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Famiglia e sessualità


CITTA’ DEL MESSICO, sabato, 17 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato il 15 gennaio, nel contesto del VI Incontro Mondiale delle Famiglie, in corso a Città del Messico, dalla dott.ssa Maria Luisa Di Pietro, professore associato di Bioetica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e presidente dell'associazione “Scienza&Vita”.




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1. “Noi vogliamo in questa occasione - si legge al n. 22 della Lettera Enciclica Humanae vitae (HV) - richiamare l’attenzione degli educatori e di quanti assolvono compiti di responsabilità in ordine al bene comune dell’umana convivenza, sulla necessità di creare un clima favorevole all’educazione della castità, cioè al trionfo della sana libertà sulla licenza, mediante il rispetto dell’ordine morale” (HV, 22). “L’educazione della castità”, che è parte integrante dell’educazione della sessualità e della preparazione remota alla procreazione responsabile. Un richiamo fondamentale nell’Enciclica dedicata alla trasmissione della vita umana, che mette in evidenza come non sia possibile vivere una procreazione responsabile senza aver acquisito la capacità di orientare l'istinto sessuale al servizio dell'Amore e di integrarlo nello sviluppo personale. “L’educazione della castità”: un  tema sul quale si è soffermato anche Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Evangelium vitae (EV): “Non ci si può, quindi, esimere dall'offrire soprattutto agli adolescenti e ai giovani l'autentica formazione alla castità, quale virtù che favorisce la maturità della persona e la rende capace di rispettare il significato sponsale del corpo” (EV, 97).  “L’educazione della castità”, che richiede di creare un “clima favorevole” al suo sviluppo a fronte di una cultura fortemente condizionata dagli effetti dell’onda lunga della rivoluzione sessuale.  D’altra parte, in un crescendo di frammentazione del significato della persona (divisa nelle sue componenti biologica, affettiva e spirituale), della sessualità (ridotta da dimensione strutturale a sola funzione genitale), della famiglia (non più declinata al singolare quanto piuttosto al plurale), della generazione umana (privata dell’humus della relazione interpersonale dei coniugi), non solo si è reso inutile parlare di castità ma addirittura “della castità” si è  dimenticato  il nome.

2. Per introdurre un discorso sulla castità è necessario chiarirne, innanzitutto, il significato. Il concetto di “castità” viene, infatti, collegato a un'immagine di sessualità - o per meglio dire di genitalità - negata e frustrata tanto da essere considerata “nociva” per l'amore. “Castità non significa  affatto - si legge al n. 33 della Esortazione Apostolica Familiaris Consortio - né rifiuto né disistima della sessualità umana: significa piuttosto energia spirituale, che sa difendere l’amore dai pericoli dell’egoismo e dell’aggressività e sa promuoverlo verso la sua piena realizzazione”. La castità non è rifiuto della sessualità perché - se così fosse - si negherebbe una realtà che “[è] ricchezza di tutta la persona” (EV, 97); la  castità non è disistima dei valori  e delle esigenze della ses­sualità perché i valori,  in quanto tali, sono da amare e le esigenze, se autentiche, sono da accogliere. “La castità - si legge nel documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia del 1995 - è l’affermazione gioiosa di chi sa vivere il dono di sé, libero da ogni schiavitù egoistica”. Ed ancora, scrive Karol Woytila in Amore e responsabilità: “la castità è la trasparenza dell’interiorità, senza la quale l’amore non è amore, e non può esserlo fino a che il desiderio di godere non viene subordinato alla disposizione ad amare in tutte le circostanze”. Questo perché la sessualità “non può restare soltanto una situazione soggettiva, in cui si manifestano le energie della sensualità o della affettività ridestate dalla tendenza sessuale, perché allora non raggiunge il proprio livello personale né può unire le persone. Perché possa unire veramente l'uomo e la donna e raggiungere il pieno valore personale bisogna che abbia una solida base nell'afferma­zione del valore della persona”.
   
