stampa aveva parlato di parte di questi piani. Nella sua testimonianza Wolff continuava cosi:

«Poiché Weizsaecker ed io eravamo d’accordo che si dovesse impedire ad ogni costo l’esecuzione di questo piano, gli assicurai il mio appoggio e adoperai il mio influsso presso i competenti uffici tedeschi, affinché non si effettuasse lo sfollamento forzato del papa, secondo i piani originali, in Germania o in un paese neutrale come il Liechtenstein». E aggiunse in seguito che nella primavera del 1944 Weizsaecker lo presentò al suddetto padre Zeiger all’ambasciata: «Padre Zeiger era in ottimi rapporti con la curia e in quell’occasione gli assicurai che uno sfollamento coatto del papa era fuori questione finché io fossi rimasto la massima autorità di polizia e delle SS» (17).

Wolff, che dal marzo 1945 fu il negoziatore con Allen Dulles per a fine della guerra nell’Italia del Nord, a Norimberga non venne interrogato a fondo dall’accusa e quindi non fu sottoposto ad un serio contro-interrogatorio su varie questioni, come l’affare di Hitler e del papa. Ci rimane quindi sempre il dubbio su ciò che intendesse, quando asseriva di aver esercitato il suo influsso sui “competenti uffici tedeschi”. È interessante anche la sua ammissione che non era stato eseguito “lo sfollamento forzato del papa, secondo i piani originali”. Infine, con quale autorità poteva dichiarare che lo sfollamento del papa fosse fuori questione finché egli rimaneva in Italia come capo della polizia nazista, a meno che non avesse partecipato in qualche modo a decisioni su questo argomento?

Una conversazione alla Biblioteca Hertziana

Una recente rivelazione del dott. Ludwig Wemmer, già menzionato quale emissario di Bormann tra il personale di Weizsaecker, e vivente ora in Germania, getta sul problema una luce interessante. Si è osservato che parecchi rapporti sul progettato rapimento citano il “Liechtenstein” o la “Wartburg” come eventuali località per la “ospitalità” da concedere al papa. La tardiva rivelazione di Wemmer fu dovuta a una serie di articoli pubblicati nell’autunno 1963 dal settimanale Oggi Illustrato, nella quale Eugenio Dollman indicava Bormann come autore del progetto. Wemmer uscì dal suo silenzio per scrivere una rettifica al settimanale italiano (18).
Secondo il dott. Wemmer, nell’autunno del 1943, egli aveva invitato un gruppo di ufficiali delle SS a pranzo nella sua residenza alla Biblioteca Hertziana in Via Gregoriana. Alla fine del pranzo, tra un sigaro e un liquore, la conversazione cadde sulla situazione militare e sulla possibilità di un imminente ritiro delle forze tedesche da Roma. A questo punto uno degli ospiti chiese che cosa si sarebbe fatto del papa. Una persona, che Wemmer non nomina, ma che date le circostanze poteva solamente essere lui, rispose che il papa sarebbe stato portato al Nord e installato nel Castello di Lichtenstein, che si trova nel Württemberg, vicino a Reutlingen. Tra gli ospiti, scriveva Wemmer a Oggi, c’era anche l’SS Standartenfuehrer Martin Sandberger, un assistente di Himmier e a lui molto vicino, che allora era aiutante del Befehlshaber des Sipo und des SD nell’Italia settentrionale (Sandberger divenne poi capo sezione del servizio Segreto Politico nazista sotto Schellenberg. Condannato a morte da un tribunale americano a Norimberga per la parte che aveva avuto nell’Est come capo delle squadre di sterminio delle SS, la sentenza fu poi commutata in ergastolo). Sandberger riferì a Himmler quello che aveva sentito al ricevimento di Wemmer. Himmler a sua volta chiese una conferma al capo della polizia nazista a Roma, Herbert Kappler. Wemmer riferisce di aver spiegato a Kappler che si trattava soltanto di una semplice osservazione fatta nell’atmosfera conviviale che segue una buona cena, ma la storia già si propagava come un fulmine, anche se con curiose trasformazioni. Il Castello di Lichtenstein (senza la prima e) divenne il “Principato del Liechtenstein”; Württemberg divenne la “Wartburg” (con riferimento a Martin Lutero) o addirittura divenne, per i non tedeschi, “Würzburg”. Wemmer si meravigliava come questo piccolo incidente fosse venuto a conoscenza della propaganda alleata. Più tardi, aggiunge, venne a sapere che una spia alleata lavorava nel comando tedesco sotto la uniforme delle SS.

L’atteggiamento di Martin Bormann

I documenti e le citazioni già presentati in questo articolo dimostrano che la storia del rapimento del papa non è nata da un bicchierino di Strega nella Biblioteca Hertziana. D’altra parte, il fatto che la storia venisse collegata con il rappresentante di Bormann al Vaticano confermò l’impressione che l’idea era viva nei circoli del partito.

