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4) Liberati per l’obbedienza (6,15-23).

15Che dunque? Dobbiamo commettere peccati perché non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia? È assurdo! 16Non sapete voi che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? 17Rendiamo grazie a Dio, perché voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quell’insegnamento che vi è stato trasmesso 18e così, liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia.
19Parlo con esempi umani, a causa della debolezza della vostra carne. Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità a pro dell’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione.
20Quando infatti eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. 21Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è la morte. 22Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. 23Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore.

Vv. 15 - 16 - Paolo riprende come una parola d’ordine: Siete sotto la grazia e non sotto la legge. Il battesimo è una rivoluzione personale, un cambio di regime, un cambio di padrone. Se noi battezzati non possiamo peccare, è perché nel battesimo abbiamo preso la decisione di obbedire a Dio una volta per tutte. Da un lato c’è ciò che il battesimo ha fatto in noi e di noi, dall’altro c’è la nostra decisione di obbedire, presa all’atto del battesimo: queste due realtà concorrono nell’impegnarci a non peccare più. Insistere a peccare significherebbe un ritorno personale in quel passato dal quale fummo liberati e annullare la nostra risoluzione di fede legata al battesimo e il vincolo nuovo allora contratto.

Alla domanda dell’interlocutore: Dobbiamo peccare per la ragione che non siamo sotto la legge ma sotto la grazia? Paolo risponde risolutamente ancora una volta: Non sia mai! Il v.16 sviluppa questo no con una domanda che è insieme un appello al sapere dei cristiani di Roma con una similitudine che richiama una condizione giuridica universalmente nota: quella dello schiavo che deve ubbidire a colui al quale appartiene. All’uomo vengono date due possibilità: o appartenere al peccato che porta con sé la morte o appartenere all’obbedienza della fede che porta alla giustizia e alla vita eterna.

Vv. 17 - 18 - L’argomentazione continua: e voi avete effettivamente compiuto questo passo, vi siete decisi all’obbedienza verso quella forma di insegnamento alla quale foste consegnati (v.17). La formulazione del v.17 non è molto lineare perché in essa l’enunciato sopra riferito si incrocia con un altro: E voi eravate schiavi del peccato, ma siete stati liberati dal peccato e siete diventati schiavi della giustizia.

La liberazione dei battezzati dal potere del peccato fu un morire, e quel morire al peccato fu una liberazione. Il diventare schiavi della giustizia indica l’evento nel quale si dischiude ai battezzati la vita nuova in Cristo. Ora si afferma che proprio questa vita nuova è un legame nuovo, un essere consegnati a Dio. Secondo Paolo la vita umana è sempre soggetta a una potenza che la reclama per sé. La libertà dell’uomo, accessibile soltanto nella fede per mezzo del battesimo, consiste nel potersi impegnare all’obbedienza. E la libertà di questa decisione è una grazia della quale siamo debitori a Dio. I battezzati, che prima erano schiavi del peccato, ora obbediscono, di tutto cuore, alla professione di fede del loro battesimo.

Vv. 19 - 20 - Paolo si scusa, in certo modo, perché parla umanamente, servendosi di un’immagine tolta dalla vita umana, a motivo dei limiti dell’intelletto che coglie l’argomento soltanto con categorie mentali e immagini insufficienti come questa: schiavi della giustizia. La schiavitù della giustizia è in effetti libertà nell’amore e per l’amore sul presupposto della libertà dalla legge (8,2 ss; 2Cor 3,17; Gal 5,1.13; 1Cor 7,23).

V. 21 - I frutti della trascorsa schiavitù nel peccato, nella libertà dalla giustizia, sono tali che ora c’è solo da vergognarsene. I risultati della cosiddetta libertà erano in ogni caso tali da far vergognare i cristiani ora che la loro mente è rinnovata (12,2) ed essi hanno acquisito una nuova comprensione della volontà di Dio (Ef 4,23; Col 1,9-10; Fil 1,9 ss.). Ma perché ora si vergognano delle cose che quella libertà regalava loro? La risposta è molto concisa: il loro risultato è la morte eterna.

V. 22 - Ora invece i cristiani godono della vera libertà e prestano il giusto servizio, quello dei servi di Dio, e così hanno come frutto e risultato la vita eterna.

V. 23 - Il peccato paga col soldo della morte chi milita per lui (6,13). Dio invece elargisce come dono della sua grazia la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore. Non dunque la giustizia e la santità a pagare, ma è Dio. E Dio non retribuisce con una mercede, ma dona.

Il libero dono di grazia di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore.

5) La libertà dAlla legge (7,1-6).