La castità non conduce, dunque, né al disprezzo del corpo né alla svalutazione della vita sessuale, ma innalza il valore del corpo sessuato a livello del valore della persona. Questa  disposizione o tendenza ad armonizzare le energie della sensualità e della affettività con il valore della persona viene definita “integrazione” e presuppone la capacità di autopossedersi e di autodominarsi Una manifestazione di questa capacità di integrazione è la continenza ovvero l'attitudine a controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale  e le loro conseguenze: la continenza - scrive Giovanni Paolo II nella Catechesi del mercoledì  24 ottobre 1984 - “consiste nella capacità di dominare, controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale (concupiscenza della carne) e le loro conseguenze, nella soggettività psicosomatica dell’uomo. Tale capacità in quanto disposizione costante della volontà, merita di essere chiamata virtù”. Essere continenti non significa, dunque, esercitare un “cieco” con­trollo della concupiscenza e delle reazioni sensuali. Significa, piuttosto, agire alla luce della comprensione dei fini della sessualità: l'apertura ai più profondi valori della femminilità e della mascolinità nel­la sponsalità e  l'autentica libertà del dono reci­proco delle persone. Solo in questo modo, la continenza aiuterà ad andare oltre il linguaggio delle parole e dei gesti per scoprire quel “linguag­gio ontologico” che è la vera ricchezza della persona e che si manifesta attraverso il significato nuziale del corpo.

3. Per un’adeguata comprensione del concetto di “castità” bisogna muovere dalla lettura dei valori e dei significati della sessualità. “La sessualità [è] ricchezza di tutta la persona”(EV, 97); “la sessualità - si legge al n. 3 del già citato documento del Pontifico Consiglio per la Famiglia - non è qualcosa di puramente biologico, ma riguarda piuttosto il nucleo intimo della persona”. La sessualità è ricchezza e dimensione strutturale della persona, ma anche capacità di entrare in relazione e in comunicazione con gli altri, “segno” e “luogo” dell’apertura, dell’incontro e del dialogo; la sessualità è espressione della persona intimamente orientata all’Amore e al dono, alla fecondità nella coniugalità e nella scelta verginale. La sessualità è, allora, più della genitalità e la genitalità acquista valore umano solo e nella misura in cui è integrata nell’unitotalità della persona. Dire che la sessualità è dimensione strutturale della persona non equivale, però, ad affermare che essa sia l’unica dignità dell’uomo: “La corporeità e la sessualità - scrive Giovanni Paolo II  nella Catechesi del mercoledì 7 novembre 1979 - non si identificano completamente. Sebbene il corpo umano, nella sua normale costituzione, porti in sé i segni del sesso e sia, per sua natura, maschile e femminile, tuttavia il fatto che l’uomo si fa corpo appartiene alla struttura del soggetto personale più profondamente del fatto che egli sia nella sua costituzione somatica anche maschio e femmina”.

Muovendo da questa lettura il rapporto persona/corpo sessuato rientra nella categoria dell'essere e non dell'avere, per cui ciò che non si possiede non si può né usare né far usare. E allora, così come ripugna istintivamente l'idea di considerare il corpo umano come semplice oggetto di scambio, allo stesso modo si deve esigere rispetto per la propria mascolinità e femmi­nilità. Riconoscere il significato valoriale dell'essere ses­suati vuol dire comprendere che l'unica modalità di “scambio” deve essere quella del “dono”, totale, reciproco, esclusivo. E, se la sessualità è dimensione originaria, l'uomo e la don­na non possono vivere la propria esperienza terrena se non ac­cettando di essere sessuati.
       
La sessualità ha anche un significato in­terpersonale: questo vuol dire che la diversità  maschile e femminile è una diversità rela­zionale, con una duplice funzione, personalizzante e socializzan­te. La sessualità ha una funzione personalizzante sia per il bambino, che ‑ attraverso il confronto‑dialogo con il genitore dello stesso sesso e con il genitore del sesso opposto ‑ arriva a strutturare la propria personalità  e ad assumere  un'identità sessuale, sia per l'adulto. La sessualità ha una funzione socializzante perché è spinta ad uscire da se stessi per entrare in comunicazione e, successi­vamente, in comune‑unione con gli altri. In tal senso, la sessualità umana esprime e realizza il “bisogno” della persona di uscire dalla propria solitudine e di comunicare con gli altri: e tale bisogno è insieme segno e frutto della povertà e della ricchezza della persona, chiamata ad amare ed a essere amata.
     