Nelle sue Memorie, Walter Schellenberg, capo del servizio informazioni di Himmler, stabilisce un collegamento particolare tra Bormann e il progetto di rapimento. Egli scrive che Berlino pensava ad una specie di “cattività avignonese” per il papa, e aggiunge che questa era l’intenzione non solo di Bormann, ma anche di Goebbels. Schellenberg afferma di aver dissuaso Himmler, dicendogli che, se il progetto veniva eseguito, la colpa sarebbe ricaduta su Himmler e non sugli altri due, i veri istigatori. Inoltre, ciò avrebbe distrutto qualsiasi speranza di Himmler di poter negoziare una pace con l’Occidente.
Una volta tanto, commenta Schellenberg, Himmler discusse con Hitler senza servilismo, con il risultato che alla fine Hitler respinse il piano.
La parola di Schellenberg è l’unica base per questa versione della responsabilità di Bormann e del ruolo di Himmler nel respingere il progetto di rapimento. Si osservi che Goebbels, alla data del 27 luglio 1943, annotò nel suo diario di essere stato lui a dissuadere Hitler dall’occupare il Vaticano. Se (per una volta) Goebbels dice la verità, allora deve aver cambiato idea, oppure Schellenberg non era bene informato. Il capo del servizio informazioni di Himmler aggiunge però che un suo agente segreto lavorava in Italia alla fine dell’estate e al principio dell’autunno del 1943 e che i rapporti mandati da costui descrivevano la situazione in termini tali che fu facile convincere Berlino a non compiere azioni drastiche contro il papa per la parte che si sospettava avesse avuto nella caduta di Mussolini (19).

Strano a dirsi, l’uomo che più è accusato di aver promosso il rapimento del papa è l’unico che abbia smentito l’esistenza di un piano del genere. Costui era proprio Martin Bormann, che in un Fuerhrungshinweis, o “direttiva”, del 30 novembre 1943, attribuisce queste voci alla propaganda nemica. L’avviso era una circolare inviata a tutti i Gauleiter e aveva per oggetto: “Voci sopra un probabile imminente forzato allontanamento del papa da Roma”. Bormann diceva ai funzionari locali del partito che non c’era nulla di vero; secondo una voce, il papa doveva essere portato nel Liechtenstein; secondo un’altra, in Germania.

«Per far apparire verosimile la notizia, la propaganda inglese ha divulgato che i diplomatici accreditati presso il papa avrebbero deciso di non abbandonarlo qualora la Germania lo costringesse ad allontanarsi da Roma».

L’annunzio di Radio Londra poteva anche essere propagandistico, ma si dava il caso che fosse giusto. L’ambasciatore brasiliano Ildebrando Accioly aveva realmente preso l’iniziativa presso i diplomatici alleati residenti in Vaticano per un loro impegno a seguire il papa in esilio, se mai si fosse arrivati a quel punto. Ma Bormann continuava con una recisa smentita:

«Queste notizie del nemico sono prive di qualsiasi fondamento. Le notizie della propaganda nemica perseguono finalmente lo scopo di sollevare risentimento contro il Reich in campo religioso e di presentare le truppe anglo-americane in Italia quali liberatrici del papa» (20).

La categorica smentita di Bormann non pose fine alle voci; ma che cosa ispirò questo nemico della Chiesa a scrivere ai suoi fedeli gregari che il papa non aveva nulla da temere dal Reich? Forse pensava che queste voci incontrollate avrebbero potuto avere serie conseguenze fra la popolazione cattolica. Questa è forse la chiave vera perché i nazisti, che di solito non si curavano dell’opinione pubblica sia in patria sia all’estero, e per i quali sembrava non ci fosse nulla di sacro, esitavano a toccare il papa anche quando lo avevano a portata di mano.

Durante la notte fra il 4 e 5 giugno 1944, gli ultimi soldati tedeschi lasciarono silenziosamente Roma, e con loro finì l’ultima possibilità di portar via il papa per “proteggerlo”. Sei settimane dopo esplodeva una bomba nel quartier generale di Hitler sul fronte orientale e, durante le indagini che ne seguirono, vennero trovate alcune carte che contenevano cenni di rapporti fra Pio XII e la resistenza tedesca anti-nazista. Ma ormai il papa non poteva più essere raggiunto.

Probabilmente rimarremo sempre all’oscuro sulle vere ragioni per cui i piani attribuiti a Hitler e al suo entourage non ebbero mai il loro fatale compimento. Se Hitler aveva calcolato le eventuali conseguenze militari in Italia, dove le sue truppe erano ancora in una situazione delicata, egli aveva perfettamente ragione. D’altronde, non si sarebbe mai lasciato distogliere dal semplice timore della sola opinione pubblica mondiale. Era forse superstizione e temeva la maledizione che aveva colpito Napoleone? Gli storici devono ad ogni modo notare che qualunque ne fosse la ragione, l’ “Attila motorizzato”, come, secondo Wladimir d’Ormesson, lo aveva definito mons. Tardini, si era fermato di fronte al Pontefice Romano.


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