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 Primi provvedimenti antiebraici e la Dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo 
di Giovanni Sale S.I.

La pubblicazione dell'infausto Manifesto della razza segnò il deterioramento dei rapporti fra il Regime fascista e la Chiesa. Il conflitto tra la Santa Sede e il Governo fascista a causa della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici.

[Da «La Civiltà Cattolica», quaderno 3798, 20 settembre 2008, pp. 461-474]

Le prime leggi antiebraiche furono introdotte in Italia a partire dalla prima settimana del settembre 1938. Tali norme erano comprese nella definizione di «leggi per la difesa della razza» ed erano accorpate con le disposizioni emanate dal Governo fascista, già a partire dall’anno precedente, per scoraggiare le unioni o le convivenze tra italiani e donne indigene nelle colonie africane. Perciò tutto il corpus legislativo veniva denominato «leggi razziali». In realtà, a partire dal settembre 1938, come vedremo, tali norme avevano lo scopo di colpire la popolazione di origine ebraica, e quindi sarebbe meglio parlare di «legislazione antiebraica». Per la prima volta nella storia dell’Italia unita, un testo legislativo aveva per oggetto una parte dei cittadini dello Stato, identificata sulla base di criteri razziali, la quale veniva colpita con una violenza e una radicalità normativa sino ad allora mai sperimentata. Il legislatore fascista non arrivò fino alla revoca formale della cittadinanza per i «cittadini» di origine ebraica, ma di fatto li privò nel giro di pochi mesi di tutti i diritti civili e politici, sradicandoli dal corpo stesso della nazione, di cui avevano fatto parte fin dalla fondazione del Regno d’Italia. Le prime vere e proprie disposizioni legislative antiebraiche emanate dal Governo fascista sono due decreti legge: il primo è del 5 settembre e riguarda la scuola, il secondo è del 7 settembre e riguarda l’espulsione degli ebrei stranieri dal territorio italiano.

Quest’ultimo stabiliva che con la pubblicazione del decreto era «vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei possedimenti dell’Egeo». Allo stesso tempo venivano revocate «le concessioni di cittadinanza italiana fatte a ebrei stranieri posteriormente al 1° gennaio 1919». Ad essi si intimava, inoltre, di abbandonare il territorio nazionale entro sei mesi dalla pubblicazione del decreto-legge. Tale provvedimento colpiva non soltanto i recenti rifugiati ebrei in fuga dalla Germania nazista o da altri Paesi dell’Europa Centro-Orientale, ma anche coloro che risiedevano in Italia ormai da decenni e che si erano inseriti nella società, portandovi elementi di novità e di progresso, soprattutto nell’ambito delle professioni liberali, specie nelle scienze mediche. Tale provvedimento annullava di colpo una tradizione di asilo per i perseguitati politici, che all’estero era considerata una caratteristica del tratto gentile e accogliente del popolo italiano. Questa legge, insomma, aveva la finalità professata di colpire duramente gli ebrei stranieri, che avevano cercato in Italia «un soggiorno di transito o ancora di più una seconda patria» (1). L’illusione nutrita dagli ebrei «profughi», che l’Italia potesse rappresentare per essi una terra di accoglienza, soggiorno o transito, rischiò, nel giro di poche settimane, di trasformarsi in una vera e propria trappola; di diventare in ogni caso una illusione perduta.

Il decreto-legge Bottai sulla scuola stabiliva l’espulsione, con effetto immediato, dall’insegnamento nelle scuole statali o parastatali di ogni ordine e grado «di persone di razza ebraica». Inoltre, l’art. 2 statuiva: «Alle scuole di ogni ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica». Un ulteriore decreto sulla scuola del 23 settembre 1938 stabiliva la creazione nelle scuole elementari statali di speciali sezioni per gli alunni ebrei (con un minimo di dieci presenze) e dava alle comunità ebraiche la facoltà di istituire proprie scuole elementari. Ai fini di tali provvedimenti era considerato di razza ebraica colui che «è nato da genitori di razza ebraica, anche se professi religione diversa da quella ebraica». La scelta di applicare la legislazione antiebraica partendo dalla scuola non era casuale o senza significato. Innanzitutto, tale provvedimento aveva una valenza psicologico-sociale molto forte: infatti poneva in piena luce, davanti al Paese, il problema degli ebrei e lo faceva in un momento particolare della vita sociale, quando, cioè, tutti gli alunni o studenti del Regno si apprestavano a ritornare a scuola dopo le vacanze estive. Tale provvedimento discriminatorio doveva rappresentare per tutti, ebrei e non ebrei, uno shock salutare e necessario per dare un’indicazione certa sulla volontà governativa di attuare una seria politica razziale, come già si faceva in Germania, attraverso la separazione-segregazione sociale.