E’ attraverso la comunicazione e il dialogo, che l'uomo e la donna percepiscono la propria differenza e si sentono attratti e orientati ver­so l'altro sesso. Dell'altro sesso si vorrebbero scoprire e comprendere anche i più reconditi misteri: ma tra l'uomo e la donna  rimane sempre una differenza, un abisso incolmabile che neanche l'imitazione di comportamenti  o di atteggiamenti propri dell'altro sesso riesco­no a superare. La rela­zione tra l'uomo e la donna diviene così  segno di dualità e reciprocità, ma anche di complementarità: l'uomo e la donna sono simili e differenti  nello stesso tempo;  non sono identici, ma hanno una uguale dignità, che deriva dall'essere persone e che è necessaria affinché tra di loro ci sia una possibilità di in­contro e di intesa. Dal momento che la sessualità umana ha un significato  inter­personale,  ne consegue che il fine a cui essa è intrinsecamente orientata e, pertanto, il messaggio che esprime,  è l'amore nel sen­so di donare e ricevere: questa vocazione all'amore si realizza  attraverso il corpo sessuato  testimone  così del dono reciproco, dell'essere e dell'esistere come dono con e per qualcuno; un corpo che ha un significato “sponsale” in quanto capace di esprimere amore.
      
  Ed  anche se è vero che nessuno può rifiutarsi di essere uomo o donna, ciò non si­gnifica né  che il sesso esprima tutta la persona né che ogni perso­na sia necessitata ad esprimere la totalità delle proprie capacità sessuali, anche quelle fisiche. Bisogna, infatti, fare differenza tra relazione sessuata e relazione ses­suale‑genitale. La relazione sessuata è la comune relazione tra persone di sesso differente o dello stesso sesso, improntata a stima, rispetto, amicizia e, affettività, senza  il coinvolgimento del corpo sessuato, la genitalità fisica: infatti, l'incontro, il dialogo o il conflitto tra due persone di sesso differente o dello stesso sesso, non possono non essere sempre segnate dalle  caratteristiche e  tratti tipici dell'essere uomo o donna. La relazione sessuale‑genitale ha, invece, come caratteri­stica peculiare la totalità delle componenti della persona, che danno vita all'apertura, all'incontro, al dialogo, alla comunione ed all'unità: si tratta di una reciproca donazione personale e totale, espressione di tutta la persona, che genera e alimenta una relazione unica ed esclusiva, irrevocabile e definitiva, ordinata all'integrazione reciproca dell'uomo e della donna. Nel momento in cui la relazione sessuale-genitale è inserita in un contesto di amore e di dono totale e totalizzante tra un uomo e  una donna, essa acquista un valore positivo e fa da completamento di un'unione che, resa in­dissolubile dallo stato di coniugalità,  si apre per sua intrinseca dinamica alla fecondità.
“Per mezzo della reciproca donazione personale - si legge al n. 8 della Lettera Enciclica Humanae vitae -, loro propria ed esclusiva gli sposi tendono alla comunione dei loro esseri in vista di un mutuo perfezionamento personale, per collaborare con Dio alla generazione ed alla educazione di nuove vite”.

4. Per vivere la “reciproca donazione personale” è necessario interpretare le esigenze dell’amore coniugale, definito aln. 9 della Lettera Enciclica Humanae vitae come un amore “umano, totale, fedele e fecondo”.  Un amore, innanzitutto, umano: “E’ prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire nello stesso tempo sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e senti-mento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera […]” (HV, 9). E’, in altre parole, quell’Amore che scaturisce - come scrive Benedetto XVI nella  Lettera Enciclica Deus Caritas est (DC) - da “un cuore che vede” (DC, 31) dove c'è bisogno e agisce in modo conseguente. Non, dunque, semplice “trasporto di istinto e sentimento”, poiché - anche se i sentimenti sono stati affettivi stabili, profondi e duraturi - essi non sono sufficienti per descrivere tutta l'esperienza dell'amore: “I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore” (DC, 17).
  
 Per poter vedere il cuore deve conoscere la propria “storia”: non si può, infatti, vivere l’esperienza dell’amore e del dono senza conoscere l’Origine della propria “storia”, senza la  consapevolezza che il nostro amore nasce da un Amore che ci precede, dall’Amore di quel Dio che “per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo” (DC, 17). E il primo grande atto di Amore è l’essere stati chiamati all’esistenza dal nulla: è questa l’Origine della “storia” dell’uomo e l’uomo è l’unico essere vivente in grado di rispondere al Creatore con il linguaggio della consapevolezza.     Il cuore si apre, poi, al riconoscimento dell’altro e, nella coniugalità, al dono reciproco delle persone. E’ un amore totale [“una forma tutta speciale di amicizia personale in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa, senza indebite riserve e calcoli egoistici. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso, lieto di poterlo arricchire del dono di sé” (HV, 9)];  è un amore fedele [“E’ ancora amore fedele e esclusivo fino alla morte (HV, 9)].  L’amore tra l’uomo e la donna diviene così l’archetipo dell’Amore per eccellenza : “l’amore tra un uomo e una donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente e all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza” (DC, 2).

