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A venticinque anni dalla morte di Hans Sedlmayr

L'esorcista dell'arte moderna


di Francesco M. Petrone


Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, mentre Picasso conquistava anche i musei italiani e già si discuteva magari con qualche sgomento di Action Painting, un riverito professore austriaco di storia dell'arte veniva a Roma, ospite dei convegni organizzati da Enrico Castelli per parlare di arte demoniaca. Non si riferiva alle ostentate diableries di tutti i nipotini di Goya, non esclusivamente almeno, e neppure alle blasfemie di stampo surrealista; pensava all'hybris dell'uomo autonomo e solo. Riproponeva un'affermazione di Adalbert Stifter:  "L'unico peccato mortale nel campo dell'arte è quello commesso contro l'originaria somiglianza dell'anima umana con Dio". "A sua immagine" era il principio che fondò la pittura rinascimentale e barocca; la "deformazione dell'immagine dell'uomo" ispirava l'attuale perversione dell'arte. Tra i sapienti d'Europa riuniti a Roma non dovette risultare anacronistico ed eccentrico, ma fuori da quel consesso, tra gli idolatri dello Zeitgeist apparve sconcertante, talché un lunghissimo silenzio ha nascosto l'opera luminosa di Hans Sedlmayr. Nemmeno l'occasione del venticinquesimo della sua morte che cade in quest'anno ormai al termine, ha prodotto grandi ripensamenti. Eppure il misconosciuto maestro, l'esorcista che voleva spazzare via le potenze infernali dall'arte moderna era stato l'ultimo sigillo di quella Scuola di Vienna che vantò una sorprendente successione di personaggi quali Wickhoff, Riegl, Dvoràk, Schlosser e che condusse con mano ferma la storia dell'arte tra le discipline scientifiche.

Nato nel 1896 a Hornstein, al confine tra Austria e Ungheria, ancora dentro l'Impero, Sedlmayr piuttosto che versare lacrime sulla dissoluzione del mondo asburgico, si preoccupò di una crisi più profonda e più universale:  lo sfondo irreligioso della creazione artistica negli ultimi due secoli, anzi, secondo il titolo eloquente di un suo saggio, l'arte nell'epoca dell'ateismo. "Per gli scrittori di mentalità tedesca - notava con una punta di cattiveria Bernard Berenson - l'opera d'arte è soltanto un trampolino dal quale tuffarsi nei torbidi abissi della conoscenza", Sedlmayr fa una eccezione:  la "rigorosa scienza" appresa alla Scuola di Vienna, dove gli studi iconologici si intrecciavano con quelli sulla forma lo indirizzò verso una analisi strutturale dell'opera (che non va confusa con lo strutturalismo). Il suo primo volume, del 1930, Die Architektur Borrominis (in italiano, Electa, 2002), algido e dottissimo, è esemplare:  vi poneva a confronto il microcosmo dell'opera con il macrocosmo dell'epoca. La storia dell'arte poteva così diventare "guida delle moderne scienze dello spirito".

Allievo di Julius von Schlosser, alla sua morte Sedlmayr ne ricoprì la cattedra. Nel necrologio per il maestro aveva scritto del timore di una vocazione chiusa nell'ombra del museo. Per uscirne fuori a tutti i costi restò invischiato nelle ignominie politiche del suo tempo. Ma già durante gli anni bellici era cominciato per lui un periodo di riflessione sull'arte e la barbarie moderna. Proseguì il lavoro in Baviera, negli ambienti culturali cattolici che contribuiranno alla sua maturazione. Offeso dalle miserie di una iconoclastia senza religione, colpito dalla liquidazione della Biblia pauperum in nome di esperienze estetiche più sofisticate, preoccupato dallo squilibrio causato dal dominio dell'esprit de géométrie su quello di finesse, irritato dall'"arrogante appello alla soggettività", dagli idoli scaturiti dall'estetismo, dal "nuovo" come categoria religiosa, dalla resa allo Spirito dei tempi - "che ha preso il posto dello Spirito Santo", diceva - dal terrorismo della critica, non si limitò alla deprecatio temporis, risalì alle origini segrete degli scherzi dadaisti e della austerità del Bauhaus, contradditori fenomeni di un unico destino dell'arte moderna. Raccolse queste considerazioni nel suo capolavoro, Verlust der Mitte, (Perdita del centro), pubblicato nel 1948 (la traduzione italiana, voluta da Del Noce, uscì prima da Borla poi da Rusconi, adesso se ne trova una copia anche in rete). L'arte moderna non filtrava più il mondo invisibile, sopprimeva il trascendente, il mitico, l'allegorico. Il Mitte, il centro, la via mediana, doveva cercare di sfuggire ai nuovi totalitarismi:  la scienza assoluta e l'arte assoluta.

