00 19/11/2009 11:23
In Pakistan non tutti i cittadini sono uguali

La denuncia del Vescovo di Faisalabad alla Camera dei Deputati italiana


di Chiara Santomiero


ROMA, martedì, 17 novembre 2009 (ZENIT.org).-

Non sempre per le comunità cristiane nel mondo è facile vivere la propria fede senza essere discriminate sul piano dei diritti civili se non della incolumità personale dei suoi appartenenti.

Se ne è parlato questo martedì nel corso della conferenza stampa svoltasi nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati italiana per iniziativa dell'associazione "Salva i monasteri" (www.salvaimonasteri.org), nata per sensibilizzare l'opinione pubblica sul problema della distruzione dei monasteri ortodossi serbi in Kosovo.

"Senza uguaglianza nei fatti, non c'è una vera libertà religiosa", ha affermato monsignor Joseph Coutts, Vescovo di Faisalabad (Pakistan).

Il Pakistan è ufficialmente una Repubblica islamica, con 170 milioni di abitanti; i cristiani delle varie confessioni sono in tutto 3 milioni e rappresentano il 2% della popolazione.

"La Costituzione - ha affermato monsignor Coutts - assicura la libertà di culto e i diritti civili, ma i non musulmani sono di fatto cittadini di seconda classe, con pesanti discriminazioni nell'accesso al lavoro".

Alcuni partiti politici premono da tempo perché lo Stato pakistano adotti la sharia, la legge islamica, e se l'impianto normativo è ancora quello introdotto all'epoca del colonialismo britannico, gradualmente sono state approvate alcune leggi di contenuto religioso.

Secondo il Vescovo Coutts, "la legge 295, in particolare, può diventare molto pericolosa nelle sue applicazioni". La legge consta di tre paragrafi; il primo proibisce di pronunciarsi contro la religione di un altro gruppo, i suoi ministri e i luoghi di culto; il secondo commina una condanna a vita per chi dissacra il Corano e il terzo prevede la pena di morte per chiunque insulti il profeta Maometto in qualsiasi modo, direttamente o indirettamente.

Questo terzo paragrafo si presta a qualsiasi tipo di abuso perché è facile rivolgerlo a danno di qualcuno. Avviene, inoltre, che "una volta formulata l'accusa, la gente si scagli contro il malcapitato prima che venga stabilito se ha o meno un fondamento reale".

"Fino ad oggi - ha raccontato Coutts - non ci sono state condanne sulla base della legge 295, ma si sono verificate delle uccisioni in seguito alle accuse e almeno 900 persone sono in carcere per blasfemia, di cui 500 sono musulmani".

Intanto il clima è cambiato e cresce l'intolleranza: "due mesi fa, la folla ha attaccato un villaggio cristiano e sono morte otto persone solo perché qualcuno aveva accusato la gente di quel posto di aver dissacrato il Corano. Questa è la quinta volta che accadono episodi simili, il primo si è verificato nel 1983".Va detto che "il pericolo viene dai gruppi fondamentalisti e non si può dire che tutti i musulmani siano pronti ad attaccare i cristiani". A Faisalabad funziona un comitato di imam e responsabili delle comunità cristiane che si riuniscono per affrontare i problemi che si presentano. A Rawalpindi c'è un centro di documentazione interreligioso, ma "abbiamo constatato che più che di dialogo teologico - per forza di cose limitato - abbiamo bisogno di dialogare riguardo ai temi sociali sui quali si può lavorare insieme".

Proprio l'intensa attività sociale nel campo dell'handicap e della tossicodipendenza, insieme alla gestione di diverse scuole, rappresenta il punto di forza della comunità cristiana. "Sebbene minoritaria - ha commentato il Vescovo di Faisalabad -, la nostra presenza non è tuttavia nascosta".

"Abbiamo nostri rappresentanti in Parlamento, alcune pubblicazioni e una Commissione episcopale per la giustizia e la pace che ha promosso delle iniziative da cui è nato un movimento per la modifica della legge sulla blasfemia", ha concluso. "Con l'aiuto dei musulmani che si rendono conto delle gravi implicazioni per la libertà di questa legge contiamo di poterla modificare".

In Iraq c'è una persecuzione religiosa di sistema, non di Stato

Dichiara l'Arcivescovo Jules Mikahel Al-Jamil


di Jesús Colina


ROMA, martedì, 17 novembre 2009 (ZENIT.org).-

In Iraq la persecuzione religiosa non è "di Stato" ma "di sistema", spiega un rappresentante delle comunità cattoliche del Paese a Roma.

L'Arcivescovo Jules Mikhael Al-Jamil, procuratore del Patriarcato Cattolico Siriaco a Roma, ha presentato la sua analisi questo martedì intervenendo a un incontro con la stampa organizzato nella sala più solenne della Camera dei Deputati.

Il presule, 71 anni, ha denunciato che nel sistema sociale del Paese i cristiani, essendo una piccola minoranza, non hanno sostegni per difendersi, diventando facili prede di criminali comuni o di gruppi come Al Quaeda, la rete terroristica di Osama bin Laden.

Per questo motivo, spiega, si può dire che si tratta di una "persecuzione religiosa" provocata da un sistema sociale che si ispira a una visione del Corano secondo la quale l'islam e i suoi seguaci devono dominare e non essere dominati, concependo i credenti di altre religioni come cittadini con meno diritti.L'Arcivescovo, esperto di cultura e letteratura araba, ricorda che secondo il libro riconosciuto come sacro dai fedeli musulmani l'islam è una religione al di sopra delle altre.

Nel passato dell'Iraq (e alcuni applicano ancora questa visione), spiega, "i cristiani che si trovavano sotto un regime o una dottrina islamici erano liberi di credere nell'islam, o di abbandonare la loro terra, o di offrire un'imposta per vivere in pace".

In passato, riconosce, in Iraq i cristiani erano una minoranza piuttosto influente, che offrì un contributo decisivo alla cultura del Paese, come ad esempio nella creazione e nello sviluppo della prima Università di Baghdad, il che ha permesso loro di "godere di rispetto".

"Ciò non significa tuttavia che godano degli stessi diritti", secondo certe interpretazioni del Corano. In un regime islamico, "un cristiano non può dominare su un musulmano"; "un generale dell'Esercito non può essere cristiano".

Ora che dopo la guerra i cristiani hanno perso peso politico e influenza sociale e molti hanno abbandonato la propria terra, subiscono la "persecuzione di un sistema" sociale dominante, perché sono indifesi.

In una conversazione con ZENIT, l'Arcivescovo non si è detto favorevole alla proposta di rafforzare i diritti dei cristiani creano un enclave cristiano a Ninive (dove c'è una maggioranza cristiana), perché i cristiani fanno parte del tessuto sociale di tutto il Paese.

Non sostiene neanche l'emigrazione all'estero, perché come afferma "la Chiesa deve essere presenza di Cristo nel Paese. Se quando la situazione è difficile noi cristiani fuggiamo, allora non diamo quella testimonianza che è invece necessaria. E se le generazioni si sradicano, non torneranno mai".

Secondo il presule, in un Paese democratico come dice e vuole essere l'Iraq i cristiani devono godere degli stessi diritti degli altri cittadini.

L'incontro nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati è stato organizzato su proposta dell'associazione "Salva i monasteri" (www.salvaimonasteri.org) per sensibilizzare sulla situazione delle chiese e dei monasteri che vengono distrutti in Iraq, Pakistan e Kosovo.