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 10) L’anelito di tutti alla gloria (8,18-30).

18Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi.
19La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza 21di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. 24Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? 25Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
26Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.
28Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.

V. 18 - Rifacendosi alla connessione appena fissata tra la sofferenza e la gloria futura, Paolo afferma che i patimenti del tempo presente non contano nulla rispetto alla gloria incomparabile che si manifesterà in noi.

Rispetto al peso sovrabbondante ed eterno della gloria tutti i dolori sono una lieve tribolazione momentanea (2Cor 4,17). Il futuro di chi ha fede e speranza compenserà abbondantemente il presente e col suo splendore trascenderà incomparabilmente le miserie del presente. Tutta la creazione attende la manifestazione della gloria e anela ad essa. A questa gloria, che è la nostra speranza, va il gemito della creazione (Vv.19-22), dei cristiani che hanno lo Spirito (Vv.23-25), anzi dello Spirito stesso (Vv.26-27). Dove c’è attesa e desiderio, speranza e anelito, dove in qualsiasi modo ci si protende al di là di se stessi, ivi, secondo Paolo, si cerca la gloria della nostra salvezza.

V. 19 - L’apostolo volge lo sguardo alla creazione. Non è però ben chiaro che cosa egli intenda con la parola creatura o creazione. Già s. Agostino dichiarava: Questo capitolo è oscuro, perché non appare abbastanza chiaro ciò che qui l’Apostolo intende per creatura. Per comprendere Rm 8,18 bisogna considerare il contesto, dal quale risulta con certezza:

1. Paolo intende tutta la creazione (v.22). Egli ha davanti agli occhi la creazione sottoposta nel suo complesso alla vanità e alla corruzione, ossia gli uomini in quanto privi dello Spirito, la natura animata e inanimata, le potenze e le potestà (Rm 1,20).

2. Si tratta della creazione caduta in tale schiavitù per causa di Adamo.

3. La sua liberazione è connessa con quella dei figli di Dio (v.21).

4. Si tratta in ogni caso della creazione nel suo complesso, riferita all’uomo e al suo destino umano. Qui dunque la parola ctìsis designa probabilmente la natura e la storia in quanto sono create e ora rappresentano il mondo corrotto degli uomini, la creazione decaduta, ivi comprese le potenze.

A questa creazione, ossia al complesso della creazione, viene attribuito un anelito indefinito, un guardare al di là di sé scrutando l’orizzonte, un protendersi al di là di se stessa in uno stato di attesa di qualcosa che la trascende. La creazione quale si trova ad essere e quale si presenta nella sua corruzione all’occhio della fede, non è del tutto chiusa in se stessa, ha coscienza di essere incompiuta nella sua temporalità e finitezza, ma è colma di inquietudine e aspetta un’altra realtà che la trascende: è in tensione verso la gloria. Il creato è fatto per l’uomo. Così la creazione, ivi compreso l’uomo in quanto creatura, anela alla gloria che un giorno si effonderà sull’uomo, intorno all’uomo e nell’uomo e dalla quale anch’essa sarà investita. Essa attende la rivelazione dei figli di Dio, anela alla manifestazione di ciò che i cristiani già sono nella fede e che tutti gli uomini possono e devono essere: glorificati. Ma l’uomo glorificato è l’uomo in quanto figlio di Dio che è erede di Dio e coerede di Cristo. In tal modo viene a gravare sull’uomo una responsabilità sconfinata: quella di dare compimento all’anelito della terra e del cielo.

V. 20 - Senza alcun concorso da parte sua, la creazione è stata trascinata, per colpa di Adamo, nella vanità della sua presente esistenza storica; le rimane però la speranza appunto nei figli di Dio. Sottoposta da Dio, per colpa di Adamo, alla condanna della vanità e del disfacimento la creazione alla quale appartiene anche l’uomo come creatura, aspetta ardentemente la propria liberazione e la scorge ansiosamente in un futuro che può venire solo da Dio. Dio non l’ha imprigionata in un destino senza scampo, ma le ha concesso una speranza. Per questo la creazione aspetta e brama qualcosa che la trascende.

V. 21 - La creazione dunque, nel suo stato di vana parvenza, è legata alla speranza di essere liberata: l’esistenza escatologica dei figli di Dio con la sua potenza e il suo splendore libererà la creazione restituendola alla sua realtà e autenticità. Questa gloria non verrà dalla creazione stessa per evoluzione, ma sarà la gloria che i figli di Dio sperimenteranno in sé e in cui la creazione viene inserita. I figli di Dio ricevono la loro gloria in quanto partecipano alla gloria di Cristo.