5. L’Amore ha una sua manifestazione significativa nell’affettività, ovvero nella capacità che ha l’uomo di provare emozioni, sentimenti e passioni e che lo spinge ad agire nei confronti di quel chi o di quella cosa che ha procurato un tale turbamento. D’altra parte, il termine “affettività” deriva dal latino “afficere” che significa “influire”, “produrre una modificazione nel corpo o nell’anima”, “colpire”: un duplice e ininterrotto movimento, di “sistole” (unione con l’oggetto della propria attrazione) e di “diastole” (uscita da sé), vera rappresentazione di una relazione interpersonale. Tale carattere relazionale è ravvisabile anche nelle modalità dello sviluppo affettivo, che può essere schematizzato in quattro momenti: 1. la capacità di intrattenere rapporti umani positivi con tutti; 2. la capacità di instaurare rapporti amichevoli; 3. l’amicizia; 4. la capacità di Amore per un unico partner o per tutti, a seconda della scelta di vita (coniugale o verginale) che si è fatta. Ai fini dello sviluppo dell’affettività risulta, allora, chiara l’importanza della carica affettiva dei legami naturali tra i componenti del nucleo familiare in cui si cresce: l'equilibrio affettivo di una persona si imposta, infatti, fin dalla prima età e si modella nelle più semplici situazioni della quotidianità. Da qui la necessità di essere inseriti - innanzitutto - in un famiglia presente, autorevole, rielaborante e capace di mantenere relazioni soddisfacenti. E, successivamente, di: far parte di un gruppo di coetanei verso cui sperimentare sentimenti di amicizia autentica, sincera e profonda; di sostenere l’impegno a vivere i propri compiti in modo indipendente e costante; di sviluppare capacità di autocomprensione, autoaccettazione, autoaffermazione, integrazione, adattamento e controllo delle proprie pulsioni. E se tutto lo sviluppo affettivo dell’individuo sarà stato armonico, se avrà imparato a controllare se stesso, ad amare i genitori e i fratelli, a godere dell’amicizia dei coetanei e della stima degli educatori, si può sperare anche in un allargamento dello sguardo oltre il proprio mondo individuale nella considerazione dei propri doveri verso gli altri.

6. Parlando di Amore e di affettività, si è fatto riferimento alla dimensione educativa: su cosa si fonda l’educazione? E chi sono i soggetti dell’intervento educativo. I pilastri dell’educazione sono: 1. i contenuti che l'educazione presenta dal punto di vista antropologico (che idea ho dell’uomo?) e pedagogico (che progetto di uomo si vuole realizzare?); 2. le motivazioni e gli atteggiamenti dell’educatore. Entrambi possono essere sintetizzati con l’espressione “amare per educare”. Non è un caso che in tale espressione si conservino i due concetti amore-educazione: non si può pensare di guidare la crescita di un ragazzo sul piano dell’affettività se non si è dotati di quella “carità intellettuale” necessaria per rendere efficaci le proprie strategie di intervento. Si può, allora, fare educazione all’Amore solo se questa viene concepita come “amore della verità” (per i contenuti che intende trasmettere) e nel contempo “verità che si fa amore” (pensando alle caratteristiche del formatore e dell’educatore). “Sarebbe dunque - scrive Benedetto XVI nella Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008 - una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita”.
   
Se si rinuncia alla verità sull’uomo (all’amore della verità), che è  “oggetto” non statico e immutabile ma che sa coniugare l’oggettività e la definitività di alcuni aspetti con le caratteristiche di dinamicità e del “farsi” proprie dell’uomo, si corre il rischio di compromettere proprio l’opera educativa. Essa parte dalla definitività della verità e propone la definitività di alcune scelte. Si legge nel discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa italiana del 19 ottobre 2006: “un'educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l'amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà”. Se la libertà non si innesta e radica in una verità integrale della persona, può condurre l’uomo stesso a comportamenti e scelte riduttive dell’umano, o divenire strumento di prevaricazione e di puro arbitrio o portare ad atteggiamenti di rassegnazione e pericoloso scetticismo.

