00 21/08/2009 09:12
Tutti noi sappiamo bene quali sono queste circostanze, che ci hanno sfidato lungo questo anno: la crisi economica, il terremoto dell'Abruzzo, le tante forme di dolore che ci hanno fatto riflettere (soprattutto la vicenda di Eluana), il vedere crollare un mondo davanti ai nostri occhi con leggi che non sanno più difendere il bene della vita o della famiglia, il trovarsi sempre di più a dover vivere la nostra vita "senza patria", le circostanze drammatiche personali e sociali - dalla malattia alle difficoltà, alla perdita del lavoro, se non addirittura alla perdita di tutto, come i nostri amici in Abruzzo -.
Per questo, le circostanze per cui Dio ci fa passare - ci dice don Giussani - «sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione».
Dunque per noi le circostanze non sono neutre, non sono cose che capitano senza alcun senso; cioè non sono cose soltanto da sopportare, da subire stoicamente.
Sono parte della nostra vocazione, della modalità con cui Dio, il Mistero buono, ci chiama, ci sfida, ci educa.
Per noi queste circostanze hanno tutto lo spessore di una chiamata, perciò sono parte del dialogo di ciascuno di noi con il Mistero presente.
Così - ci diceva don Giussani quindici anni fa, introducendo gli Esercizi della Fraternità del 1994 - la vita è un dialogo.
«Non è tragedia la vita: la tragedia è ciò che fa finire tutto nel niente.
La vita, sì, è dramma: è drammatica perché è rapporto tra il nostro io e il Tu di Dio, il nostro io che deve seguire i passi che Dio segna».
E' questa Presenza, questo Tu che fa cambiare la circostanza, perché senza questo Tu tutto sarebbe niente, tutto sarebbe il passo verso una tragedia sempre più oscura.
Ma proprio perché esiste questo Tu la circostanza ci chiama a Lui, è Lui che ci chiama attraverso di essa, è Lui che ci chiama al destino attraverso ogni cosa che capita.
Noi non siamo esenti dal rischio che don Giussani segnalava anni fa: vivere la vita soccombendo all'anestesia totale che crea la nostra società:
«II vero pericolo della nostra epoca, diceva Teiihard de Chardin, è la perdita del gusto del vivere.
Ora, la perdita del gusto del vivere implica il non sentimento di sé, [...] la non affezione a sé. Però, occorrerebbe fare un'anestesia totale perché un uomo perda integralmente, interamente il senso dell'attaccamento a se stesso e perciò una, almeno embrionale, emozione per se stesso, una preoccupazione di se stesso; occorrerebbe un'anestesia totale.
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