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III°
IL MISTERO D’ISRAELE
(9,1-11,36)

Il tema trattato in questa terza parte è, unitariamente e senza digressioni, Israele e la sua sorte. La connessione dei cap.9-11 con le precedenti parti della lettera è data dal tema della giustizia della fedeltà di Dio al patto, manifestatasi nel vangelo, che rende giusto colui che crede in Cristo e considera Cristo come giustizia di Dio. Questo è il nucleo dell’enigma di Israele: esso ha respinto la giustizia di Dio apparsa in Gesù Cristo e accessibile nella fede, attestata proprio dalla Legge e dai Profeti (3,21). Ma in questo modo l’Israele eletto, che non volle rinunciare alla propria giustizia (l’autogiustificazione in senso fondamentale) e non volle rimettersi alla giustizia di Dio, ha preso una decisione che contrasta con l’adempimento della promessa di Dio.

1) Il Lamento di Paolo su Israele (9, 1-5)

1Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: 2ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. 3Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. 4Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, 5i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

V. 1 - Paolo confessa la sua infinita tristezza per Israele e si dichiara pronto a sacrificare il massimo per il suo popolo, per la sua salvezza in Cristo Gesù. Ciò che ha da dire su Israele, lo dice dunque per un ardente attaccamento. Il suo popolo potrebbe anche non credere, ma egli dice la sincera verità, la verità di Cristo che è in lui. E siccome la coscienza umana di Paolo potrebbe sbagliare, egli aggiunge che la testimonianza della sua coscienza è resa nello Spirito santo.

Ma che cosa assicura egli in modo talmente accentuato?

Vv. 2 - 3 - La tristezza di Paolo è grande e il dolore incessante. Per quale motivo non è detto ancora, ma diventa subito chiaro a chi si riferisca questa tristezza e a quale sacrificio essa sia preparata. Paolo sente tristezza e dolore per Israele. E per amore d’Israele vorrebbe egli stesso prendere su di sé la maledizione di essere separato da Cristo per i suoi compagni di stirpe. È il desiderio di una assoluta disposizione a portare lui stesso per il suo popolo ciò che pesa su di esso. È un’offerta concreta a Dio che ricorda Es 32,32 dove Mosè, dice a Jahvè: Perdona loro il loro peccato! Se no, cancellami dal tuo libro che tu hai scritto. Anàthema è ciò che è stato consegnato alla divinità, ciò che è stato maledetto e votato alla distruzione. Materialmente l’affermazione di Paolo richiama la formula rabbinica: Io voglio essere una espiazione (Kafara) per N.N. (Flavio Giuseppe, La guerra giudaica 5,419).

Egli vuole prendere su di sé per i suoi consanguinei terreni la maledizione che grava su Israele. Egli vuole essere separato da Cristo, nel quale si trova per il battesimo e dal cui amore nessun destino e nessuna potenza del mondo lo può separare (Rm 8,35 ss). Tutta la sua tenerezza e l’indissolubile unione con Israele si chiarisce adesso nella pienezza dell’espressione linguistica con cui egli indica i suoi fratelli e i suoi parenti secondo la carne. In questo modo egli mostra ai suoi lettori un lato del tremendo enigma d’Israele, che aveva ricevuto da Dio così grandi e numerosi privilegi e tuttavia ha resistito tenacemente al volere e all’agire di Dio.

V. 4 - I fratelli per i quali Paolo vuole prendere su di sé la maledizione sono gli Israeliti, termine usato nel senso di Giudei, che è un soprannome onorifico, un nome della storia della salvezza, che da Giacobbe (Gen 32,28-29) era passato alla lega delle dodici tribù. Essere Israeliti significa una ricchezza incomparabile, che ora viene illustrata. Ad essi appartiene la figliolanza, nella quale vengono poi accolti anche i cristiani. La uiothesìa è la figliolanza che si realizza tramite l’adozione. Dio ha adottato Israele. Israele è figlio di Dio, ma come possa la figliolanza essere tolta a lui e venire trasferita alla chiesa sta come domanda dietro questa affermazione.

Agli Israeliti appartiene anche la dòxa, il kebòd Jahweh, la gloria di Dio. Essa accompagna Israele durante la sua peregrinazione nel deserto (Es 16,10; ecc.) e in seguito dimora come segno della presenza di Dio nel tempio di Gerusalemme.