V. 22 - Questo sappiamo non è una conoscenza scientifica, ma una conoscenza per fede. Colui che sa per fede ode il sospiro e il gemito della creazione gravata dal peso e dal dolore della sua esistenza prigioniera. La creazione quindi non è muta per chi sa, anzi gli svela la propria attesa di una realtà ineffabile che la trascende. Il lamento della creazione è il travaglio di una partoriente. Tutto il dolore della creazione non è annunzio e principio di morte, ma di salvezza, e ogni gemito in tutto il mondo, ogni attesa e ogni brama, ha un significato: la gloria della salvezza, la gloria dei figli di Dio, nella gloria di Cristo. Nelle sofferenze agisce fin d’ora, seppure nascosta nell’impotenza e nell’oscurità, la presenza irresistibile di Dio, con la sua potenza e il suo splendore.

Vv. 23 - 25 - Ma non soltanto la creazione è testimone della gloria futura, ma anche i cristiani. Anch’essi anelano a una manifestazione: alla rivelazione di se stessi nella gloria, che fin d’ora esiste in loro ma allo stato occulto. Noi cristiani abbiamo lo Spirito. Egli è una primizia che promette qualcosa di più, un anticipo, un primo pagamento, che però garantisce l’acquisto complessivo e definitivo. Il compimento definitivo sarà la redenzione del nostro corpo, la libertà della gloria. Lo Spirito è la forza dell’autorivelazione di Dio e la potenza con cui Dio e il Cristo si fanno presenti. Egli è la realtà a cui si conformano il nostro essere e la nostra esistenza (Rm 8,4.5), che regola tutto il nostro comportamento da cristiani (Gal 5,16); noi siamo guidati da lui (Rm 8,4; Gal 5,18); in virtù dello Spirito noi sconfiggiamo le nostre opere egoistiche (Rm 8,13). Nella potenza dello Spirito, attraverso la sofferenza, noi prepariamo a noi stessi il peso sovrabbondante della gloria (2Cor 4,17), e gemiamo anelando ad essa.

Anche i cristiani che hanno lo Spirito attendono il momento in cui avverrà la trasformazione della loro esistenza corporea (1Cor 15,42 ss).

Essi bramano che Cristo, a compimento dell’adozione a figli instaurata nello Spirito, trasformi il corpo della miseria e lo renda simile al suo corpo di gloria (Fil 3,21). Il loro ardente desiderio non è che questo corpo venga distrutto perché l’anima possa più speditamente giungere a Dio, ma che questa esistenza fisica e corporea, liberata dal peso delle tentazioni e dalla mortalità, possa entrare ed espandersi nella libertà della gloria, che è una partecipazione alla gloria di Gesù Cristo.

I Vv.24-25 spiegano ancora una volta e in altro modo il motivo per cui anche i cristiani gemono e attendono. Noi siamo stati salvati per la speranza. La salvezza per noi è già venuta, nel battesimo e nel vangelo, e continua a venire nel vangelo e nell’eucaristia, così che noi possiamo coglierla nella fede, ed essa agisce nella carità che fa di tutti i carismi un dono d’amore. Ma la salvezza ci è venuta e ci viene pur sempre sul fondamento della speranza perché manca ancora l’esperienza della visione a faccia a faccia. Noi siamo salvati in vista di un avvenire. La nostra esistenza di salvati è aperta ad una salvezza futura ancora nascosta. Anche noi abbiamo lo Spirito, gemiamo e attendiamo. Siamo stati salvati nel senso che speriamo in un certo bene.

Ma che cos’è la speranza? Non è qualcosa di visibile, ma uno stato di attesa. Noi quindi aspettiamo con pazienza. Speranza, attesa e pazienza sono tra loro connesse. Una vera speranza e una vera attesa si manifestano nella pazienza (Rm 12,12; 15,4; 1Ts 1,3). La forza di attendere dà una capacità di non cedere, di non essere sopraffatti, ma di reggere il peso del presente e di conservare ciò che si è ricevuto (Schlatter).

