00 05/11/2009 18:36



La «Caritas in veritate»
e l'«homo oeconomicus» del XXI secolo

La solitudine dei numeri uno


Pubblichiamo "L'enciclica di Benedetto XVI provoca la teoria sociale", un contributo tratto dal numero in uscita della rivista "Vita e pensiero". L'autrice insegna Filosofia e teoria sociale presso l'università di Warwick ed è membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

di Margaret Archer

Le reazioni alla nuova lettera enciclica di Benedetto XVI sono state piuttosto caute. Quasi ogni commentatore sembra essersi soffermato sulle parole del titolo. Qual è per me la più importante? Quale delle due viene maggiormente sostenuta dalla mia organizzazione?

È questo il tema che viene analizzato e commentato, con il risultato di dare alla fine una sorta di patchwork, come un insieme di riquadri a maglia lavorati in fretta, che però non hanno ancora la forma della coperta. Perché? Sostanzialmente perché la Caritas in veritate non è un'enciclica destinata al teologo, ma rappresenta un dialogo con gli scienziati sociali.

Negli ultimi vent'anni gli scambi tra il Vaticano e gli scienziati sociali, avviati da Giovanni Paolo II, fondatore nel 1994 della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, sono aumentati vertiginosamente. 

Né il suo successore si è tirato indietro:  nel faccia-a-faccia con Jürgen Habermas, decano dei teorici sociali, ha messo in luce l'impegno ad aprirsi "alla verità, da qualunque parte essa provenga" (n. 9).
In tal senso, un valido contributo viene da alcuni realisti critici dell'università di Bologna, il cui pensiero è responsabile del condimento, della sostanza e del sapore della Caritas in veritate, e il cui "paradigma relazionale" funziona in continuità creativa con i quattro pilastri della dottrina sociale cattolica:  dignità umana, sussidiarietà, solidarietà e bene comune. Vale la pena di affrontare lo sforzo di una tale impostazione, perché nella Caritas in veritate c'è qualcosa di davvero grande.

Lo "sviluppo umano integrale" è il concetto fondamentale di tutta l'enciclica, usato ben ventidue volte per amplificare il tradizionale concetto di "dignità umana". A causa della nostra filiazione divina, la dignità di ognuno e di tutti resta necessariamente inamovibile. È il significato di essere "umani" che è cambiato.
Al centro di questa nuova interpretazione c'è la "relazionalità", il riconoscimento della nostra socialità intrinsecamente umana e delle sue conseguenze. Questo sgombra il campo da una grave ambiguità relativa alla "dignità umana", ovvero che essa sarebbe applicabile all'"individuo solitario", qualcuno le cui relazioni sociali non servono a renderlo spiccatamente umano.

Piuttosto, la Caritas in veritate cerca di definire quali siano le condizioni per lo "sviluppo dell'uomo nella sua interezza e di tutti gli uomini" (n. 79), ritenendo che ciò debba basarsi su "una valutazione più profondamente critica della categoria di relazione" (n. 53).

Questa enfasi sulle relazioni umane - cardine dell'unità globale - è sancita dal paragone diretto con la Trinità, che è "unità assoluta fino al punto in cui le tre persone divine sono pura relazionalità" (n. 54).
Per sottolineare ancor più il concetto, si può dire che "relazionalità" significa prendere le distanze dall'individualismo dell'Illuminismo, ancora influente in due forme nell'ambito delle scienze sociali.

Da una parte l'homo oeconomicus, caro agli economisti neo-liberali, è un solitario sottosocializzato, una monade la cui unica preoccupazione è conseguire nella misura più ampia possibile le priorità che si è prefissato per diventare sempre più ricco.

L'"uomo economico" è - se mi si permette l'immagine - come John Wayne, che arriva in città da non si sa dove e fa ciò che pensa un uomo debba fare prima di allontanarsi galoppando nel tramonto, niente affatto influenzato dai nuovi rapporti e del tutto indifferente al modo in cui ha influenzato la città. A livello macro, le azioni di questi individui, proprio perché prive di qualunque relazionalità, non sono altro che aggregati.
D'altro canto l'homo sociologicus (più noto come l'"uomo dell'organizzazione") è sovrasocializzato; tutto ciò che ha gli viene dalla società. Che questo lo renda una creatura delle norme sociali o un giocoso post-modernista, egli è "flessibile" nei confronti delle circostanze.

Quale creatura delle circostanze è un relativista nato, che non condivide alcunché con l'universale famiglia del genere umano, ed è dunque incapace di solidarizzare con essa.
Poiché l'homo oeconomicus è antropocentrico e l'homo sociologicus sociocentrico, in entrambi non vi è spazio per la trascendenza. In nessun caso l'homo relatus mostra alcuna rassomiglianza con questi due modelli.

La relazionalità è per noi qualcosa di fin troppo noto:  cosicché, invece di prenderla sul serio, la diamo per scontata. Provate a fare questo esperimento con il pensiero. Siete al parco, state camminando dietro una coppia abbracciata, in tutta probabilità profondamente innamorata.

Non vi sentite attratti da quel particolare uomo o donna, ma ciò che riconoscete o addirittura desiderate è la loro relazione sentimentale, qualcosa che si è generato tra loro, insopprimibile per i due individui coinvolti. È questo ciò che la Caritas in veritate intende quando afferma che "una delle più gravi forme di povertà che l'individuo possa sperimentare è l'isolamento" (n. 53). E anche ciò che sant'Agostino intendeva quando diceva che i nostri cuori sono irrequieti finché non realizziamo le relazioni che la Rivelazione ci offre, quelle con il padre, la madre, il fratello e l'amico.