Dio ha anche stipulato con Israele le alleanze, col progenitore Noè (Gen 6,18; ecc.), con Abramo (Gen 15,18; ecc.), con Isacco e Giacobbe (Lev 26,42), con Israele al Sinai (Es 19,5; 34,16; ecc.) e ora Dio ha concluso il patto con la chiesa, composta da giudei e pagani (Gal 4,24; Ef 2,12).

Ad Israele fu data la legislazione. A questa legge è ora subentrata la legge di Cristo (Gal 6,2) che si adempie nell’agàpe della chiesa.

Anche il servizio liturgico nel tempio era proprietà d’Israele. Ora esso viene esercitato da coloro che nella chiesa professano il nome di Dio (Eb 13,15) ed è il culto spirituale (loghikè latrèia) che anche i cristiani provenienti dal paganesimo tributano a Dio con il loro agire (Rm 12,1).

Infine appartengono a Israele le promesse messianiche della benevola salvezza di Dio. Ma ora il seme di Abramo è Gesù Cristo al quale appartengono i cristiani provenienti dai giudei e dai pagani (Rm 4,14 ss; Gal 3,16 ss). Tutto ciò è, per grazia di Dio, la ricchezza di coloro che sono Israeliti: sono congiunti carnali per i quali Paolo è disposto a prendere su di sé la maledizione della separazione da Cristo.

V. 5 - Agli Israeliti appartengono i padri ai quali furono fatte le promesse (Rm 15,8) e per amore dei quali gli Israeliti sono i diletti (Rm 11,28) che costituiscono la radice che porta il nobile olivo (Rm 11,17-18). Infine proviene da Israele il Cristo secondo la carne. È onore di Israele che il Cristo provenga da Israele. L’enunciato richiama Gv 4,22: La salvezza viene dai Giudei. Per Paolo questo è un fatto sconcertante e inconcepibile: Israele rifiuta il suo Messia, mentre i pagani credono in lui. La dossologia è un’esaltazione di Cristo Gesù. Non più però il Messia terreno: egli è sopra tutti, sopra i Giudei e sopra i pagani; egli è Dio e non solo più uno strumento umano di Dio. L’amen è la formula con cui si conferma l’approvazione a quanto è stato detto.

2) Il vero Israele (9,6-13).

6Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele, 7né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: in Isacco ti sarà data una discendenza, 8cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa. 9Queste infatti sono le parole della promessa: Io verrò in questo tempo e Sara avrà un figlio. 10E non è tutto; c’è anche Rebecca che ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre: 11quando essi ancora non eran nati e nulla avevano fatto di bene o di male - perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama - 12le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore, 13come sta scritto:
Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù.

V. 6 - In questo versetto si chiarisce con due affermazioni quanto è stato detto nei Vv.1-5. Viene formulata la frase fondamentale che sostiene tutto: la parola di Dio, che creò Israele come tale, non è diventata vana. Tenendo presente lo sviluppo ulteriore del discorso potremmo dire: Israele è caduto, ma la parola di Dio che è stata inviata a Israele, non ha fallito. Paolo si oppone al sospetto di voler scagionare interamente Israele per addossare tutto a Dio. La parola di Dio non è decaduta, sebbene sia caduto Israele. Perché le cose stanno così: non tutti quelli derivanti dal popolo terreno sono Israele in senso storico-salvifico.

V. 7 - Paradossalmente non sono ancora in effetti i figli di Abramo coloro che provengono da Abramo. Coloro che derivano da Israele e discendono dal capostipite Abramo non costituiscono per ciò stesso l’Israele in quanto popolo di Dio. La qualificazione di figli di Dio o figli della promessa (v.8) non si può applicare a tutta la discendenza. Ma allora chi sono i figli della promessa? Lo dice chiaramente la Scrittura: Perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe (Gen 21,12).

V. 8 - I figli carnali di Abramo sono figli nel rapporto terreno-genealogico e come tali non sono figli di Dio. Soltanto in Isacco si hanno i figli della promessa, quindi quell’Israele che ha il suo fondamento nella promessa di Dio, che è obbligato verso la promessa di Dio, non certo quello che proviene dalla successione naturale delle generazioni. Solo quando viene fatta una promessa creatrice di Dio esiste vera figliolanza. E circa Isacco, Abramo ebbe una promessa creatrice di Dio.