V. 26 - Ma vi è ancora un altro che geme dimostrando così la grandezza della gloria futura: è lo Spirito santo. Il gemere dello Spirito è un gemere per noi, è un venire in soccorso della nostra debolezza, della nostra insufficienza e incapacità. Lo Spirito col suo gemito ci soccorre nel nostro gemito; ci sgrava in parte di una fatica perché noi siamo troppo deboli: siamo deboli nel senso che noi preghiamo, ma, nel pregare, solo debolmente consideriamo, vogliamo e diciamo ciò che è conveniente, ciò che è doveroso, ciò per cui anzitutto e propriamente dobbiamo pregare, ciò che è conforme alla volontà di Dio. Nelle nostre preghiere noi gemiamo anelando a quella gloria, ma siamo veramente consapevoli e veramente vogliamo, soltanto se lo Spirito stesso intercede per noi pregando nei nostri cuori, se leva la sua voce in noi e per noi. Proprio questo levare la sua voce per noi è il soccorso che egli reca alla nostra debolezza.

Il gemere dello Spirito non ha linguaggio, neppure quello della glossolalìa. È senza parole alàletos, inenarrabile, inespresso, già per la mancanza di qualsiasi vocabolo idoneo a significare la realtà che suscita il gemito, perché la dòxa, la gloria, trascende ogni linguaggio. Ma in pari tempo quel lamento dice pure qualcosa. È un gemito levato da Dio a Dio per noi, nei nostri cuori. È il gemito di chi non ha la nostra debolezza, ma vi partecipa e se ne fa carico.

V. 27 - Dio che scruta i cuori, ode la voce dello Spirito che sale a lui dal cuore dei cristiani. Dio sa quello che lo Spirito vuole: solo e sempre la volontà di Dio nei nostri riguardi. Dio sa quello che vuole lo Spirito in noi: la manifestazione della sua gloria in coloro che egli ha già reso santi nella fede.

Vv. 28 - 30 - Ma Dio non solo conosce l’invocazione senza parole dello Spirito per noi, ma anche la esaudisce. Infatti Dio soccorre in ogni modo i santi che egli ha chiamati e che lo amano. Per coloro che lo amano, Dio non fa accadere nulla che non serva alla loro salvezza. Dio è pensato come colui che agisce per il bene in tutte le cose, anche nella sofferenza.

Coloro che amano Dio sono qualificati come chiamati secondo la volontà di Dio. Dio ha prevenuto coloro che lo amano. La sua chiamata ha dischiuso loro i favori di Dio. I santi che amano Dio lo amano in risposta all’eterna chiamata del suo amore in Gesù Cristo. Dio volgerà ogni cosa a profitto della loro salvezza.

Questa realtà della salvezza si trova descritta in Ef 1,5 con una formulazione particolare, ossia che Dio ci ha predestinati a essere suoi figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo. Nel nostro passo la figliolanza per mezzo di Gesù Cristo viene espressa con altre parole: per essere conformi all’immagine del Figlio. In altre parole: fin dal principio Dio ha predestinato gli uomini a divenire partecipi dell’essere in Cristo.

Il termine morfè, forma, non designa l’aspetto esteriore, ma il modo di essere. Il vocabolo eikòn, immagine, indica qui la manifestazione dell’essenza. L’immagine di Cristo è un’esistenza corporea piena di gloria (Fil 3,21; 2Cor 3,18; 4,4). Il termine fisso a cui Dio ha predestinato l’esistenza umana come si manifesterà in coloro che lo amano (v.23) è la partecipazione alla gloria di Cristo, ad avere come lui la sovrabbondanza della gloria nel proprio corpo. In tal modo Dio ha associato a Cristo, il primogenito, molti fratelli affinché egli fosse il primogenito tra molti fratelli. La destinazione originaria dell’esistenza umana è di partecipare, in Cristo e tramite Cristo, alla gloria ossia al modo di essere di questo fratello primogenito. Egli è tale sia in rapporto alla creazione (Col 1,15) sia in rapporto alla risurrezione dai morti (Col 1,18; Rm 8,11; 1Cor 15,22 ss.; Ap 1,5). Questa gloria, che è la condizione futura dell’uomo stabilita dall’eternità, ci è già stata elargita: ci ha glorificati con Cristo (v.30).

Il compimento storico della predestinazione prende le mosse dalla chiamata che è avvenuta e continua ad avvenire nella predicazione del vangelo (1Ts 2,12; 5,24; 2Ts 2,14). Nell’annuncio del vangelo Dio ci ha chiamati alla comunione col Figlio suo Gesù Cristo, nostro Signore (1Cor 1,19). Ma insieme con questa chiamata è accaduto anche dell’altro: E coloro che ha chiamati, li ha anche giustificati. L’esistenza del chiamato è diventata giusta nella risposta della fede. In Rm 5,9 abbiamo letto che noi siamo stati giustificati nel sangue di Cristo. E in Rm 5,1 Paolo diceva: giustificati per fede, abbiamo pace. In 1Cor 6,11 sta scritto: Ma voi siete stati lavati (nel battesimo), voi siete stati santificati, siete stati giustificati per il nome di nostro Signore Gesù Cristo e lo Spirito santo del nostro Dio. Tramite la morte di Cristo i chiamati sono ammessi, per la fede e nel battesimo, alla giustizia di Dio e sono giustificati in modo tale da sperimentare in anticipo la futura giustificazione che dà la vita (Rm 5,18). La chiamata di Dio si manifesta come giustificazione della nostra esistenza da parte della giustizia di Dio.