Esponendo i paradossi moderni del rifiuto della fisicità, che di astrattezza in astrattezza conducono, dal XVIII secolo in poi, all'arte aniconica e all'architettura funzionalista, Sedlmayr arrivava alla causa prima:  depurando l'idea di Dio dagli elementi antropomorfici si presenta il Dio dei filosofi che immediatamente "si dissolve nella natura e scompare. Al tempo stesso si toglie all'uomo il carattere teomorfo e, pensando di restaurare la purezza dell'umanità, lo si relega al rango di automa o di dèmone". La lotta filosofica alla corruzione, mossa dall'ansia gnostica di purezza, conduce a desolanti astrattezze, e l'invivibile astrattezza si tramuta in inferno gelido. L'attrazione per l'"inanimato" e per gli astri, rinvenuta nella Parigi di Baudelaire, ricordava analoghe scoperte di Walter Benjamin. Un altro tedesco, Ernst Jünger, avvertiva in quel tempo la "crescente pietrificazione della vita". Ne risentiva anche la moderna "concezione architettonica della chiesa, e non solo della chiesa protestante:  massiccia, nuda, illuministica. L'elemento religioso che essa contiene non è sacramentale e mistico, ma solamente poetico". Del resto Wackenroder, leggiadra figura del romanticismo tedesco, credeva che il godimento estetico fosse già una preghiera; il museo ora diventava la vera nuova chiesa.

Questo culto dell'arte pura, assoluta, si accompagna al culto degli artisti. I maestri rinascimentali erano ammirati come padroni della tecnica non come sacerdoti di un Dio nascosto. I moderni invece non solo mantengono e lucidano il termine di "artista" ma si investono del ruolo di "cavalieri dello spirituale". Santità dell'arte in luogo dell'arte della santità.

I suoi rari critici lo liquidavano parlando di un pensiero che ha il suo centro di gravità in una specie di "paradiso perduto". In pochi riuscivano a condividere la tragedia della "disumanizzazione dell'arte", il decomporsi di una grande tradizione nel grottesco. Poteva però contare su un precursore e amico, il russo Vladimir Weidlé che, tra le due guerre, aveva pubblicato in Francia Les abeilles d'Aristée, che ripercorreva il medesimo itinerario di Sedlmayr, dal romanticismo alla poesia pura, fino all'afasia per desiderio di purezza. Anche Ortega y Gasset aveva affrontato l'argomento, e prima di tutti, con il suo La deshumanización del arte (1925), ma la diagnosi era accompagnata da una euforia fuori luogo, che il tempo smentirà crudelmente. A Darmastadt, cittadella della musica radicale, nei Colloqui del 1950, Sedlmayr si incontrò con Adorno e riconobbe subito che il filosofo aveva ordito per l'occasione la più vigorosa e affilata critica delle sue posizioni. Adorno rispondeva che anche per lui era "difficile identificarsi con la causa dell'arte moderna nelle sue estreme forme" e condivideva come il "negativo fosse essenziale alla concezione dell'arte moderna". Ma ciò gli sembrava - a differenza del suo interlocutore - un aspetto nient'affatto terribile. Alla bellezza universale e fuori del tempo diceva disincantato di non credere più. Sedlmayr non si arrendeva:  è la bellezza di Dio che si riflette in quella artistica, insisteva. Decenni dopo, Jean Clair, Alain Besançon, Marc Fumaroli, a modo suo Baudrillard, riprenderanno i temi della critica alla cosiddetta "arte contemporanea", il grado zero della metafisica.

