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Il mistero dell'Incarnazione nei Padri e nell'arte bizantina

Il paradosso di una piccola città


di Alessandro Scafi

Il Signore, il cui volto non si poteva vedere senza morire, e il cui nome gli ebrei non volevano nemmeno pronunciare, si è fatto carne nel seno di una donna, diventando un uomo. Su questo paradosso scriveva nel IX secolo Teodoro Studita, il monaco di Costantinopoli che avversava la politica iconoclasta dell'imperatore bizantino Leone v:  "l'Inconcepibile viene concepito nel grembo di una Vergine; l'Incommensurabile si fa alto tre cubiti; l'Inqualificabile acquista una qualità; l'Indefinibile si alza, si siede e si corica; e l'Incorporeo entra in un corpo".

L'arte di rappresentare il Figlio di Dio è proprio fondata su questa antinomia fondamentale del credo cristiano:  il Verbo che si fa carne, un Dio assolutamente Altro e intimamente presente che esiste prima del tempo e oltre lo spazio, ma che poi nasce nel tempo, duemila anni fa, e nello spazio, in Giudea. I cieli non possono contenerlo, ma il mistero di Dio viene contenuto nel grembo di Maria.

Nel V secolo Cirillo di Alessandria così formulava il paradosso della fede cristiana:  "Riconosciamo che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, è perfettamente Dio e perfettamente uomo, generato prima dei secoli dal Padre secondo la divinità; nato dalla vergine Maria secondo l'umanità".
 
La Chiesa dei primi secoli è giunta alla contemplazione del mistero trinitario e dell'incarnazione soffrendo eresie e organizzando concili, attraverso un lungo travaglio teologico. Origene, il pensatore alessandrino che scrisse poderose opere in difesa del cristianesimo, confessava già nel III secolo il suo disagio intellettuale di fronte all'idea di un uomo-Dio:  "Accade che, di fronte a taluni aspetti umani, simili alla nostra fragilità di mortali, e, nello stesso tempo, ad altri divini, di nessun'altra propri se non di una natura superiore ed ineffabile; accade, dicevo, che la miseria dell'intelletto umano, sbalordita e sconcertata al cospetto di un fenomeno così straordinario, si trovi in imbarazzo e non sappia verso qual partito orientarsi, cosa concludere, dove dirigersi. Se, infatti, vogliamo riconoscere di trovarci dinanzi a Dio, ecco che, allora, ci imbattiamo nei suoi caratteri mortali; allorché, invece, lo riteniamo come un uomo, eccolo ritornare dai morti con tutto il suo corpo, dopo aver abbattuto la signoria della morte".

Le eresie cristologiche dei primi secoli costituiscono in realtà una tentazione perenne per i cristiani di tutte le epoche:  sottolineare l'umanità di Cristo per mettere in ombra la sua divinità oppure sottolinearne la divinità, trascurando la sua umanità. Anche gli artisti, che erano chiamati a esaltare il divino nell'uomo e l'uomo in Dio, oscillavano nella loro immaginazione tra un Cristo divinizzato, trascendente e pantocratore, ed un uomo storico, Gesù di Nazaret, il profeta crocifisso della Galilea. Anche questo imbarazzo dell'arte cristiana ci dice quanto l'umano sia intrinsecamente legato al divino ed il divino definitivamente compromesso con l'uomo.

Tutta l'iconografia cristiana si fonda sul mistero dell'Incarnazione. Così scriveva nell'VIII secolo Germano, patriarca di Costantinopoli:  "In memoria perenne della vita nella carne del nostro Signore Gesù Cristo(...) noi abbiamo ricevuto la tradizione di rappresentarlo nella sua forma umana, cioè nella sua teofania visibile, ben sapendo che in questo modo esaltiamo l'umiliazione del Verbo di Dio". Giovanni Damasceno, domandandosi perché nell'Antico Testamento vi fosse la proibizione di dipingere immagini sacre, rispondeva che allora non si conosceva l'incarnazione. Una volta però che l'incorporeo si è fatto uomo, cioè Cristo si è incarnato, Dio può essere dipinto. Anzi, proprio vedere la sua forma umana equivale alla salvezza. Giovanni di Damasco riconosceva che il mistero dell'incarnazione aveva reimpostato totalmente i rapporti tra Creatore e creature, Dio e uomini, spirito e materia:  "Dio, senza corpo né forma, non poteva in nessun modo essere rappresentato. Ma oggi, da quando è apparso nella carne e ha vissuto in mezzo agli uomini, posso rappresentare ciò che è visibile in Dio".