Infine la giustificazione dell’esistenza si manifesta fin d’ora come ingresso nella gloria: Coloro che ha giustificati, li ha anche glorificati. Il verbo edòxasen è un aoristo che designa un fatto già compiuto. Dunque la gloria non è solo futura. La glorificazione non è solo una speranza. Essa è anche un’anticipazione concessa da Dio per grazia, la quale non solo esprime la certezza del futuro, ma designa un avvenimento presente e attuale. Come la gloria del vangelo è brillata sul volto di Cristo (2Cor 4,4.6), così noi, rivolti al Signore e al suo Spirito e contemplando la sua gloria nello specchio del vangelo, già ora veniamo trasformati da gloria a gloria, nell’essenza gloriosa di Cristo (2Cor 3,16 ss.). Quindi la gloria ci ha già afferrati e circondati completamente. L’esistenza cristiana di essere chiamati e giustificati è già entrata nel grande oceano della gloria traboccante.

Ripercorriamo la pericope 8,17-30. La vita terrena è ricolma di tribolazioni e di dolori. Ma le si dischiude una prospettiva travolgente che Paolo sa indicare soltanto col vocabolo dòxa, gloria. Di fronte a questa gloria le sofferenze di questa terra perdono tutto il loro peso. Il moto fondamentale di tutta la creazione vincolata alla corruzione e condannata ad essere vana, irreale, tende alla gloria che si manifesterà negli uomini che conseguiranno la libertà definitiva, ossia nei figli di Dio quando diverranno manifesti. Tutto ciò che è creatura è compreso nel destino e nella libertà dell’uomo. Nel suo divenire, la creazione, percorsa da un unico grande gemito, espressione dei dolori presenti e della certezza della gloria futura, è tutta un travaglio generativo che sfocerà nella pienezza trascendente e sovrabbondante della gloria. Questa gloria comprende anche la redenzione dell’esistenza corporea, la quale per effetto del battesimo e nella fede, fin d’ora non è più in balìa del peccato e della morte, ma è pur sempre mortale e soggetta alla tentazione, esposta dunque alla possibilità di soggiacere al peccato e alla morte. I cristiani, in virtù dello Spirito hanno acquisito nella fede la libertà di amare e di sperare, ma nella loro esistenza carnale sono ancora vincolati alla bassezza del loro passato. A questa potrà sottrarli solo la manifestazione travolgente della gloria futura. Anche i cristiani quindi gemono anelando a questa realtà avvenire. E con loro geme lo Spirito stesso; geme per loro. Con il suo gemito impercettibile, senza parole, lo Spirito viene in soccorso di coloro che gemono e pregano senza però comprendere veramente per che cosa si debba pregare. Così egli trasforma la preghiera dei deboli (i cristiani!) in una preghiera forte, cioè nella schietta preghiera per la gloria. E Dio ascolta questa preghiera elevata dallo Spirito nei cuori e la esaudisce. E Dio da tutta l’eternità ha predestinato l’uomo alla gloria e l’ha già data ai giustificati nell’atto stesso di chiamarli. Tutto attende la gloria; l’attendono le creature e l’attende lo Spirito.

11) L’amore di Dio in Gesù Cristo supera ogni cosa (8,31-39).

31Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? 32Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? 33Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. 34Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? 35Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 36Proprio come sta scritto:
Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo trattati come pecore da macello.
37Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Paolo si avvia rapidamente a concludere il suo capitolo sullo Spirito e quindi il suo discorso sui doni di Dio concessi all’uomo giustificato.

Paolo abbandona il piano dell’esposizione dottrinale e avvia un discorso carismatico, impregnato di elementi della diatriba.

V. 31 - L’espressione tutto ciò si riferisce a quanto detto precedentemente: essa include tutto il cap. 8 o addirittura i cap. 5-8. Il contenuto di tutto ciò riguarda le opere di salvezza compiute da Dio in Gesù Cristo mediante lo Spirito santo. Paolo lo concentra nella semplice espressione: Dio è per noi. Emerge qui la scena del giudizio finale. La vita dell’uomo si svolge costantemente e fondamentalmente in una condizione di responsabilità di fronte al giudizio di Dio. Paolo non dà risposta alla domanda perché la risposta è già contenuta in essa: Dio è per noi.