Va ricordato, inoltre, che il modo indiscriminato con cui tale decreto fu ideato e poi applicato faceva cadere una volta per tutte ogni illusione proporzionalista — cioè di concedere agli ebrei un peso nella vita sociale proporzionato alla loro consistenza numerica — prevista nell’informativa diplomatica n. 18 del 5 agosto, la quale aveva ottenuto il beneplacito e il sostegno di molti settori del mondo cattolico. Inoltre, cominciare dalla scuola, e da tutto ciò che ruotava intorno ad essa (associazioni giovanili, famiglia ecc.), per meglio «separare e segregare», significava puntare sulla mobilitazione di quel particolare settore della società in cui veniva forgiato l’uomo nuovo fascista, ritenuto più sensibile e permeabile alle istanze volontaristiche che il regime intendeva alimentare.

A volte si dice che la legislazione antiebraica adottata in Italia a partire dal settembre 1938 fu, rispetto a quella in vigore in altri Paesi totalitari, più blanda, forse più umana. Si tratta di un mito da sfatare. Anzi, alcune disposizioni al momento in cui furono emanate dal Governo fascista erano più severe e persecutorie di quelle vigenti nella Germania nazista: ad esempio, non esisteva in quel tempo in Germania una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri; inoltre, l’espulsione totale degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche fu decisa dal Governo di Berlino due mesi dopo la sua entrata in vigore in Italia e adottando il metodo della gradualità nella sua esecuzione (2).

Il Governo fascista su tale materia, come è stato giustamente notato, optava per l’espulsione di tutti gli ebrei residenti in Italia. Ma tale obiettivo, per diversi motivi, non era raggiungibile in tempi brevi; per il momento l’azione governativa, come stava accadendo in Germania e negli altri Paesi totalitari, si andò orientando con determinazione verso la separazione-segregazione degli ebrei italiani — che a mala pena arrivavano a 50.000 — dal resto della comunità nazionale. Come elemento di discriminazione fu assunto il dato biologico-razziale e non quello di appartenenza religiosa o culturale, come alcuni cattolici avevano sperato. Tale indirizzo fu perseguito ostinatamente da Mussolini fino alla fine: nel febbraio 1940 egli fece comunicare all’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane che tutti gli ebrei di cittadinanza italiana avrebbero dovuto abbandonare definitivamente l’Italia. In effetti, da alcuni mesi il Governo stava preparando un progetto di legge che disciplinava tale espulsione, graduandola in un arco temporale di dieci anni. «L’ingresso dell’Italia — osserva Sarfatti — nel secondo conflitto mondiale e l’estensione della guerra sui mari impedirono la realizzazione dell’ordine mussoliniano, mentre il progetto legislativo fu rinviato al dopoguerra. Sino al 1941, emigrò circa l’8 per cento degli ebrei italiani» (3).

La legislazione antisemita e la Santa Sede

La legislazione antisemita, in particolare quella sulla scuola, fu accolta dalla maggioranza degli italiani, in particolare dai cattolici, con vivo rincrescimento e a volte con rabbia; furono molte le lettere inviate in Vaticano da privati o da gruppi di persone e associazioni (anche non israelitiche), che invitavano le autorità ecclesiastiche e, in particolare, il Papa a intervenire presso il Duce in difesa degli «sventurati ebrei». «Desideriamo che il mondo sappia — scrive a Pio XI un gruppo di fascisti e cattolici di Reggio Calabria — che non siamo dei servi di un tiranno, ma che serviamo un’idea, per il nome di Dio e della Patria. Chi crede o s’illude d’avere in noi dei ciechi strumenti di ogni sua aberrazione, è bene che sappia che noi abbiamo la fierezza di dire no, e di non avanzare oltre le barriere della nostra fede». La lettera collettiva è firmata: «I fascisti d’Italia e figli Vostri e della Chiesa cattolica» (4).