Quello che la Caritas in veritate ci invita a fare è rendere sacro ogni incontro umano mediante la "fraternità" ed estenderlo all'umanità intera, costruendo una famiglia globale mediante l'"inclusione relazionale" (n. 54). Comunque, la "fraternità" - il rivoluzionario slogan scaturito dall'agenda sociale - è promossa da alcune forme di organizzazione sociale e scoraggiata da altre. La relazionalità produce "beni relazionali"; essi sono indivisibili, nel senso che qualsiasi tentativo di dividerli distruggerebbe le stesse relazioni sociali che li genera.

Nessuno può eliminare la propria parte dall'orchestra o la propria quota dalla squadra di calcio; una coppia che divorzia non può portarsi via la propria parte di matrimonio. Al massimo potrà dividere le proprietà, ivi inclusi i figli. Il matrimonio viene sciolto o annullato, e non genera più nulla, poiché la relazione ha smesso di esistere. In breve, il bene comune non può essere parcellizzato tra chi lo produce.

Ogni "bene relazionale" continua a esistere solamente perché coloro che sono coinvolti vi attribuiscono importanza e operano per sostenere le relazioni che lo generano. Le loro azioni sono orientate verso il bene comune e il loro atteggiamento verso i co-produttori è completamente opposto alle relazioni contrattuali di mercato. Piuttosto, ognuno è motivato dalla reciprocità, perché ciò che c'è in gioco è troppo importante per essere messo in pericolo dalla persistenza di un rigido scambio di equivalenti.

La reciprocità è alimentata dalla generosità e dal "libero dare", e non governata dal quid pro quo. È utile constatare con quale velocità sia possibile bloccare questo motore:  quando negli Stati Uniti i donatori di sangue vennero retribuiti, si ebbe come risultato un numero minore di donatori e una più bassa qualità del sangue. Sviluppare invece una nuova relazione positiva vuol dire acquisire una nuova fonte di motivazione, servire il gruppo in solidarietà con esso.

Questo atteggiamento è ciò che Giovanni Paolo II ha definito "amore sociale" (Redemptor hominis, n. 16) e che, se sufficientemente esteso (ed esso è per propria natura espansivo), contribuisce a costruire quella "civiltà dell'amore" verso cui si indirizza la Caritas in veritate. Sarebbe questa una società giusta, in un senso assai più ampio rispetto all'autorevole teoria di John Rawls. Sotto il "velo di ignoranza", i soggetti (ipotetici) non agiscono in modo fraterno gli uni verso gli altri, ma solo in modo cauto, per evitare che un tiro mancino della cattiva sorte li possa far finire nella posizione più negativa.

Proprio come vi sono "beni relazionali" vi sono "mali relazionali":  malvagità, peccati strutturali, elementi nocivi, ossia disutilità economiche. In tal senso l'enciclica dà filo da torcere al capitalismo multinazionale e alla finanza deregolata.

Quello che la Caritas in veritate promuove per la sfera economica è un modo "tangenziale", non una terza via, o via media. Il capitalismo non è altro che una forma di economia di mercato, governato dalla ricerca del profitto e dal "bene totale" degli shareholders, gli azionisti, piuttosto che dal bene comune di tutti gli stakeholders:  impiegati, fornitori e dipendenti, a partire dai pensionati fino ad arrivare all'ambiente naturale (n. 40).

Al contrario, un'economia civile sarebbe al servizio di tutti coloro sopra menzionati, senza tralasciare i più poveri (il che fa aumentare il "bene totale"!) né mettere il loro benessere nelle mani dello Stato. Un ulteriore modo di "civilizzare l'economia" nasce non già dalle imprese private piuttosto che pubbliche, ma da iniziative spontanee basate sul principio di reciprocità e aventi fini sociali, iniziative (più diffuse nel continente europeo che in Gran Bretagna) che, senza rifiutare l'idea di profitto, puntano a un obiettivo più alto della mera logica dello scambio di equivalenti, del profitto fine a sé stesso.

Forse la dichiarazione più rivoluzionaria contenuta nella Caritas in veritate è che "il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità" (n. 39). Gli esseri umani hanno bisogno di ben altro che soltanto intessere relazioni e imporre relazioni; hanno bisogno di relazioni umane che siano alimentate in seno alla società civile. Nella società civile solo la sussidiarietà permette l'espressione della pluralità dei doni delle persone e la realizzazione della diversità delle loro necessità.

La società civile dovrebbe essere la zona cuscinetto che compensa (e civilizza) i due attuali Leviatani. Eppure, al di là di poche illustrazioni - di cui la più importante è la "sussidiarietà fiscale", che dà ai cittadini il diritto di decidere su come debba essere spesa una determinata quota di tasse - la Caritas in veritate (a ragion veduta) insiste sul fatto che non è compito della Chiesa fungere da pensatoio delle effettive politiche sociali.

Ciò che la Caritas in veritate ha fatto è stato lanciare una sfida fondamentale nell'ambito delle scienze sociali - attualmente preoccupate di soddisfare gli "indicatori di performance" del mondo accademico - per porre il benessere di tutta l'umanità in cima alla lista delle priorità.
Questa enciclica dimostra che i teorici sociali sono ascoltati; potremmo allora raccogliere la sfida dicendo più cose che valgono la pena di essere ascoltate.


(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2009)