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L'invalidità delle ordinazioni anglicane (quinta parte)



Prima parte

Seconda parte

Terza parte

Quarta parte


3. Reazione anglicana alla lettera leoniana.

L'effetto della lettera leoniana, disastroso per certe correnti della Chiesa anglicana, giunse graditissimo ai cattolici inglesi, che da lungo tempo insistevano perché una autorevole parola pontificia mettesse fine agli equivoci ed appagasse anche quei ministri anglicani che, passando al cattolicesimo, dovevano ricevere sub conditione il battesimo ed essere ordinati ex novo, come se fossero semplici laici: causa per molti di viva contrarietà e di non poca umiliazione.

Le fazioni protestanti della Chiesa anglicana furono del pari soddisfatte del documento pontificio, che negava, come esse facevano, ogni potestà sacerdotale negli anglicani: infatti lo stesso «Times», frequente loro portavoce, non esitò a definire la lettera di Leone XIII chiara, leale, moderata.

Anche gli anglicani dell'Alta Chiesa non furono del tutto spiacenti della lettera leoniana, come quella che pareva portare un colpo gravissimo ai ritualisti, da essi considerati come elementi perturbatori e nocivi alla tranquillità della Chiesa: sentimenti molto bene interpretati dal «Western Times» di Exter, il quale, in un articolo del tempo, diceva: «Se una conseguenza disastrosa dovrà seguire la pubblicazione del grave documento, il disastro non sarà per la Chiesa di Roma, ma piuttosto per coloro che si sono allontanati dai princìpi della Riforma».

I ritualisti ammettevano infatti che il colpo era ben duro: cadevano le loro illusioni sacerdotali, le loro convinzioni di far parte della Chiesa ecumenica come branca separata ma legittima, cadeva infine la loro certezza di essere operatori di sacramenti, e tutto ciò in un momento, rapidamente, dopo speranze carezzate a lungo, nelle quali erano stati mantenuti purtroppo anche da certe fazioni cattoliche, più sentimentali che logiche. Specialmente in Francia, anche una parte dell'episcopato, lusingato di essere interpellato e desideroso di favorire la tendenza all'unione, non sempre aveva avuto il coraggio di dir tutta la verità, nella sua crudezza, e ciò nel timore di mancare di carità verso i dissidenti, così bene intenzionati.

Quelle illusioni nei ritualisti dovevano essere ben tenaci, se anche oggi perdurano, non solo in moltissimi, i quali opinano di essere davvero ordinati, parendo loro impossibile il contrario, malgrado i documenti prodotti e le argomentazioni cattoliche; ma anche in altri molti, che, ritenendo il documento pontificio una dichiarazione non «ex cathedra» ma un'opinione privata, sperano possa essere riveduto ed anche mutato dai successori di Leone XIII.

A tale proposito è bene aggiungere subito che il documento pontificio non costituì di fatto una dichiarazione dogmatica nel senso stretto della parola, ma che esso appartiene a quel genere di documenti che, per il modo con cui sono redatti, lo studio che importano, le ricerche a cui danno luogo, la solennità della commissione cardinalizia che li discute e redige prima di sottoporli all'approvazione del Papa, assumono sempre una posizione definitiva, tanto più quando, per non essersi aggiunta alcuna nuova documentazione in contrario, nessuna delle ragioni addotte fu confutata o dimostrata errata, e quindi immutata è rimasta la materia del documento: che, anzi, nuove indagini storiche non fanno che avvalorarne le ragioni e le sanzioni.

Allo stupore dei ritualisti successe una irritazione profonda, tanto che i giornali loro amici, quegli stessi che da tempo esaltavano la Sede Romana, sì da parere alla vigilia di riconoscerne l'autorità, iniziarono una campagna violenta contro, tendendo a diminuire il valore conclusivo della lettera pontificia, a porre in luce presunti errori del Pontefice, male edotto, peggio consigliato, a dimostrare trattarsi di un nuovo caso di intolleranza papale, e giù a parlare di «prepotenze», di «sogni egemonici», di «finalità politiche», tirando fuori lo stantio bagaglio antipapale (sempre eguale in tutti i tempi), mischiando insieme sacro e profano, realtà e fantasia, verità e calunnia.

Ma forse ancora più dei ritualisti, l'episcopato della Chiesa stabilita si trovava in grande imbarazzo: avrebbe preferito assai di non rispondere alla lettera leoniana, ma il non farlo sarebbe equivalso ad ammettere col Papa che nella Chiesa anglicana non esisteva più né l'episcopato né vescovi. Decise quindi di rispondere. Del grave compito si incaricarono i due primati inglesi, quello di Canterbury e quello di York, dopo diligenti studi affidati ai migliori dei loro storici e dei loro teologi.

La lettera è intitolata «Responsio Archiepiscoporum Angliae ad litteras apostolicas Leonis Papae XIII de ordinationibus anglicanis» e reca come motto il versetto del salmo «Da pacem, Domine, in diebus nostris». Il tono della lettera è contenuto e degno, anche se talvolta lascia apparire l'amarezza e il disappunto; i due primati si rivolgono con rispetto al Papa, chiamandolo «venerando fratello» («Frater ille venerabilissimus»), ne riconoscono la costante retta intenzione («semper cum bona voluntate scripsit») e la sua persona confessano degna di onore e di riverenza («multa in ipso amore et reverentia digna esse libenter profitemur»), e quindi iniziano la contro discussione, protestando di volerlo fare «in spiritu lenitatis».