Il giorno successivo all’adozione del decreto-legge sulla scuola, il 6 settembre Pio XI pronunciò un memorabile discorso contro il razzismo e contro l’antisemitismo: era la prima volta che ciò accadeva in modo così esplicito e diretto. Purtroppo esso non fu divulgato in Italia — infatti il 5 agosto il ministro Alfieri aveva dato disposizione ai prefetti di vietare che i discorsi del Papa contro il razzismo fossero pubblicati da riviste e giornali cattolici — e ciò avvantaggiò molto la causa razzista e diede l’impressione che il Papa, per motivi politici, non prendesse posizione su una materia così grave. Gran parte degli intellettuali cattolici, tra cui anche Dossetti, ne ebbero notizia leggendo le riviste cattoliche di oltralpe (5). Il celebre discorso fu tenuto a Castel Gandolfo, dove il Papa si trovava da tempo, davanti a un gruppo di pellegrini belgi, molti dei quali lavoravano nell’ambito delle comunicazioni. Il testo integrale, pubblicato dalla Documentation Catholique, fu stenografato da uno dei presenti, mentre il Papa parlava. Il quotidiano vaticano, L’Osservatore Romano, pubblicò il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, mentre la «cronaca contemporanea» della Civiltà Cattolica non ne fece menzione. Le parole del Papa sono riportate dalla rivista cattolica belga in modo abbastanza colorito: «A questo punto il Papa — è scritto — non riuscì a trattenere la sua emozione… ed è piangendo che egli citò i passi di Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo [...]. L’antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L’antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare [...]. Non è lecito che i cristiani prendano parte all’antisemitismo. Noi riconosciamo che ognuno ha il diritto all’autodifesa e che può intraprendere le azioni necessarie per salvaguardare gli interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti» (6). Le parole di condanna dell’antisemitismo pronunciate con voce commossa dal Papa erano forti e chiare.

Su questa materia la Segreteria di Stato assunse un atteggiamento piuttosto prudente, pensando che in tal modo si potesse ottenere qualcosa di concreto a vantaggio degli ebrei, in particolare di quelli convertiti al cattolicesimo. Il p. P. Tacchi Venturi, fiduciario del Papa presso Mussolini, fu incaricato di trattare la delicata questione degli ebrei presso le autorità governative. Una Nota della Segreteria di Stato dell’8 settembre 1938 suggeriva al gesuita di attirare l’attenzione dell’autorità governativa soprattutto sugli ebrei battezzati e convertiti al cattolicesimo: «Non sarebbe equo — si chiedeva l’estensore — che, indipendentemente dall’origine, gli ebrei convertiti che hanno contratto in precedenza un matrimonio misto ai sensi del diritto canonico [...] fossero considerati cattolici e non già sempre e comunque ebrei sol perché tali erano i loro genitori?». Vale a dire, si chiedeva al Governo fascista di utilizzare come criterio discriminatorio non il dato biologico-razziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza a una determinata fede religiosa, in questo caso quella giudaica. Appare oggi imbarazzante per lo storico cattolico, soprattutto dopo le aperture del Concilio Vaticano II in tale materia, giustificare con categorie morali o religiose tale impostazione di pensiero e tal modo di procedere. Compito dello storico è però quello di ricostruire, per quanto è possibile oggettivamente, la vicenda storica, cercando di comprendere la mentalità e la cultura dei soggetti interessati, senza apriorismi di carattere ideologico. Secondo la cultura cattolica del tempo, anche se non tutti erano d’accordo con tale principio, sembrava che compito della Chiesa fosse quello di proteggere innanzitutto i propri fedeli, senza però in questo venir meno al senso di giustizia e di carità dovuti a tutti gli esseri umani.

Alla luce di tale principio si capiscono meglio i successivi interventi dell’autorità ecclesiastica in questa materia. L’attività svolta dal p. Tacchi Venturi a favore degli ebrei non ebbe, come è noto, grande fortuna, anche perché Mussolini era fortemente determinato a portare avanti la sua politica razziale e, in questo settore, non voleva essere secondo all’alleato tedesco. In un’udienza del 9 settembre, cioè dopo i primi decreti-legge antiebraici, il Papa disse esplicitamente al gesuita di trasmettere a Mussolini il seguente messaggio: «Il Santo Padre come italiano si rattrista veramente di vedere dimenticata tutta una storia di buon senso italiano, per aprire la porta o la finestra a un’ondata di antisemitismo tedesco» (7). Due giorni prima, il 7 settembre, il p. Tacchi Venturi aveva comunicato al Duce che «il Santo Padre per notizie e informazioni purtroppo attendibili è molto preoccupato che questo aspetto o parvenza di antisemitismo che si dà alle disposizioni prese in Italia contro gli ebrei, non abbia a provocare da parte degli ebrei di tutto il mondo delle rappresaglie forse non insensibili all’Italia» (8).

