00 23/05/2009 17:07
La Dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo

Dopo i provvedimenti governativi del 5 e del 7 settembre, la seconda tappa del cammino verso l’introduzione in Italia di una legislazione apertamente discriminatoria nei confronti dei cittadini ebrei fu costituita dalle deliberazioni adottate dal Gran Consiglio del Fascismo del 6-7 ottobre 1938, destinate a fissare i pilastri fondamentali della successiva legislazione antiebraica. Tale Dichiarazione, dopo aver ricordato che il fascismo da 16 anni aveva svolto e svolgeva un’attività positiva, «diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana; miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti», fissava alcuni punti, i quali sostanzialmente colpivano la piccola fetta di popolazione italiana di razza ebraica. In tal modo il cosiddetto «problema razziale», i cui effetti nocivi avrebbero finito per attentare alla stabilità dell’Impero, si ridusse sostanzialmente a quello antiebraico: il problema ebraico, è detto nella Dichiarazione, «non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale».

I diversi punti fissati dalla Dichiarazione del Gran Consiglio possono essere così sintetizzati: 1) Divieto di matrimonio tra italiani/e e appartenenti a razze non ariane; 2) Espulsione degli ebrei dal partito fascista; 3) Divieto per gli ebrei di «essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone», o «essere possessori di oltre cinquanta ettari di terra»; 4) Divieto di prestare servizio militare; 5) Allontanamento dagli uffici pubblici; 6) Speciale regolamentazione per l’accesso alle professioni (13). In tal modo veniva creato agli ebrei uno status giuridico diverso da quello degli altri cittadini italiani; uno status che praticamente li privava dei fondamentali diritti politici e civili, facendone una categoria sociale di livello inferiore. Molto importante, a nostro avviso, è l’ultima parte della Dichiarazione, la quale, oltre ad essere meschinamente ricattatoria, introduceva un nuovo criterio per determinare l’appartenenza all’ebraismo: «Questa eventuale e le altre condizioni fatte agli ebrei potranno essere annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista». Ora, tale indegna trovata rappresentava un ricatto rivolto agli ebrei italiani, perché non si mobilitassero né in Italia né all’estero contro il regime che aveva loro negato la libertà e la dignità di cittadini. Tale affermazione li umiliava una seconda volta, togliendo loro il diritto di dissentire, di ribellarsi a decisioni apertamente ingiuste e ingiustificate. Va inoltre sottolineato che tale passaggio toglieva vigore e forza al principio ispiratore dalle Dichiarazione — cioè la natura biologica del concetto di razza — facendone di fatto un provvedimento scopertamente politico, dove le motivazioni di ordine scientifico avevano lo scopo di nascondere il carattere ideologicamente razzista e antisemita di tale indirizzo politico.

Per quanto riguarda l’analisi storica, la genesi e l’interpretazione di tale documento, rimandiamo alla ricca letteratura esistente (14). Ci chiediamo, invece, in che modo la Santa Sede e la stampa cattolica recepirono la Dichiarazione, la quale non giungeva certo inaspettata. Come sappiamo, a partire dalle disposizioni inviate ai prefetti dal ministro Alfieri il 5 agosto, la stampa cattolica si trovò come imbavagliata. In questo modo le fu impedito di partecipare in modo libero al dibattito pubblico in materia razziale e sulle nuove disposizioni assunte dal Governo contro gli ebrei: coloro che non condividevano l’indirizzo dettato dal regime in tale materia, o che avevano punti di vista differenti, da questo momento in poi dovettero tacere. La Civiltà Cattolica informò la Santa Sede degli ordini ricevuti dalla prefettura di Roma: la serie di articoli previsti sulla materia razziale, che il Papa tempo prima aveva richiesto al direttore, furono — oltre il primo, pubblicato prima della diffida, scritto dal p. A. Messineo — semplicemente sospesi (15). La rivista da quel momento in poi pubblicò le disposizioni legislative e amministrative in materia razziale, senza nessun commento: il che significava che la direzione della rivista disapprovava lo spirito di quelle disposizioni discriminatorie.

La Santa Sede per il momento decise di non intervenire direttamente: si sapeva infatti che un suo intervento pubblico, oltre a esasperare l’animo di Mussolini, ormai completamente maldisposto nei confronti dell’anziano Papa, avrebbe certamente nuociuto alla causa degli ebrei, e non solo di quelli battezzati. Si decise così di aspettare le disposizioni legislative che sarebbero seguite alle Dichiarazioni del Gran Consiglio, in modo da poter intervenire concretamente per ottenere dall’autorità governativa mitigazioni alla legislazione antiebraica, che già si annunciava dura e pesante. Siamo convinti che un intervento della Santa Sede e del Papa in quel momento contro le dichiarazioni dell’organo supremo del fascismo avrebbe innescato una lotta aperta tra il regime e il Vaticano, facendo così il gioco di chi, come Farinacci, avrebbe desiderato una sorta di regolamento di conti tra le due istituzioni, per far conoscere al mondo «chi veramente comanda in Italia». Sappiamo, inoltre, che Mussolini, in quel momento era determinato a bloccare ogni manovra del Vaticano in favore degli ebrei e a contrapporsi con forza agli appelli del Papa: il problema della razza, o meglio degli ebrei, doveva essere risolto con determinazione, come in Germania aveva fatto il suo collega nazista, senza curarsi dell’opposizione delle Confessioni cristiane, in particolare della Chiesa cattolica.

