Il libro dei “Giudici” fa riferimento ad un periodo, secondo ipotesi significative, che va
dalla morte di Giosuè (circa il 1220-1200 a.C.) all'inizio dell'epoca monarchica; è un
tempo complessivo di circa 180-160 anni.
Sono chiamati i “Giudici” alcuni particolari capi del popolo, o più precisamente i capi di
tribù. Essi vengono scelti per le situazioni difficili che turbano la vita della comunità
stessa. Il “Giudice” viene considerato un "liberatore" e inviato da Dio che, solo, sa
riportare il popolo alla sua riconquistata libertà e che quindi ricostruisce un rapporto di
pace con il Signore stesso.
Nei vv 2,6-10 il testo si ricollega al libro di Giosuè per indicare che c'è una continuità.
Nell'assemblea di Sichem (Giosuè 24,1ss) tutto il popolo d'Israele, nelle sue 12 tribù,
sancì il patto con Dio quando ascoltò le parole di Giosuè. Questi ricordò i fatti della
liberazione e si sentì di chiedere alle tribù la disponibilità a servire Dio come la sua
stessa famiglia si apprestava a fare. E tutto il popolo aveva risposto: "Noi serviremo il
Signore” (v 21).
Infatti la generazione di Giosuè e tutti quei personaggi che avevano sperimentato la
protezione di Dio nel deserto seppero mantenere fede all'impegno assunto (v 7).
Ma, col passar del tempo (vv 11-17), la storia di Israele si intorbida e, in questo testo,
viene riletta in una interpretazione teologica: che cosa, infatti, è diventato, agli occhi di
Dio, questo popolo, liberato attraverso Mosè?
Israele compie il male poiché abbandona il Dio dell'Esodo per seguire altre divinità. E’
il peccato della idolatria. Il popolo segue usanze, costumi, mentalità dei popoli entro cui
si ritrova ad abitare ed è ingolosito e ammaliato dalla cultura più evoluta rispetto alla
propria che, semplicemente, è da schiavi e da ignoranti pastori. Essi sono affascinati dal
benessere dei popoli della costa che questa cultura offre, ai loro occhi, e immaginano
che, con il loro culto, abbiano poteri sovrumani. Nell’idolatria si può ricattare Dio, lo si
costringe, lo si obbliga alla fecondità della terra, degli animali e delle donne.
Ma il benessere comporta atteggiamenti scorretti, mancanza di regole, suggestioni,
mentalità distorte ed egoismi di parte per cui il popolo perde la propria integrità ed
omogeneità, diventa povero e in balia della potenza e della forza degli altri.
Non è per caso che si riparli di schiavitù: "Furono depredati, furono venduti ai nemici
che stavano loro intorno ai quali non potevano più tenerle testa" (v 14). A questo punto,
dal momento che la cultura ebraica non è ancora giunta alla riflessione sulla propria
libertà e sulle responsabilità delle scelte, per un ovvio corto circuito le disfatte e le
disgrazie sono considerate, nella mentalità del tempo, castighi di Dio.
Il Signore, tuttavia, si preoccupa della liberazione di questo suo popolo come ha sempre
fatto e perciò "fece sorgere dei Giudici" (v 16).
Il problema dell’idolatria non è mai scomparso dall'orizzonte umano, anche nell'ambito
della vita quotidiana dei credenti di oggi. Idolatria significa mettere al primo posto delle
proprie scelte e della propria vita, ciò che non è Dio stesso. Perciò misura dell’esistenza
diventa tutto ciò che ho scelto come un Assoluto. Ma se scelgo ciò che non è un valore
di Dio, alla fine sono sconfitto (e questo vale per credenti e non credenti).