A tali sollecitazioni del Papa, Mussolini rispose, anche se indirettamente, il 18 settembre a Trieste, dove ritornò a parlare del problema del razzismo. Egli riaffermò in modo perentorio che l’Italia non aveva deciso la politica razziale per «fare cosa gradita alla Germania» e che tale questione era stata così impostata dal fascismo già dalle origini. Disse poi, tentando di giustificare le recenti disposizioni ministeriali sugli ebrei, che «l’ebraismo mondiale è sempre stato un nemico irriducibile del fascismo» e preannunciò, per porre un freno alle reazioni negative contro i citati decreti-legge, l’emanazione di disposizioni benevole per gli ebrei di cittadinanza italiana, benemeriti verso la nazione. A molti, però, era parso che Mussolini nel suo discorso avesse voluto rispondere al Papa, facendo intendere che su tale materia egli non accettava consigli da nessuno. Il vescovo di Trieste, mons. A. Santin, durante la visita che il Duce fece alla cattedrale di San Giusto, chiese a Mussolini se nel discorso che aveva fatto era sua intenzione, come qualcuno aveva fatto intendere, attaccare, seppure indirettamente, il Papa. Egli, con sicurezza, rispose al prelato che in nessun modo era sua intenzione offendere il Papa, anche perché, disse: «Il Sommo Pontefice si occupava di razzismo in altro senso e quindi non vi era nessun contrasto [tra le due posizioni]». Mons. Santin raccontò la vicenda, spendendo parole di plauso nei confronti di Mussolini, in una lettera rassicurante indirizzata a Pio XI. Il Papa però, pur rallegrandosi della promessa fatta dal Duce di tener conto nella successiva legislazione antiebraica dei meriti patriottici ottenuti da cittadini ebrei, confidava che anche coloro che avessero ricevuto il battesimo e fossero così diventati figli della Chiesa venissero trattati alla stregua di coloro che eroicamente avevano combattuto per la patria. «Per queste considerazioni — è detto in una Nota vaticana — il Santo Padre confida che le norme per discriminare gli ebrei nello Stato italiano, non vengano applicate a quelli fra essi che ricevettero il battesimo» (9). Lo stesso, egli chiedeva, per gli ebrei stranieri battezzati.

Fatto sta che, a partire dalla pubblicazione del Manifesto della razza, i rapporti tra il Governo italiano e la Santa Sede, o meglio tra Mussolini e Pio XI — nonostante la firma di un «patto di pacificazione» (16 agosto 1938) — andarono gradatamente deteriorandosi, tanto che il Duce disse in privato che quel Papa rappresentava una rovina per l’Italia e per la Chiesa. La stampa internazionale, da parte sua, amplificò in modo caricaturale tale antagonismo, fino a ipotizzare un possibile abbandono della Città Eterna e dell’Italia da parte del Papa: «A seguito del recente conflitto di idee — scriveva alla Segreteria di Stato il Nunzio a Parigi, mons. V. Valeri — che si è manifestato tra le autorità del regime fascista italiano e la Santa Sede a proposito del razzismo, alcuni organi di stampa francese, la quale ha seguito largamente da vicino l’episodio, si sono spinti sino a prevedere nientemeno la possibilità futura di un esilio del Papato da Roma, e, più frequentemente, la nomina di un pontefice non italiano» (10). Tale fatto, riportato anche dal quotidiano cattolico parigino La Croix, dà la misura della serietà del conflitto esistente tra il Governo fascista e la Santa Sede a motivo della questione razziale e della legislazione antiebraica, universalmente condannata dai cattolici.