V. 32 - Qui si parla del sacrificio di Gesù Cristo per noi, del sacrificio col quale ci viene concessa ogni cosa. Il per noi di Dio si manifesta nell’aver dato per tutti noi il Figlio suo; nel consegnare il Figlio a vantaggio di tutti noi. E col dare il Figlio suo per noi tutti Dio ci concede tutto. In Gesù Cristo è contenuta ogni salvezza, la salvezza definitiva e totale, la nostra eredità. Tutto ciò che Dio ci ha dato donandoci suo Figlio è un suo libero dono, l’effusione della sua grazia.

V. 33 - Dio non muoverà certo delle accuse contro gli eletti. Egli infatti è colui che giustifica, colui che rende giustizia, colui che fa essere giusto l’uomo, che lo predestina, lo chiama, lo glorifica.

V. 34 - Prosegue la domanda con soggetto il Cristo invece di Dio Padre. Cristo non ci condanna. Egli infatti è morto e risorto, partecipa della potenza di Dio e come tale intercede per noi. L’evento storico della sua morte per noi prosegue in certo modo nell’essere il Glorificato, in quanto tale, per noi. Perciò il Cristo che intercede per noi davanti a Dio, non può condannarci, così come non può accusarci Dio che giustifica.

V. 35 - Dio non ci accusa, ma ci giustifica. Cristo non ci condanna, ma intercede per noi. E nulla e nessuno può separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, Signore nostro. Tutto quello che abbiamo sperimentato in Gesù Cristo viene condensato nell’espressione: amore di Cristo. Questo amore si è manifestato nella donazione che Cristo ha fatto di se stesso per noi sulla croce. In questo amore agisce l’amore del Padre che si impossessa di noi nell’amore di Cristo (Rm 15,30). Da tale amore non può separarci nessuna avversità che incontriamo nel mondo presente. Le sette esperienze di avversità sono le esperienze stesse di Paolo e le esperienze fondamentali di ogni cristiano: esse illustrano la differenza tra l’esistenza mondana e quella escatologica.

V. 36 - Tutto è concentrato sulla citazione del Sal 43,23 LXX, che i rabbini riferivano al sacrificio del martire. Tutte le esperienze amare e spaventose menzionate nel versetto precedente sono un incessante essere messi a morte ed essere portati al macello a motivo di Cristo.

V. 37 - L’amore di Cristo ci fa essere vincitori anche e soprattutto nelle tribolazioni escatologiche che con lui condividiamo. Nulla (neppure la morte) ha il potere di vanificare la nostra vittoria. In questo caso c’è più che una vittoria, c’è un trionfo, se è vero che persino la concreta morte di tutti i giorni non ci allontana dall’amore di Cristo proprio in virtù di questo amore che non ci abbandona mai e ci ama in modo assoluto.

Ma non si tratta soltanto di essere vincitori nel dolore e nei travagli che noi subiamo principalmente dagli uomini, ma anche di essere vincitori delle potenze che ci minacciano dal cielo e dalla terra.

V. 38 - Anche il cosmo con le sue potenze non può separarci dall’amore di Dio. Sono enumerate dieci potenze. Al primo posto sta la morte, che secondo 1Cor 15,26 è l’ultimo nemico e quindi la potenza peggiore. Qui però la morte è accoppiata a un’altra potenza: la vita. Anche la vita può allettarci con le sue lusinghe a volgere le spalle all’amore di Dio ed essere quindi un pericolo. Persino la vita calma e innocua, non meno della vita agiata e pericolosa, può diventare una realtà ostile, proprio perché separa dall’amore di Cristo. I cristiani non devono vivere per se stessi o per il mondo, ma devono vivere e morire per il Signore (Rm 14,7-9). Al secondo posto si trovano gli angeli e i principati, ed entrambi sono concepiti quali potenze del mondo del demonio. A queste potenze appartengono anche le forze cosmiche delle specie più svariate.

Queste forze e potenze vogliono separare i cristiani dall’amore di Cristo. Anche il tempo presente e futuro e lo spazio sono una continua tentazione e minaccia che vuole strapparci dall’amore di Dio in Cristo.

V. 39 - L’altezza e la profondità dell’universo designano tutto il creato. Tutte queste potenze che circondano e sollecitano l’uomo non possono separarci dall’amore che Dio ci ha manifestato e continua a manifestarci in Gesù Cristo.

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