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b) Il giudizio di Dio sui giudei (2,1-3,20).

Scrive Lietzmann: Senza il vangelo vi è soltanto l’ira di Dio che si manifesta sia sui pagani (1,18-32), sia sui giudei (2,1-11). Anche i pagani, infatti, conoscono in un certo senso la legge di Dio (2,12-16), mentre i giudei che la possiedono scritta, ne sono fieri ma non la osservano (2,17-29). Ciononostante i giudei hanno particolari privilegi (3,1-2) e la loro infedeltà non sopprime la fedeltà di Dio alle sue promesse (3,3-8). Ma per quanto concerne il peccato i giudei sono ugualmente colpevoli (3,9-20). Il brano 3,9-20 tira le somme di tutto quanto è stato detto e conclude dicendo che tutti gli uomini sono soggetti al dominio del peccato e che tutto il mondo è colpevole davanti a Dio.

c) Il criterio del giudizio divino (2,1-11).

1Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. 2Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. 3Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? 4O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? 5Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, 6il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: 7la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; 8sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. 9Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; 10gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, 11perché presso Dio non c’è parzialità.

V. 1 - Nello stile della diatriba Paolo si rivolge a un interlocutore fittizio e tipico. Egli apostrofa questo interlocutore con l’espressione o uomo e gli dichiara: sei inescusabile, chiunque tu sia. Chi viene apostrofato è uno che condanna gli altri: il discorso è rivolto a chiunque presume di giudicare gli altri. Solo gradualmente si chiarirà che egli intende riferirsi al giudeo, preso come tipo. Costui giudicando l’altro condanna se stesso perché fa le stesse cose che condanna nell’altro.

V. 2 - Il giudizio di Dio secondo verità significa in primo luogo in rispondenza alle azioni e senza riguardo alle persone (2,11) e in secondo luogo nel senso che si attua la verità, si affermano cioè i diritti di questa giustizia che inerisce alla creazione. Ma come si spiega che colui che giudica il comportamento altrui non avverte la scarsa serietà del suo atteggiamento e la frattura tra il suo giudizio morale e il suo agire? Paolo scopre le ragioni di ciò nei Vv.3 e 4.

V. 3 - Il giudicante ritiene di poter sfuggire al giudizio di Dio, pensando che i privilegi d’Israele alla fine lo salveranno. Chiunque si eleva a giudice degli altri, immagina di essere al riparo dal giudizio di Dio.

V. 4 - Colui che giudica gli altri disprezza la bontà di Dio, la sua mitezza, la sua benignità. Egli disprezza la pazienza di Dio, ossia l’atteggiamento di lui che trattiene la sua ira. E infine disprezza la longanimità di Dio e la sua magnanimità. In definitiva disprezza tutta la ricchezza di questo modo di essere e di agire di Dio. La bontà e la mitezza di Dio mirano soprattutto alla conversione dell’uomo, perché questo è il vero bene dell’uomo. Chi disprezza la bontà di Dio che si manifesta quotidianamente, non comprende che il tempo e la vita ci vengono concessi per la nostra conversione. Da questa errata persuasione di fondo nasce il giudicare gli altri e la stupefacente indulgenza verso se stessi. Colui che giudica ritiene di avere dalla sua Dio, il diritto, la verità. Anche il giudaismo si era reso conto di ciò. Leggiamo in Sir 5,4 ss: Non dire: Io ho peccato e che cosa mi è accaduto? Il Signore infatti è longanime. Non presumere il perdono per accumulare peccati su peccati. Non dire: Grande è la sua misericordia ed egli mi perdonerà le molte mie colpe. Poiché presso di lui c’è la pietà e l’ira, e sui peccatori fa pesare la sua collera. Non indugiare a convertirti a lui, e non differire di giorno in giorno. Perché la sua collera verrà subitanea e nel giorno del castigo perirai; e in Sap 11,23: Hai compassione di tutti perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento.

Il tempo della pazienza di Dio è per chi lo sfrutta per convertirsi.