Per motivi prudenziali la Santa Sede però organizzò il suo attacco contro la nuova legislazione discriminatoria non facendo riferimento a motivazioni di ordine ideale, fondate sul diritto naturale — come, ad esempio, il diritto di tutti gli uomini a non essere discriminati per motivi di razza o di religione, allo stesso modo in cui in diverse occasioni aveva fatto Pio XI —, ma facendo leva sul proprio armamentario giuridico, in particolare il diritto canonico e il Concordato del 1929, per difendere innanzitutto il diritto degli ebrei cattolici, senza pregiudicare quello degli altri. Che cosa si ottenne seguendo tale indirizzo?

Molto poco, anche se la Santa Sede sperava di ottenere di più. Attraverso l’azione del p. Tacchi Venturi, con circolare del Ministero dell’Educazione Nazionale datata 23 ottobre 1938, si ottenne che i bambini di razza ebraica, battezzati, potessero frequentare scuole private cattoliche, anche parificate. «Ove si trattasse di ebrei non battezzati — è detto, però, in una Nota vaticana — il rev. Padre Tacchi Venturi ha rilevato che, a quanto egli ricorda, le scuole cattoliche non usavano in passato, per evidenti ragioni religiose e morali, ammettere alunni israeliti o comunque non battezzati. Tale norma sembra tanto più da seguirsi ora che il far diversamente potrebbe assumere l’apparenza di una opposizione alla politica del Governo» (11). Si ottenne anche, attraverso la mediazione del gesuita, i cui uffici furono presto avvertiti con fastidio dall’autorità governativa, che alcune insegnanti ebree battezzate insegnassero negli istituti cattolici parificati. Tale disposizione era stata già concessa dal ministro Bottai per le suore insegnanti di origine ebraica. Già questa era considerata dall’autorità fascista una concessione molto particolare, in quanto intaccava il principio biologico sotteso alla legislazione.

Motivo di ulteriore attrito tra il Governo fascista e la Santa Sede furono alcune dichiarazioni rese da R. Farinacci mentre si trovava a Norimberga in occasione del congresso annuale nazista, al giornale delle SS, Das Schwarze Korps, e pubblicate il 15 maggio, contro i frequenti discorsi di Pio XI in materia di razzismo. Alla domanda sull’importanza che gli italiani danno alle parole del Papa in materia di politica razziale, egli rispose: «Caro camerata, il popolo italiano è cattolico e oltre 300 milioni di cattolici del mondo guardano a Roma, perciò noi abbiamo fatto la pace col Vaticano [...]. Ora quando il Papa ha preso posizione in forma e maniera politica contro il manifesto fascista sulla razza, io, per primo, mi sono opposto a lui nel mio giornale. Ogni qual volta il Papa fa dichiarazioni politiche, il nostro popolo non dà ascolto a lui ma al Duce. La nota dichiarazione del Papa non ha fatto perciò la minima impressione sul nostro popolo. Una tale confusione sarebbe incomprensibile. Il fascismo realizzerà ognuna delle sue intenzioni, senza badare al Papa» (12). L’intervista fu recepita in Vaticano con profondo malcontento; Pio XI ne fu personalmente colpito, sebbene lo stile irruento e diretto del ras di Cremona gli fosse ben noto. Il 21 settembre 1938 il Cardinale Segretario di Stato consegnava all’Ambasciatore italiano presso la Santa Sede una Nota di protesta per le frasi irrispettose e offensive, pronunciate da Farinacci, verso «l’augusta persona del Santo Padre».

Intanto in Vaticano arrivavano decine di richieste di ebrei colpiti dalle disposizioni governative, chiedendo che il Papa si adoperasse in loro favore. Dalla documentazione vaticana, ora disponibile, risulta che la Santa Sede fece il possibile, intervenendo frequentemente attraverso il proprio fiduciario presso l’autorità governativa, per andare incontro alle necessità degli ebrei, in particolare di quelli battezzati. Va ricordato, infatti, che dal punto di vista umanitario soprattutto questi ultimi avevano estremo bisogno del sostegno papale, poiché essi non beneficiavano della protezione della comunità di appartenenza, che li aveva rigettati, e neppure del sostegno concesso dalle comunità ebraiche internazionali. L’anima di tale attività a favore degli ebrei, ormai socialmente discriminati, fu il p. Tacchi Venturi, che nonostante i suoi limiti — primo fra tutti la sua propensione a comprendere e spesso ad accettare le «ragioni» del regime —, si spese con grande generosità per questa causa.

Continua...

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