1O forse ignorate, fratelli - parlo a gente esperta di legge - che la legge ha potere sull’uomo solo per il tempo in cui egli vive? 2La donna sposata, infatti, è legata dalla legge al marito finché egli vive; ma se il marito muore, è libera dalla legge che la lega al marito. 3Essa sarà dunque chiamata adultera se, mentre vive il marito, passa a un altro uomo, ma se il marito muore, essa è libera dalla legge e non è più adultera se passa a un altro uomo. 4Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla legge, per appartenere ad un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio. 5Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. 6Ora però siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e non nel regime vecchio della lettera.

Ridotto all’essenziale questo è il discorso svolto nei Cap. 5 e 6: in quanto giustificati per la fede, noi ci gloriamo della speranza della gloria futura (5,1-11). Infatti per mezzo della giustificazione di Cristo sono entrate nel mondo la grazia e la vita divina (5,12-21); ora noi nel battesimo abbiamo questa grazia e siamo stati sottratti alla potenza del peccato tramite la fede e il battesimo, siamo coloro che vivono per Dio, ossia hanno ricevuto la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore (6,15-23). Ora Paolo continua in 7,1-6 dicendo che siamo stati anche liberati dalla legge, la quale suscita e promuove il peccato (7,7-25). E così dopo i brevi accenni al rapporto legge e peccato fatti in 3,20; 4,14-15; 5,13-20, Paolo assume ora questo rapporto come tema specifico del suo scritto.

Vv. 1 - 4 - Paolo parla della legge ebraica che non è più in vigore per i cristiani perché sono morti alla legge. I cristiani di Roma sono morti alla legge a cui erano vincolati e ora possono appartenere ad un altro, cioè a Cristo risuscitato dai morti. Ciò che è avvenuto nel battesimo viene definito morire alla legge. Questa messa a morte, come risulterà al v.6, è una liberazione. Conseguenza del morire alla legge nel battesimo è che il battezzato appartiene a un altro. L’altro è il Crocifisso risuscitato dai morti. Ma l’essere proprietà di Cristo ci rende atti a produrre frutti per Dio. L’essere morti alla legge e l’essere stati liberati da essa non è avvenuto perché noi, sottratti alla signoria della legge, appartenessimo a noi stessi e producessimo frutti per noi, ma perché appartenessimo a Cristo e producessimo frutti per Dio. Il produrre frutti per Dio è possibile solo ora e solo a colui che è morto alla legge e appartiene al Signore Gesù Cristo.

V. 5 - Questo versetto richiama ancora una volta il vecchio modo di essere, cessato col battesimo. Il passato ormai trascorso ora viene chiamato essere nella carne. Con ciò non intende il modo di essere qui in terra, ma un modo di vivere egoistico, secondo le passioni peccaminose che operavano nelle nostre membra e si manifestano nelle nostre azioni. Queste passioni vengono suscitate in noi dalla legge. Anche in questo passo il rapporto tra il peccato e la legge è appena sfiorato, ma presto sarà al centro del discorso.

V. 6 - Ma qual è la consegna di questa efficacia dispiegata dalle passioni peccaminose eccitate dalla legge? Un produrre frutti per la morte. Il peccato prodotto dalla legge produce la morte. Ma ora noi per la legge non esistiamo più, siamo stati sciolti e liberati da essa. In che modo? La situazione che Paolo ha in mente è la stessa di Gal 3,23.

Nel battesimo siamo stati liberati dalla prigione della legge. Per essa noi siamo come morti. Ma che cosa consegue da questo evento? Che noi serviamo a Dio nel nuovo regime dello Spirito e non più secondo il vecchio principio della norma scritta. Il nostro servire non ha fine con la liberazione dalla schiavitù della legge. La vita è un continuo servire.

Solo che ora questo servire si attua nella novità dello Spirito. Lo Spirito ci rende accessibile (nella fede e nel battesimo) la novità di vita e ci tiene saldi in essa. Questa novità di vita prodotta e conservata dallo Spirito, nella quale ora prestiamo il servizio della nostra vita, è in contrasto pieno con il vecchio modo di vivere secondo la norma scritta, cioè secondo la legge. C’è un contrasto insanabile tra la legge che uccide e condanna (in quanto suscita sempre il peccato) e lo Spirito vivificante che dona la giustizia. Il servizio che il battezzato è chiamato a compiere è rivolto al nuovo ossia allo Spirito. E questo servizio non ha più nulla in comune con la legge e con il servizio alla legge. Il battezzato è morto per la legge e vive nella nuova esistenza escatologica dello Spirito.

6) La legge e il peccato (7,7-13).

7Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare. 8Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto 9e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita 10e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. 11Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. 12Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. 13Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento.