Quale verità e quale bene sull’uomo? Si tratta di un problema serio e decisivo: perché solo se si individuano le caratteristiche proprie dell’uomo, ciò che determina la sua natura e, di conseguenza, la sua dignità, si è in grado di indirizzare gli sforzi educativi. Educare e formare sono parole che, etimologicamente, rimandano ad una meta (il primo) e ad una forma (il secondo). L’uomo le ha scritte entrambe dentro di sé e il cammino che deve percorrere, soprattutto nei primi anni della sua esistenza (ma il processo mai potrà avere una fine), non può non conformarsi ad esse. Non possiamo negare ciò che siamo. Rinunciare alla pretesa di alcune verità sull’uomo significa rinunciare ad educare. D’altra parte, l’educazione è proprio l’arte di “trarre fuori, far emergere” il bene iscritto nella dimensione ontologica di ogni uomo. E’ come se - seguendo Maritain -  nell’uomo coesistessero due “nature”: la natura “primitiva”, da una parte, e la natura “plasmata”, risultato dell’intervento educativo. Dal momento che la natura primitiva  altro non è che la manifestazione storica e parziale dell’essenza “uomo”, ogni individuo deve impegnarsi  a scoprire in questa essenza contenuti e modalità per plasmare la sua natura seconda. Dall’amore della verità si passa  alla verità che si fa amore. È il secondo passaggio che un educatore non può trascurare. La verità, ovvero il contenuto di un processo formativo, non può cristallizzarsi come fa l’acqua ad alte quote, che lì rimane, in posizione impervia per essere raggiunta da qualcuno. L’opera di formazione è paragonabile all’irrigazione delle pianure a seguito dello scioglimento della neve della montagna. La verità si “scioglie” e raggiunge in modo delicato ma abbondante i destinatari di tale verità. Non si tratta di una valanga che scende, trovandola magari impreparata, sulla valle ma di un fiume che sorprende per la sua freschezza  

7.  Se caratteristica dell’affettività è anche la capacità di contemplazione e di apertura al riconoscimento e al bene totale della persona, essa è  in stretto collegamento con il  sentimento morale: ovvero con la capacità di riflettere, interpretare ed interiorizzare quelle norme che inscritte nella natura umana devono divenire criterio regolativo nelle singole scelte. La formazione dell’affettività si deve accompagnare, allora, alla formazione del sentimento morale al fine di  precisare le ragioni per cui l’Uomo per realizzarsi deve agire in un modo piuttosto che in un altro e di aiutare ad acquisire consapevolezza del proprio agire, responsabilità e strumenti critici, criteri di valutazione e motivazioni, affinché possa operare una sintesi tra libertà e responsabilità, offrendo criteri oggettivamente fondati e consapevolmente chiariti per l’agire. Nella sua finalità, dunque, la formazione del sentimento morale è “educazione alla libertà” o, per meglio dire, alla gestione responsabile della libertà, affinché vi possa essere una completa adesione a quella verità, che - inscritta nella natura di essenza di ogni uomo - ne svela  configurazione,  significazione e  destina­zione: “Non meno decisiva nella formazione della coscienza è la riscoperta del legame costitutivo  che unisce la libertà alla verità [...] E' essenziale che l'uomo riconosca l'originaria evidenza della sua condizione di creatura, che riceve da Dio l'essere e la vita come un  dono e un compito:  solo ammettendo  questa sua nativa dipendenza nell'essere, l'uomo può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà  e insieme rispettare  fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona” (EV, 96).

In questo consiste la libertà morale, la libera adesione alla “legge dell'essere”. La formazione del sentimento morale deve riguardare sia la sfera dei valori che delle virtù, intese come habitus, “disposizioni”, “abitudini”, “predisposizioni”: nei due piani differenti e intersecantesi, quello naturale delle virtù morali o cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) e quello soprannaturale delle virtù infuse o teologali (fede, speranza e carità). Se, infatti, la formazione del sentimento morale deve aiutare il soggetto nella strutturazione della propria identità,  nell’acquisizione di valori valutati importanti per dichiarare a sé e agli altri  il proprio esserci, nell’assicurare la capacità di resistere alle forze disgreganti interne ed esterne, nel garantire un’unità interiore coerente e duratura, non è né facile né sufficiente  un semplice controllo selettivo dei valori senza una loro concomitante acquisizione. La persona è formata solo quando è riuscita a costruire un filtro attraverso il quale verificare e valutare cosa accogliere e cosa respingere: quando, in altre parole, è in grado di rispondere alla domanda “che persona dovrei  essere?”. L’impegno deve, essere, allora quello di aiutare il soggetto a crescere come persona virtuosa, ovvero ad acquisire un’attitudine permanente a compiere il bene e a compierlo bene. L’habitus dell’agire virtuoso, quindi, lungi dall’essere una sorta di passiva e inconsapevole ripetizione di gesti, si pone come la capacità di orientare la propria libertà con impegno e decisione verso i veri valori.
 