Perciò, la prudenza che la Santa Sede dimostrò in quel momento fu determinata dalla volontà di salvare il salvabile e, in ogni caso, di non voler contribuire a rendere più dura la legislazione antiebraica che nel frattempo si stava mettendo a punto. A questo si aggiunga che la mentalità dominante in quel momento in parte del mondo cattolico italiano, a proposito del problema ebraico era segnata da un certo antigiudaismo, che si radicava in passate, e anche recenti, contrapposizioni di carattere religioso e politico-culturale: pensiamo che per molti non fu facile svestirsi di tale abito mentale, per passare direttamente dall’altra parte, e vedere nell’ebreo un «fratello maggiore», da amare, e, soprattutto in quel momento delicato, da aiutare. L’unica questione che allora fu fatta presente all’autorità governativa fu quella dei «matrimoni misti», poiché tale materia toccava direttamente il diritto della Chiesa e il Concordato: su di essa, infatti, la Santa Sede poteva intervenire senza il timore di indispettire oltre misura l’autorità pubblica. Fu fatto notare che la disposizione del Gran Consiglio concernente tale materia immetteva nell’ordinamento giuridico italiano un nuovo impedimento assoluto alla celebrazione di matrimoni, ledendo così un diritto della Chiesa, in particolare quello di concedere dispense per disparità di culto, quando lo riteneva assolutamente necessario per la salvezza delle anime. Si chiedeva così al legislatore di non porre un divieto assoluto e generale alla celebrazione di matrimoni misti, semmai di concordare con l’autorità ecclesiastica una modalità per tenerli sotto controllo, attraverso un permesso speciale congiunto del Governo e della Santa Sede.

In ogni caso, non è vero, come a volte viene ripetuto, che la Santa Sede subì passivamente la legislazione antiebraica, o che intervenne soltanto, come nella materia dei matrimoni misti, per tutelare gli interessi specificatamente cattolici e confessionali: essa, sebbene con discrezione, cercò di preparare gli spiriti per la futura battaglia contro le nuove disposizioni emanate dal Regime. Un documento vaticano, redatto subito dopo le dichiarazioni del Gran Consiglio, ci informa a tale riguardo sulle direttive «segrete» date dalla Segreteria di Stato (16). L’azione della Santa Sede, è detto nel documento, dovrebbe svolgersi secondo una duplice direzione: «Azione persuasiva sul Governo. Per mezzo di persone adatte e ornate delle opportune qualità, sarebbe bene cercare di insistere su influenti persone del Regime — e non soltanto sul capo del Governo — per far loro comprendere a quali tristi conseguenze conduce una politica razziale esagerata che non si limita a misure tendenti al rinvigorimento della stirpe, ma va all’eccesso del razzismo con provvedimenti che ledono la giustizia e i diritti della Chiesa [...]. Di più far capire che in caso di dissidio colla Santa Sede lo svantaggio maggiore sarebbe per il fascismo». L’altra direzione riguarda l’azione sul clero. Innanzitutto si chiedeva di inviare in via riservata a tutti i metropoliti istruzioni speciali, da comunicare agli altri vescovi, «perché prevengano il clero di non inviare adesione alcuna alla rivista La Difesa della razza, considerata dannosa e non conforme alla dottrina della Chiesa in tale materia. In particolare, si raccomandava a tutto il clero italiano «che non tralasci occasione alcuna per insistere, con la dovuta prudenza si capisce, sui danni e le conseguenze di un nazionalismo e di una razzismo esasperato. Questo si potrebbe fare con speciali riunioni del clero senza dare l’impressione che si voglia fare azione contro il Governo [...]. Questo sembra necessario soprattutto nel momento presente in cui non v’è libertà di stampa e spesso anche i pochi e deboli quotidiani cattolici sono obbligati a pubblicare certe sciocchezze circa il razzismo». Si chiedeva, inoltre, che la stessa azione venisse svolta anche nei seminari maggiori, facendo attenzione però a non violare la lettera dell’accordo del 16 agosto sottoscritto dalla Santa Sede con il Governo fascista. Come già si è detto, la Santa Sede, in quel momento, scelse di agire contro le nuove disposizioni antiebraiche con mezzi discreti e puntando sull’efficacia della propria «diplomazia domestica», opzione da molti non condivisa, ma che nell’immediato sembrava la sola possibile e anche la più efficace.
__________________________________________________