A questo punto della lettera sorgono delle domande: Non è forse singolare il parallelismo tra Rm 6 siamo morti al peccato e Rm 7,1-6 siamo morti alla legge? La nostra liberazione dal dominio del peccato può essere effettivamente anche liberazione dalla legge e viceversa? A prima vista parrebbe che legge e peccato siano tra loro strettamente connessi o addirittura identici. Detto in breve il problema è questo: se la legge suscita il peccato non è forse peccato la legge stessa? Il brano 7,7-13 ci dà la risposta.

V. 7 - La domanda è posta in poche parole: La legge è il peccato? Paolo risponde: Certamente no! Il rapporto tra legge e peccato non è un rapporto di identità. Se la legge non è il peccato, è però vero che io non avrei conosciuto il peccato se non attraverso la legge. Il concetto non è che tramite la legge l’uomo ha avuto notizia del peccato e ne ha fatto conoscenza, ma che attraverso la legge l’uomo è giunto a peccare. Questo è dunque il pensiero di Paolo: la legge non è il peccato. Tuttavia considerando il passato, si deve ad essa se l’uomo ha fatto l’esperienza del peccato. Il discorso verte sul fatto che la concupiscenza si scatena proprio perché la legge è contraria ad essa, sul fatto che l’uomo viene eccitato alla concupiscenza egoistica proprio dalla legge che non vuole quella concupiscenza. Ma come può avvenire ciò? Paolo sviluppa il tema nei Vv.8-11. Non dipende dalla legge in sé, ma dalla potenza del peccato, se l’incontro fra la legge e l’uomo avviene in modo che la legge provoca il peccato o l’egoismo concupiscente, e in modo che attraverso la legge si dispiega il peccato.

V. 8 - Ritorna in campo quella potenza del peccato che, per effetto di Adamo e della sua disobbedienza, è entrata nel mondo come la potenza che vincola ogni uomo in ragione della sua discendenza da Adamo, ma che, proprio come potenza, è venuta meno in virtù dell’obbedienza di Cristo, per chiunque accetti il dono della giustizia di lui e venga inserito, tramite il battesimo, nella sua morte e nella sua risurrezione. La potenza del peccato colse l’occasione della legge e produsse nell’uomo ogni concupiscenza. Questa concupiscenza agisce negli adempimenti e nelle opere della legge. Queste opere della legge che non possono giustificare l’uomo, secondo Paolo si esprimono nel vanto per il proprio comportamento morale (Rm 3,27; Ef 2,9). Quando l’adempimento della legge è imperniato sull’Io, gloriandosi di se stessi, traendo la propria edificazione da se stessi e innalzando se stessi, è peccato, perché è egoismo, esattamente il contrario di quanto si proponeva la legge: l’amore per Dio e per il prossimo. È stato dunque il peccato, accortosi dell’occasione propizia, a produrre questa concupiscenza di ogni genere nell’uomo.

E questa ingiustizia è insita tanto nell’ingiustizia quanto nella sicurezza della propria giustizia. Questa vicenda è la storia stessa di Adamo. Ogni uomo rende presente Adamo nella propria esistenza quando, sulle orme di lui commette il peccato (1Cor 15,21-22.48-49) e ogni uomo ripete la vicenda di Adamo a motivo del peccato di lui.

Il processo di fraintendimento e violazione della legge per opera della potenza del peccato può essere illustrato con l’esempio di Adamo. Il che avviene nei Vv.9-10. La formulazione usata da Paolo richiama il racconto della Genesi e la vicenda di Adamo che si ripete continuamente in ogni uomo.

V. 9 - Da quanto segue, risulta che qui si tratta della condizione dell’uomo nel paradiso terrestre (Gen 2,7-16), in altre parole, di Adamo. L’Apostolo pensa a Gen 2,16-17: Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando ne mangiassi, certamente moriresti". Fu proprio questo comando (e con esso la legge in generale) a chiamare in vita il peccato.

V. 10 - La conseguenza di questo fu la morte. Il peccato porta sempre con sé, come esito finale, la morte davanti a Dio (Rm 5,21). Vi è quindi una corrispondenza tra i due enunciati: il peccato è morto - l’uomo vive; il peccato vive - l’uomo è morto. Ma il passaggio dall’una all’altra di queste realtà è segnato dalla legge o dall’incontro con la legge; infatti per opera della legge la potenza del peccato giunge a manifestarsi o a concretizzarsi nella concupiscenza egoistica. Ed ecco il risultato: per ogni singolo uomo, in ragione della sua origine in Adamo, proprio il comando dato per la vita si è dimostrato strumento di morte. È un paradosso enorme: la legge che, nel significato e nella sua intenzione è per la vita, nel suo attuarsi concreto dell’esistenza umana è mutata nei suoi effetti e, in contrasto con la sua finalità primitiva, si è manifestata come legge di morte. Nella sua esecuzione la legge si è imbattuta nel regno del peccato; il peccato si è servito delle norme della legge per eccitare la propria caratteristica fondamentale, la concupiscenza, l’atteggiamento dell’uomo che mira a se stesso tanto nell’ingiustizia quanto nella soddisfazione per la sua giustizia. La legge non è il peccato, ma è divenuta strumento del peccato e quindi anche della morte. In altre parole: la legge nella sua origine ed essenza non è il peccato; anzi, nelle sue norme concrete, è legge di giustizia e di vita.