8. Alla luce di queste considerazioni risulta evidente che l'educazione della sessualità deve avere come obiettivo principale quello di indicare e di motivare il raggiungimento di grandi mete: l'accettazione del proprio essere sessuati e il riconoscimento del valore della mascolinità e della femminilità (educazione all’identità sessuata); il rafforzamento dell’Io, della stima di sé, del senso della propria dignità, della capacità di autopossesso e di autodominio (educazione alla castità), dell'apertura progettuale, della coerenza ed equilibrio interiore; l'acquisizione di una grande attenzione ai valori della procreazione, della vita e della famiglia (educazione alla procreazione responsabile e alla vita). Un tale progetto non può essere realizzato con la sola informazione: è necessaria una vera formazione finalizzata all’educazione della volontà, dei sentimenti e delle emozioni. In questo contesto  va inserita l'informazione: la conoscenza dei misteri del corpo umano, dei meccanismi genetici sottesi allo sviluppo somatico e alla differenza sessuale, dell'anatomia e della fisiologia, dei fenomeni tipici della pu­bertà, della procreazione umana, è il necessario comple­tamento di un processo educativo che guarda alla persona nella sua globalità.  Perché conoscersi  equivale ad avere  un motivo in più per accettare con serenità la propria realtà di uomo o di donna e per esigere per se stessi e per gli altri maggiore rispetto e considerazione; ed è anche una chiave di lettura  di quel disegno e di quella apertura all'Amore e alla vita che è inscritto in ogni persona umana. L'informazione non può essere, allora, una fredda e asettica trasmissione di notizie, un'istruzione, ma deve essere portatrice di un messaggio: in altre parole l'informazione oltre a dare risposte biologiche deve fornire “risposte etiche” ovvero chiarire il perché di un comportamento  piuttosto  che di un altro. In questo contesto educativo assume grande importanza anche la conoscenza degli “indici diagnostici di fertilità”, che sono alla base dei metodi di regolazione naturale della fertilità: per avere consapevolezza di sé; per contenere l’ansia che nasce dall’ignoto; per distinguere un quadro normale da un quadro patologico. Ma, soprattutto, come modalità per educare al senso del tempo. La maggiore difficoltà che incontrano - oggi - un uomo e una donna che si sono trovati e scelti è, infatti, quella di percorrere insieme la strada che porta a maturare la consapevolezza di sé e ad educarsi reciprocamente all’attesa.

Le cause sono molteplici: i fattori culturali, sociali e ideologici, si intrecciano in modo inestricabile con la convinzione che la vera libertà sia libertà “da” qualsiasi progetto e controllo e non piuttosto libertà “per” realizzare un progetto di vita e che l’essere umano sia innanzitutto “istinto”. Non vi è dubbio, però, che la fretta di bruciare le tappe sta rendendo sempre più difficile la maturazione affettiva dei ragazzi e mettendo anche a rischio la loro salute. La fretta ben poco si addice al “tempo” e ai “tempi” della crescita personale: gli indici diagnostici di fertilità, narrando giorno dopo giorno una storia fatta di attesa (la fase preovulatoria e postovulatoria), di preparazione (il ritmico alternarsi degli ormoni)  e infine di eventi (l’ovulazione e la mestruazione), segnano il “tempo” e i “tempi” e rappresentano una grande risorsa da utilizzare in un percorso educativo all’affettività, alla sessualità e alla castità. E come preparazione remota a quella procreazione responsabile della quale il senso “del tempo” e “dei tempi” è elemento fondamentale. L’individuazione dei significati e delle finalità dell’educazione della sessualità deve, poi, coniugarsi con la chiarezza sui criteri metodolo­gici da  storicizzare  nella situazione concreta. Si tratta di criteri (della verità, di adeguazione e individualizzazione, di pro­gressività e tempestività, di de­cenza e rispetto), che sono già noti in ambito pedagogico e a cui - nel caso specifico dell’educazione della sessualità - si aggiunge il “criterio della vocazione”.