V. 9 - La parola della promessa è Gen 18,10.14. Nel passo si tratta della promessa di una procreazione e nascita di un figlio, che pure avviene contro tutte le premesse naturali. Riguardo a tale promessa, Paolo ha già illustrato la fede di Abramo in 4,18 ss. E in Gal 4,21 ss. egli spiega che Isacco - come figlio della promessa - è il prototipo dei cristiani. Ad essi Paolo può dire: Ma voi, fratelli, siete come Isacco, figli della promessa (Gal 4,28). Ismaele invece diventa il tipo dei Giudei, che si vantano della loro origine carnale da Abramo (Peterson).

Che l’Israele storico come tale non coincida esattamente con l’Israele di Dio risulta ancora da un altro esempio della Scrittura, l’esempio di Rebecca e dei suoi due figli Giacobbe ed Esaù. Che fondamentalmente Dio e la sua parola facciano di Israele il vero Israele è un principio che non si è realizzato una sola volta, ma è un principio generale e sempre valido. È la norma della parola di Dio che determina la storia, e in base ad essa la storia diventa storia della salvezza. L’argomento viene chiarito nei Vv.10-13.

V. 10 - Questo versetto è incompleto. Il verbo va ricavato da ciò che precede (Rm 5,3.11; 8,23). Ma anche in ciò che precede un verbo corrispondente non si trova. Così si dovrà completare l’espressione in base al contesto: Ma non soltanto essa (Sara), bensì anche Rebecca, che fu incinta di un uomo, è un tipo. Se nei confronti del precedente esempio di Sara si sarebbe potuto obiettare che la presenza di due madri diverse, Agar e Sara, rendeva possibile un trattamento diverso dei discendenti, ciò non è più possibile con i figli di Rebecca. Essi hanno infatti lo stesso padre e la stessa madre. A ciò si aggiunge ancora un altro fatto che viene spiegato nella frase seguente e mette in chiara luce il sovrano e libero agire di Dio, il quale previene tutta la storia ed era già riconoscibile in Isacco e Ismaele: la preferenza data a Giacobbe rispetto a Esaù (Vv.11-12).

Vv. 11 - 13 - La costruzione della frase è alquanto intricata. Ma il contenuto è chiaro. Dio disse a Rebecca: Il maggiore servirà il minore (Gen 25-23), cioè il più anziano servirà il più giovane, Esaù servirà Giacobbe. Anche ad essa quindi fu indirizzata la parola creatrice di Dio.

Così la promessa superiorità del più giovane sul più anziano non dipese da loro, ma si fondò soltanto sulla libera sovranità di Dio. La parola che fu rivolta a Rebecca, prima della nascita dei figli e prima che essi potessero agire, parola che fissava la loro futura posizione reciproca, è dunque la parola di Dio che sceglie e stabilisce. Ed è stata pronunciata affinché questa predisposizione rimanga, cioè determini ulteriormente la storia, non solo per Isacco e Ismaele, ma anche per Giacobbe ed Esaù ed altri ancora, e affinché sia continuamente efficace.

Tutta la storia d’Israele si basa sulla promessa di Dio, che in se stessa è la predisposizione di Dio, che elegge e determina. Quindi tutta la storia d’Israele e tutta la storia in genere proviene non dalle opere umane, ma da Dio che chiama e presceglie. Non l’attività umana determina in principio e alla fine la storia, ma la predisposizione di Dio. La storia non può smentire la parola di Dio, ma la parola di Dio può smentire la storia. La libertà del Dio sovrano, che decide della storia prima di tutta la storia secondo la sua volontà, emana la sua chiamata, che viene confermata da un’altra parola della Scrittura. Viene citato Ml 1,2-3: Ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù. Benché misèin in concreto equivalga a non amare - non soltanto ad amare meno -, da esso traspaiono la risolutezza delle decisioni di Dio, che determinano la storia.

Riassumendo si può dire: la parola di Dio non è scaduta. Non tutti i membri dell’Israele terrestre-carnale sono Israele, ma soltanto quelli che divengono Israele in virtù della promessa di Dio, come risulta da Isacco e dai figli di Rebecca. Ancora prima della nascita e prima di ogni loro operato, Dio si è deciso per Giacobbe, e ciò in base alla sua libera decisione preveniente. Questa diventa ora il tema peculiare di 9,14-29.

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