A Monaco, Sedlmayr successe alla cattedra di Wölfflin e in questa università strinse amicizia con Romano Guardini:  la Fine dell'epoca moderna e la Perdita del centro si riecheggiavano a vicenda. In quel periodo diede alle stampe una specie di seconda parte del suo Verlust, La rivoluzione dell'arte moderna:  un volumetto che tutti gli appassionati della materia farebbero bene a leggere - ristampato da Cantagalli nel 2006, con l'inedito "Memorandum" in appendice - se non altro perché rappresenta un punto di vista davvero originale sull'argomento. Modello di Kulturkritik, tendeva a mostrare come l'arte moderna nata nel sommovimento della Rivoluzione francese fosse qualcosa di irriducibile alla tradizione occidentale. Non si trattava di un semplice mutamento di stile:  ingenuo credere che i ludici contemporanei saranno considerati tra qualche secolo i Raffaello del nostro tempo.

Nel 1962 inviò a Roma un Memorandum sull'arte ecclesiastica cattolica dove chiedeva all'"augusto Concilio" di fare attenzione al rapporto con tanta "arte che non è più cristiana né arte". Del resto se questa diventa lo specchio del nichilismo - quel negativo che ricercava Adorno - non può essere al contempo un'arte cristiana. Il capriccio in luogo della verità, riassumeva, non è accettabile all'interno delle chiese, inutile contare sulla "sincerità" dell'artista. Sottolineava anche l'incompatibilità di certa architettura moderna con la liturgia, dal momento che, ricordava, ogni gesto e parola liturgici sono anticipazioni del cerimoniale celeste. Il vecchio storico dell'arte esortava i padri conciliari a non cedere a una "accettazione timida di ciò che è mediocre", né a un'arte ecclesiastica "senza rinnovamento".
Per tutta la vita aveva criticato il mondo diviso tra i cultori del passato e quelli, più numerosi, dell'avvenire, spiegando che sono proprio i nichilisti della temporalità a cercare il proprio stato perfetto nel passato remoto (che non c'è più) e nel futuro remoto (che non c'è ancora). Lo spirito museale che contraddistingue il moderno era in fondo una forma mascherata di passatismo, fatta propria dal progressismo del XIX e XX secolo. La Chiesa doveva evitare il museo e il suo "tempo falso".

Negli ultimi anni tornò su questi argomenti in raccolte di saggi intitolate Die Tod des Lichts, "La morte della luce" (1970) e Kunst und Wahrheit, "Arte e verità" (1984). Riprendendo le distinzioni di Weidlé, Sedlmayr faceva un'operazione di bonifica linguistica:  la pura espressione, la pura forma è indice di un oggetto estetico, non ancora di un'opera d'arte. La maggior parte della produzione del Novecento usurpa, anche per fini di mercato, il nome di arte. Lo spiega bene Bonaventura da Bagnoregio, sosteneva Sedlmayr:  una immagine è infatti definita "bella" sulla base di due considerazioni. La prima se è ben fatta - quando bene protracta est - e "questo è l'aspetto estetico dell'immagine". La seconda se rappresenta bene ciò che intende rappresentare - quando bene repraesentat illum ad quem est. "L'inganno estetico" - talvolta l'autoinganno - consiste nello spacciare per arte documenti estetici nei quali questa corrispondenza non c'è. Ma proprio in tale corrispondenza è il senso dell'arte. Gli oggetti estetici sono invece i balocchi e i profumi dei decadenti, gli eccitanti spirituali, nulla a che vedere con l'opera che ci introduce alla dimensione dell'eterno presente.


(©L'Osservatore Romano - 25 novembre 2009)