Questo significa che, durante l’adolescenza e la prima giovinezza, è compito dei genitori aiutare il figlio a discernere la propria vocazione personale, a scoprire il progetto che Dio ha su di lui. Sia che si tratti di vocazione al matrimonio o alla verginità o al celibato, infatti, la famiglia svolge un ruolo fondamentale e l’educazione all’amore vero e casto è il più grande dono che i genitori possono fare ai propri figli. E, d’altra pare, così come si constata che chi vive in un ambiente familiare sereno, armonioso, e riceve un’immagine positiva del matrimonio, è poi in grado di riproporre la stessa esperienza nella nuova famiglia, allo stesso modo non si può non constatare  che “alla disgregazione della famiglia - si legge nel già citato documento del Pontificio Consiglio per la Famiglia -  segue la mancanza di vocazioni; invece dove i genitori sono generosi nell’accogliere la vita è più facile che lo siano anche i figli allorché si tratta di offrirla a Dio”. Ma è solo in una lettura integrale della sessualità che si inscrive un’educazione anche alla vita verginale. Perché se non si comprende che la mascolinità o la femminilità può essere vissuta anche senza la dimensione genitale-sessuale al fine di potenziare la propria capacità di donazione, di Amore, di impegno verso Dio e verso gli altri, senza per questo sentirsi uomo o meno donna quanto detto sarebbe privo di senso.

9. Parlando di educazione, e in modo particolare della castità, si è fatto riferimento alla famigli a quale responsabile primario. Questa responsabilità è talmente radicata e radicale da poter affermare che vi è una priorità “ontologica” dei genitori nell’educazione dei figli: perché "ontologica"? Perché essa trova giustifica­zione proprio nella struttura ontologica della generazione e  del­la genitorialità: “E’ infine - si legge al n. 9 della Lettera Enciclica Humanae vitae - amore fecondo, che non si esaurisce nella comunione tra i coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite. Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione e alla educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono  del matrimonio e contribuiscono sommamente al bene degli stessi genitori”. Ed ancora, al n. 16 della Lettera alle Famiglia: i genitori “sono i primi e i principali educatori dei propri figli ed hanno anche in questo campo una fondamentale competenza: sono educatori perché genitori”.    

In altre parole, il diritto/dovere dei genitori di educare i figli si fonda proprio sul fatto di aver generato la vita del bambino (i genitori sono “educatori” perché sono genitori) e in tal  senso  tale diritto/dovere precede ogni riconoscimento o imposizione da parte della società:    L'educazione è, dunque, una generazione continua. Anche l’educazione della sessualità. E se la vita familiare è segnata dalla mutua ac­cettazione, dall'aiuto scambievole, dall'empatia, i bambini, i fanciulli, gli adolescenti vengono aiutati  a fortificare quel “cuore che vede” perché “solo gli occhi del cuore - scrive Benedetto XVI nel discorso ai partecipanti del Congresso Internazionale in occasione dell’anniversario della Lettera Enciclica Humanae vitae del 2 ottobre 2008 -  riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano”. Al diritto di educare i propri figli, di scegliere ‑ in con­formità con le proprie  convinzioni morali e religiose e in vi­sta del bene dell’educando ‑ l'orientamento educativo, deve corrispondere un dovere educati­vo. Infatti, non offrire ai propri figli un ambiente familiare che possa consentire un'adeguata formazione all'Amore e alla castità, significa venire meno ad un  preciso dovere. Un dovere, che viene eluso anche nel caso in cui si tolleri una formazione immorale o inadeguata impartita ai figli fuori casa.
   
E' importante che i genitori siano consapevoli che questo diritto/dovere è inalienabile e che non può essere né totalmente delegato ad altri né  usur­pato da altri. E' anche vero, però, che oggi la famiglia pre­senta spesso una scarsa valenza educativa, a causa sia delle  trasformazioni strutturali e culturali subite sia di una talora volontaria incompetenza e incapacità di difendersi e ri­spondere alle sollecitazioni - anche negative - che provengono da una società in continuo e radicale mutamento. In questi casi può essere di aiuto l'intervento di altre a­genzie educative, non ultima la scuola,la quale  non deve - però - né imporre un'educazione di Stato né pensare di  privare i genitori della loro responsabilità educativa, collaborando con la famiglia nell'educazione e nella scelta dell'orientamento educativo. Lo stesso dicasi per altre agenzie educative, come i gruppi coeducativi: qui i bambini, i fan­ciulli, gli adolescenti, sono guidati dagli adulti secondo un ben preciso programma pedagogico, che i genitori devono conoscere a priori, vigilando sulle diverse interpretazioni che degli stessi programmi possono dare i vari  educatori.
   