Dipingere il volto di Cristo era allora rappresentare l'oggetto della fede. Eppure il paradosso rimaneva, perché il divino conserva sempre la sua trascendenza e il suo mistero. Così si esprime il vii Concilio di Nicea, del 787:  "Sebbene la Chiesa cattolica rappresenti con la pittura Cristo nella sua forma umana, essa non separa la sua carne dalla divinità che vi si è unita:  al contrario, crede che la sua carne è deificata e la confessa una con la divinità".

Questa carne deificata del Verbo ha investito di energia sacra tutta la materia, saldando divino e umano, effimero ed eterno. La santità di quel corpo si è comunicata al creato, divenuto allora sacramento della sua presenza. L'arte cristiana celebra proprio questa bellezza del cosmo riflessa nel Verbo, questo corpo che trabocca di energia divina.

Un grande interesse assume in questo contesto l'arte delle icone, il cui splendore si è sviluppato in intimo legame con l'arte bizantina, dal IV al XV secolo. Le icone sono immagini sacre rappresentate su tavola. Lo scopo di quest'arte, la cui tecnica prevede la graduale sovrapposizione dei colori, a partire da quelli più scuri, fino a giungere alla luce, è quello di ristabilire nel fedele la dignità e la bellezza originaria della sua icona interiore. Per chi dipinge o per chi contempla un'icona, infatti, si rivela il mistero dell'Incarnazione e della trasfigurazione della materia, in un dialogo che coinvolge la totalità della persona.

Il Figlio di Dio è rappresentato nelle icone in un'umanità concreta ma universale, capace di raccogliere in sé tutti gli uomini, proprio perché indissolubilmente legata alla divinità che trascende tutto. Per questo il suo volto non è fissato in un atteggiamento naturalistico, ma è ampliato all'infinito, e può rivelare la più intima struttura dell'essere.

Uno studioso di icone russe, Romano Scalfi, ha parlato di "unità dell'immanente e del trascendente", di "esaltazione dell'umano" e "venerazione del divino". A suo avviso, non c'è nell'icona un equilibrio faticoso tra umano e divino ma una vera e propria "sinfonia". Il miracolo dell'icona riflette allora il miracolo quotidiano di una vita che si trasfigura continuamente. I cristiani possono "unire la natura creata con l'energia deificante increata", per usare le parole di Massimo il confessore. Ma questo è possibile proprio grazie al paradosso dell'incarnazione.

Nel 1938 una commedia trionfava a New York, la Piccola città, garantendo al suo autore, lo statunitense Thornton Wilder, il premio Pulitzer. Alla fine del primo atto, due personaggi, George e Rebecca Gibbs parlano di una lettera spedita dal pastore della piccola cittadina di Grover's Corners ad una parrocchiana ammalata. Sulla busta il parroco aveva scritto l'indirizzo della sua parrocchiana:  "Jane Crofut - Fattoria Crofut - Grover's Corners - Contea di Sutton, New Hampshire - Stati Uniti d'America - Continente dell'America Settentrionale - Emisfero Occidentale - Terra - Sistema solare - Universo - Mente di Dio". L'indirizzo collegava in uno strano crescendo una convalescente di un'oscura cittadina di provincia alla Mente di Dio. E, almeno nella finzione teatrale, la lettera è stata recapitata. La connessione è possibile anche nella realtà, appunto perché il Signore degli angeli è stato partorito.


(©L'Osservatore Romano - 1 gennaio 2010)