Infatti i due primati, come lo possono, date le divisioni dottrinali della loro Chiesa e la loro scarsa autorità, cercano in primo luogo di controbattere la lettera pontificia sul terreno storico, affermando che essa lascia trapelare varie incertezze sulle occorrenze del secolo XVI; insinuano inoltre che il Papa si sarebbe basato su una copia imperfetta della bolla di Paolo IV, ma naturalmente non riescono però a produrre il famoso testo che sarebbe il giusto, né del documento basilare gravissimo ed inoppugnabile, che è il breve pontificio al Card. Polo, fanno il benché minimo accenno.

Quindi si inoltrano in un complicato labirinto di induzioni sopra le date delle facoltà accordate al Cardinal Legato, cercando di equivocare sul fatto che esse furono segnate qualche giorno prima della spedizione del breve da Roma. Ma sulla facoltà di «abilitare» e di «riabilitare» gli arcivescovi preferiscono cautamente di non interloquire, poiché i fatti citati nella lettera pontificia erano già da se stessi ben eloquenti. E del resto, a suffragare le asserzioni romane giunse in buon punto il Dr. Brown, vescovo anglicano di Stepeney, il quale, in una sua lettera al «Times» del 1° maggio 1896 accennava proprio ai 14 casi di riordinazione occorsi al Cardinal Polo e già citati.

Passano quindi i due primati ad accennare il caso Gordon, che secondo loro è il fondamento principale della decisione papale. Questo caso fu curiosissimo: nel 1704 il vescovo protestante di Glascow, Clemente Gordon, convertitosi al cattolicesimo, espresse il desiderio di conservare lo stato ecclesiastico. Egli era stato consacrato colla formula già corretta del 1662, e tuttavia la Sacra Congregazione, interrogata, ritenne dovesse «riordinarsi ex integro». La Congregazione aveva preso tale decisione dietro lunghe ricerche di formule consacratorie orientali; anzi, in quella occasione furono appunto tradotte, per la prima volta, quelle degli armeni, dei maroniti, dei siri, dei giacobiti, dei nestoriani, tanto cattolici che scismatici, cosicché la Congregazione dovette forzatamente concludere che nella formula anglicana mancava proprio la forma sufficiente al sacramento: per cui il vescovo Gordon dovette esser considerato nulla più che alla stregua di un laico qualunque. Ora gli arcivescovi anglicani, nella loro risposta, insinuarono che il Papa non si sarebbe ispirato a testi genuini e originali; senonché la pubblicazione fotografica dei documenti, numerosissimi, riflettenti il caso Gordon fu la migliore risposta alle gratuite asserzioni, le quali erano essenzialmente fondate su vecchie circostanze del secolo XVIII, d'indole polemica e già dimostrate false.

Gli arcivescovi passano poi ad accennare un po' superficialmente alla «favola tabernaria» citata da Leone XIII, appunto per confermare di non averla ritenuta degna di essere considerata elemento d'indagine, essendo già fin dal 1685 appiena screditata presso lo stesso informatissimo Santo Offizio. Del resto l'importante non è il luogo e nemmeno il come sia potuta avvenire la consacrazione di Parker, ma unicamente l'esame dell'intenzione e della mancata forma tradizionale.

Inoltre gli arcivescovi paiono dubitare che a trarre in errore il Papa possa essere stata la stessa esposizione di Gordon sul modo di ordinare della Chiesa anglicana; ma anche tale dubbio non appare fondato, perché il giudizio della commissione pontificia di quel tempo venne emesso in base allo studio di un esemplare dell'«Ordinale» edoardiano, comunicato, con lettera del 4 marzo 1685, dall'internunzio in Fiandra all'Em.mo Card. Casanata, e del quale si servì infatti la commissione pontificia per lo studio della situazione Gordon e per le debite comparazioni tra i testi dell'«Ordinale» e quelli delle varie liturgie orientali.

Contrastato così il campo storico con molte ragioni incerte, tutte tratte da supposizioni assai gratuite, i due arcivescovi si trovarono costretti a seguire il documento pontificio anche sul campo più strettamente teologico.

Davanti alla grave obiezione centrale del difetto di forma dell'«Ordinale» e dell'asserzione della sua indeterminatezza, i primati ricorrono ad una sottile distinzione, affermando di essere d'accordo col Papa che la forma deve essere «idonea», ma negano la necessità che essa sia «definita», equivocando così sulle espressioni, quasi che il Papa avesse inteso dire che la validità della forma nella ordinazione fosse legata ad una data parola piuttosto che ad un'altra, mentre dal testo pontificio chiarissimo risultava null'altro occorrere alla validità che un determinato accenno all'Ordine conferito, ossia alla qualità di potere dato.

Inoltre gli arcivescovi negano che nella Chiesa vi sia una tradizione divina e apostolica riguardante la forma e la materia dell'ordinazione e affermano il rito dell'ordinazione variare totalmente a seconda delle differenti liturgie; ciò che per nulla elimina le difficoltà addotte dalla lettera papale, poiché rimane pur sempre provato che i riti variano, ma in tutti si conserva una menzione esplicita del grado e dei poteri conferiti, e che in tutte le Chiese, anche separate, l'imposizione delle mani è sempre accompagnata dalle parole precisanti l'Ordine stesso.

(segue)