00 10/12/2008 09:54

La professione medica come ministero (parte II)


ROMA, martedì, 9 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione della dott.ssa Maria Antonietta Sansone, medico della A.S.L.

 



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Detto tutto questo di Gesù, come dovrebbe sentirsi un povero medico dal quale ci si aspetta un missionario? Non era già abbastanza avere la responsabilità della vita, della diagnosi delle malattie e del mantenimento della salute delle persone?

E pensare che c’è stato un tempo in cui l’unico problema che avevo era riuscire a capire come si palpava un fegato! Al terzo anno di università, nel pomeriggio frequentavo il reparto di Semeiotica medica per imparare a visitare i malati. Allora mi angosciavo molto, perché le mie dita erano rigide come il marmo, le orecchie completamente sorde ai toni del cuore e al murmure vescicolare polmonare e il cervello del tutto ottuso a capire. Quante lacrime inutili! Quello era solo l’inizio.

Appena qualche anno dopo, superati questi scogli, mi trovai ad esercitare (da sola!) nei turni di guardia, quello che mi avevano insegnato. Non avevo paura, ero semplicemente terrorizzata e per questo trascorrevo il tempo a ripassare le terapie con dosi, milligrammi e tempi di somministrazione, di tutte le possibili emergenze che sarebbero potute capitare.

Quando cominciavo a rilassarmi (dopo tanto ripasso, ricordavo ormai a memoria tutte quelle terapie) cominciò la corsa in velocità. La notte si lavorava in guardia medica, la mattina (fino alle tre) in reparto all’università per la specializzazione e il pomeriggio a studiare per gli esami.

Non avevo neppure il tempo per protestare; infatti una volta che protestai con chi mi consigliava, perché avevo troppe cose e non riuscivo, non era giusto e non ce la facevo, credo mi venne proprio risposto di non perdere "quel" tempo a protestare, dato che ne avevo così poco.

Insomma, da allora in poi, ogni anno dovevo migliorare in velocità, come le macchine nei giri del Gran Premio di Formula 1.

Correndo, però, si rischia di dimenticare che il protagonista è il malato, cioè una persona, e non la sua malattia. Che lui non riesce a correre, ma vuole tempo, ascolto, consolazione.

Ricordo una paziente con una brutta neoplasia polmonare e varie metastasi; ormai la conoscevamo bene perché era stato laborioso farle la diagnosi e aveva dovuto ricoverarsi più volte. Era una donna forte e vitale, ancora relativamente giovane, che viveva sola, vedova e senza figli. Aveva voluto sapere tutta la verità e tornava periodicamente in reparto per la chemioterapia e i controlli, sempre energica e perfino allegra, mai un lamento o una parola di autocommiserazione, per quasi due anni. Poi un giorno, quando rimase sola con me nell’ambulatorio perché la responsabile, con la quale aveva scherzato fino a quel momento, si era dovuta allontanare, con una voce che non aveva mai avuto, ma che era dolorosamente autentica, tremante e profonda, mi disse lentamente: "Ho paura di non riuscire ad avere la forza di morire soffocata". Smisi immediatamente di fare quello che stavo facendo e mi voltai per guardarla, non mi aspettavo quelle parole. Però era vero, il tempo si era fatto breve. Capii che mi stava facendo il dono della sua interiorità, ma perché proprio a me che ero la più giovane tra tutti i medici che la conoscevano? Tuttavia non indugiai oltre e risposi con una certa audacia: "vedrà che il Signore le darà la forza, glielo chieda". Anche la mia voce era autentica.

"Dice davvero?" e mi guardò negli occhi per cercare conferma, piena di speranza.

"Si".

Andò proprio così, il Signore mantenne la mia promessa.

Da allora quante altre persone, quante confidenze, quanti commiati.

M. agonizzava stordita dalla morfina ma quando andai a trovarla, in ospedale, per un attimo aprì gli occhi, mi vide e allargò le braccia come volesse abbracciarmi, ma subito ripiombò nell’incoscienza fino alla morte, qualche giorno più tardi.

G., quasi centenario, si stava spegnendo nel suo letto "per anzianità di servizio", senza un preciso motivo. Ero da lui, anche se non c’era molto da fare. Sembrava assopito e assente, ma prima che andassi via aprì gli occhi, mi sorrise e mi fece "ciao" con la mano destra, come fanno i bambini. Poi richiuse gli occhi e dieci minuti più tardi morì.

P., tra le altre cose, aveva anche un tumore, però faticava a morire. Andavo a trovarlo tutti i giorni; una sera per salutarmi mi strinse la mano ed entrambi intuimmo che sarebbe stata l’ultima volta.

M. non mi aspettò. Per alcuni anni il suo scompenso cronico riacutizzava, di tanto in tanto, all’improvviso, con un edema polmonare nelle prime ore del mattino. Dalla prima drammatica volta in cui la salvai buttandole in vena tutte le mie scorte di farmaci, c’erano state altre crisi successive, molto più lievi e sempre a lieto fine. Fino a quella mattina in cui non ebbe neppure il tempo di chiamare.

A. era stata dimessa dall’ospedale perché, a motivo dell’età e delle sue condizioni cardiache e polmonari, era gravissima e le rimanevano solo poche ore di vita. Cominciai a gestire quelle poche ore facendo a modo mio e passò un giorno, più giorni, una settimana, un mese. Morì qualche anno dopo, credo due o forse addirittura tre, soddisfatta per quella proroga.

Accanto a queste, altre cento e più storie, che per un certo tratto hanno attraversato la mia, nessuna uguale ad un’altra. Compreso le storie di chi non è tornato indietro a ringraziare o nonostante i benefici ricevuti è perfino andato via senza spiegazioni o ha scelto di punire il medico per la sua cattiva sorte o di vendicarsi.

Esistono in natura microorganismi che in condizioni incompatibili diventano spore, così possono sopravvivere a lungo, per svegliarsi e rifiorire anche dopo anni, quando le circostanze biologiche lo consentono. Non sarà così anche per la grazia di Dio? Certamente avrei dovuto fare meglio, essere uno strumento più valido. Ma la grazia di Dio aveva forse bisogno di me e della mia bravura? Penso che, nonostante me, le spore della sua grazia sono entrate lo stesso in queste persone e un giorno, quando le condizioni lo consentiranno, si sveglieranno.

Nonostante sia passato tanto tempo da quando ho imparato a palpare un fegato, resta ancora tanto da imparare, troppo. E il compito è sproporzionato per le possibilità umane, come trovare il pane per tanta gente?

Gesù restava ore e ore col Padre, come a suggerirci che è questa l’unica strada.


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