L’intervento di agenzie educative esterne alla famiglia deve essere, infatti, informato a due principi: il principio della sussidiarietà e il principio della subordinazione. Sussidiarietà significa che - poiché il diritto/dovere dei genitori di educare è insostituibile e inalienabile - l'intervento delle agenzie esterne deve essere di aiuto e non di sostituzione al ruolo for­mativo della comunità familiare. In altre parole, perché un'altra agenzia possa intervenire nel processo educativo, è necessario che ci sia l'esplicito consenso da parte dei genitori, i quali delegano ad altri  il proprio compito educativo: questo atto non spoglia, però, il genitore dell’originaria potestà che continua ad appartenergli e a legittimare  la possibilità di effettuare  una  tale sostituzione. Subordinazione vuol dire che un'agenzia educativa esterna alla famiglia deve essere soggetta al controllo da parte dei  genitori, che vanno informati e coinvolti nella gestione del processo educativo extra‑familiare. Di conseguenza non  potrà mai  essere impugnata la presunta inadeguatezza della famiglia a fare, ad esempio,  educazione della sessualità per estrometterla da tale compito: la famiglia va aiutata a colmare lacune e a tracciare validi percorsi educativi. E, quando la famiglia  è educativamente assente o "diseducante", le altre agenzie educa­tive non possono limitarsi a sopperire le mancanze, ma devono avvertire in modo forte l'impegno a coinvolgere il genitore o i ge­nitori  nella gestione e nell'esecuzione dei propri progetti e­ducativi. Tutti gli educatori sono chiamati ad una grande  responsabilità perché “dipenderà da loro se i giovani, formati ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di sé  e diffondere intorno a sé ideali autentici  di vita e sapranno crescere nel rispetto e nel servizio di ogni persona, in famiglia e nella società” (EV, 97), con l'accortezza del rispetto delle priorità "ontologiche" dei genitori e l'armo­nia delle scelte.

10. Sono sufficienti poche parole a Giovanni Paolo II per sintetizzare  la grande responsabilità dei genitori, degli insegnanti, dei formatori e della società tutta nei confronti dell’educazione  della sessualità: “La banalizzazione della sessualità è tra i principali fattori che stanno all’origine del disprezzo della vita nascente”(EV, 97). Non solo della vita nascente: la perdita della stima e del rispetto del valore della vita riguarda ogni fase dell’umana esistenza. La dissociazione dell’attività sessuale dalla coniugalità, dalla fedeltà, dalla fecondità, ha portato a considerare i rapporti sessuali come un mezzo per il godimento individuale e materiale; a ritenere giusto - se non addirittura doveroso - soddisfare quegli istinti che non si vuole dominare; a guardare al divorzio e ai rapporti pre ed extra-matrimoniali come la “normalità” del vivere il rapporto uomo-donna. La riduzione della sessualità alla sola dimensione dell’istinto ha poi favorito, nelle sue manifestazioni più estreme ed infime il diffondersi della pornografia e della violenza sessuale: una sessualità resa cattiva e brutta fino alla ripugnanza con il conseguente smarrimento del senso morale e l’incremento dell’agire violento. Una sessualità non più a dimensione umana e di cui la persona non è sempre in grado di accettarne le dinamiche.

E’ per questi motivi che abbiamo l’obbligo morale di educare la persona nella sua mascolinità e femminilità, nella sua dimensione relazionale e affettiva: di educare la sessualità  come “dono di sé nell’Amore”, di quell’amore vero che sa “custodire la vita” (EV, 97).  E per i genitori tutto inizia nel momento in cui pronunciano il primo grande “sì”: “A distanza di 40 anni della pubblicazione dell’Enciclica - scrive Benedetto XVI nel citato discorso del 2 ottobre 2008 - possiamo capire meglio quanto questa luce sia decisiva per comprendere il grande sì che implica l’amore coniugale. In questa luce, i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente prima della vita umana. Questo grande sì alla bellezza dell’amore comporta certamente la gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente”

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