V. 5 - Dietro il disprezzo della bontà di Dio che concede tempo per la conversione si riconosce la dura cervice di Israele che non vuol piegarsi: cervice dura verso Dio e di conseguenza anche verso il prossimo, ma straordinariamente tenera verso se stesso. È la sklerokardìa di Dt 10,16; Ger 4,4; Mc 10,5; 16,14; Mt 19,8 e la ametanòetos kardìa, il cuore irremovibile alla conversione che si ritiene però convertito. Ma se il duro di cuore fraintende la pazienza di Dio, il quale trattiene la propria ira, e se pensa di avere l’assenso di Dio quando giudica gli altri, s’inganna. Infatti proprio in questo tempo concesso per grazia per la conversione, egli accumula per sé un tesoro d’ira, ossia una grande quantità d’ira di Dio.

V. 6 - Il criterio che Dio seguirà nel giudizio della sua ira saranno le opere. Né il giudicare, né la falsa persuasione su cui si appoggia il giudicante (di essere risparmiato dalla bontà di Dio in quanto membro del suo popolo e quindi appartenente a lui) potranno scalzare il criterio delle opere. Queste opere sono distinte dalle prestazioni, concepite alla maniera giudaica, come Paolo spiegherà nel resto della lettera.

V. 7 - Le opere che ottengono come ricompensa la vita eterna sono quelle di coloro che, perseverando nel bene, aspirano alla gloria, all’onore e all’immortalità. Sono dunque le opere in cui si esplicita la ricerca dei beni escatologici. Viene inoltre indicata una seconda caratteristica di coloro che ricevono la vita eterna nel giudizio di Dio; essi cercano i beni della salvezza compiendo le opere buone nella perseveranza. Questa perseveranza è un segno e una dimostrazione della speranza. La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza (Rm 5,3-4). Coloro che sono rivolti ai beni escatologici e anelano ad essi persistendo nel compimento del bene con quella perseveranza per cui l’uomo sperando rinuncia a se stesso, ricevono la vita eterna, che è appunto ciò a cui mirano con le buone opere.

V. 8 - Ed ecco il contrario. Anch’esso indirettamente pone in luce cos’è un’opera buona. Il contrario di quelli che cercano la gloria di Dio sono i succubi del loro egoismo e i ribelli alla verità. La verità è anche qui la schietta realtà della creazione. I ribelli alla verità sono coloro che non obbediscono al vangelo, ossia alla verità che in esso si esprime. Paolo vede la condotta morale alla luce del vangelo e della realtà della creazione. Il fare il male del v.9 è una forma di ingiustizia in quanto colui che lo fa non ascolta il richiamo della realtà palese ed effettiva, irretito com’è dall’egoismo e dalla bramosia di guadagno. Il fare il bene del v.10 va perciò inteso come un atteggiamento di obbedienza alla realtà della creazione, di obbedienza disinteressata, protesa verso i beni salvifici escatologici e perseverante in questo. Le opere secondo le quali ciascuno sarà giudicato non sono semplicemente le azioni moralmente buone o cattive, ma vanno intese in senso più profondo.

V. 9 - Il giudizio dell’ira di Dio viene designato come tribolazione e angoscia per gli effetti che produce nell’uomo. La tribolazione e l’angoscia colpiscono, come giudizio dell’ira di Dio, ogni persona che fa il male giudei anzitutto e poi anche greci. Il giudeo ha ricevuto la parola di Dio e perciò porta una responsabilità maggiore di ogni altro uomo. Nel giudizio di Dio non si applicheranno a lui criteri diversi. Conseguentemente, anche in riferimento al dono della salvezza si deve dire: per il giudeo anzitutto e poi per il greco.

V. 10 - Ancora una volta i beni escatologici vengono indicati come in 2,7 con gloria e onore. Quale terzo dono salvifico viene ora menzionata la pace, che soltanto qui appare come una ricompensa del giudizio finale. Questi beni sono destinati a chiunque fa il bene.

V. 11 - Queste parole tolgono l’ultima illusione a chiunque giudica gli altri, al giudeo inteso in maniera tipica, il quale fa le stesse cose del pagano. La prosopolempsìa è il considerare le persone con parzialità. Dio non ha alcuna parzialità riguardo alle persone nel suo giudizio (Ef 6,9; Col 3,25; Gc 2,1).

Questo verso chiude la pericope 2,1-11 e introduce le considerazioni seguenti sui pagani. Il giudizio di Dio su ogni persona è possibile perché anche il pagano in un certo senso conosce le richieste di Dio.

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