Ma essa diventa, nella vita storica dell’uomo, nell’ambito della potenza del peccato, strumento di questa potenza, mezzo con il quale il peccato produce peccato. Ma come si spiega che il peccato può precipitare l’uomo, servendosi della legge come strumento, nella concupiscenza e nel peccato e così farlo morire? La potenza del peccato non ha soltanto il potere di esplicarsi negli atti peccaminosi dell’uomo e di uccidere il peccatore, ma anche quello di illudere, di ingannare: proprio perché inganna l’uomo, la legge dà al peccato la possibilità di riprodursi. Peccare significa sempre in certo modo ingannare se stessi. La legge, in quanto provoca l’egoismo, ci mette sempre davanti a una persona ingannata dal peccato.

Essa suscita l’illusione dell’ingiustizia e della soddisfazione per la propria giustizia, l’illusione cioè di potersi procurare, in un modo o in un altro, la vita.

V. 11 - Anche nella formulazione di questo versetto ritorna un’eco del racconto della Genesi; e così l’evento sperimentato da ogni uomo appare nella sostanza un evento accaduto all’uomo in quanto tale come fatto esistenziale. Nell’interpretazione del serpente o di satana il comando appare suscitatore di peccato. Il comando, in contrasto con la sua funzione e volontà, per effetto della potenza del peccato suscita nell’uomo l’egoismo, suscita la concupiscenza che è un desiderare egoistico, un desiderare per sé.

Sotto il richiamo della legge il peccato dà all’uomo l’illusione di potere - con la trasgressione o con l’adempimento formale della legge - procurarsi la vita. L’uomo pecca sempre:

1. ritenendo di trovare nel non adempimento della legge il compimento della vita, oppure

2. ritenendo di procacciarsi vanto o credito presso Dio, cioè la vita, con l’adempiere i comandamenti in spirito di autonomia e di autoaffermazione, ossia col ricercare la propria giustizia o la soddisfazione per la propria giustizia. E questo è sempre mettere al centro se stessi invece di Dio. È egoismo, il contrario dei comandamenti di Dio che è Amore. È il peccato.

V. 12 - Qui trova risposta la domanda del v.7: La legge è santa e il comandamento è santo, giusto e buono.

La legge in quanto tale, nella sua origine e nella sua essenza, non è peccato. È santa. Ossia essa appartiene a Dio, non al mondo, ed è perciò intangibile; partecipa della santità di Dio, ne rappresenta la sua volontà. La legge è santa perché divina; è giusta perché è conforme alla giustizia di Dio; è buona perché contiene la volontà di Dio che è buona; ossia reca e vuole la vita e non la morte (Rm 10,5; Gal 3,12).

La domanda del v.7 era: La legge è peccato? La risposta è: No! Il comandamento è santo, giusto e buono. Fra la domanda e la risposta si colloca la spiegazione: il peccato abusa della legge per moltiplicarsi e diffondersi nella concupiscenza egoistica dell’uomo che esso inganna.

V. 13 - In questo versetto la domanda è più stringente: Ciò che è bene sarebbe diventato per me causa di morte? La risposta è no. Non è il bene che è diventato per l’uomo causa di morte, ma il peccato. Il peccato uccide l’uomo tramite la legge santa, giusta e buona:

1. affinché il fenomeno del peccato risulti evidente e quindi non trascurato nella sua terribilità; in altre parole: per manifestarsi come potenza che procura la morte servendosi del bene (= la legge);

2. ma questo avviene affinché il peccato dimostri la sua specificità di essere peccaminoso all’eccesso, oltre ogni misura. Tramite il comandamento stimolatore della concupiscenza, il peccato produce e consegue la sua intera peccaminosità, la sua piena realtà di peccato, che nasconde in sé l’abisso della morte. Attraverso la legge di Dio, santa, giusta e buona, che per principio dovrebbe condurre l’uomo alla vita, ma di fatto storicamente, procura la morte, il peccato manifesta fino in fondo la sua essenza di peccato.

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