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La Vergine Maria...

Ultimo Aggiornamento: 05/11/2008 19:18
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05/11/2008 19:05

La Madre di Dio nella liturgia orientale

di GIORGIO GHARIB

Il Monastero di Ivíron e la Panaghía Portaítissa

Dedicato alla Dormizione della Vergine, Ivíron è il terzo dei Monasteri athoníti. - Ricco di affreschi e di icone, da esso si diffuse in tutto il mondo la venerazione per la Portaítissa.

Il Monastero di Ivíron, situato in un pittoresco avvallamento in prossimità del mare, occupa il terzo posto nella scala gerarchica dei Monasteri athoníti; è dedicato alla Dormizione della Vergine, la cui ricorrenza cade il 15 di agosto; ospita attualmente una cinquantina di monaci di nazionalità greca e dal 1673 segue la regola idioritmica.

Nel monastero vige ancora la consuetudine, unica in tutto l'Athos, di contare le ore secondo il sistema detto 'caldeo', che assume quale ora zero il sorgere del sole. Negli altri Monasteri vige invece il sistema 'bizantino', secondo cui le ore vengono conteggiate a partire dal tramonto. Il nome del Monastero è legato all'Iberia, regione a sud del Caucaso, corrispondente pressappoco all'odierna Repubblica di Georgia. Il nome Ivíron significa quindi 'Monastero degli Iberi' ossia Georgiani.

La costruzione dell’insieme degli edifici che lo compongono risale agli anni tra il 979 ed il 984, sul luogo ove sorgeva un tempo l'antica città pelasgica di Kleone.

Come tutti gli altri Monasteri athoníti, quello di Ivíron alternò periodi di floridezza economica a periodi di crisi. Nel 1259 venne assalito dai pirati franchi, disertori della IV Crociata, che ne distrussero un'ala. Al tempo di Michele VIII Paleologo (1259-1282) e di Giovanni Bekkos, patriarca di Costantinopoli, fautori dell'unione tra la Chiesa Ortodossa e quella di Roma, Ivíron venne fatto oggetto di rapine e distruzioni da parte dei filolatini. In quella occasione il suo igumeno e tredici monaci contrari all’unione furono assassinati e gettati in mare. Ivíron dovette subire poi altre distruzioni nei primi anni del XIV secolo, quando fu attaccato da pirati catalani, disertori di Andronico II.

Le cose migliorarono nel corso del XIV secolo, quando il Monastero fu oggetto delle attenzioni di Giovanni V Paleologo (1341-1391), di Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354), del principe georgiano Gorgorane e del re serbo Stefano Dusan (1331-1355), il quale, dopo aver esteso il proprio regno sino alla Macedonia ed all'Athos (1334), si autoproclamò nel 1345 "Imperatore dei Greci e dei Romani". Fu in questo stesso secolo, però, che il numero del monaci georgiani si ridusse a tal punto che, su pressione del prótos Arsenio, il patriarca Callisto II (1355-1363) con un sighíllion datato 1351 rimise la direzione del Monastero nelle mani di un greco ed elevò la lingua greca a rango di lingua ufficiale della liturgia di Ivíron. Di conseguenza i monaci georgiani, legittimi proprietari del Monastero, vennero estromessi dalla gestione e relegati nella Cappella della Panaghía Portaítissa.

In seguito, anche molti patriarchi di Costantinopoli si presero cura del Monastero di Ivíron, facendo larghe elargizioni.

Tra i grandi benefattori del Monastero non possiamo dimenticare lo zar di Russia Alessio Michailovic (1645-1676); egli aveva sollecitato l'invio a Mosca della taumaturgica icona della Portaítissa, tuttora venerata ad Ivíron, in occasione di una grave malattia occorsa a sua figlia. I monaci non spedirono però l'originale, bensì una copia, che sortì comunque lo straordinario e desiderato effetto di guarire l'illustre inferma. Per la grazia ricevuta, Alessio nel 1669 donò ad Ivíron il Monastero di S. Nicola a Mosca, uno dei più ricchi della capitale, insieme ad alcuni metóchia (= proprietà fondiarie di un monastero al di fuori del proprio territorio).

Gran parte degli edifici di Ivíron, tranne il katholikón, ampliato nel 1513, sono costruzioni piuttosto recenti. Nel 1845 e nel 1865, infatti, due furiosi incendi devastarono parte delle costruzioni, senza però danneggiare il tesoro e la ricchissima biblioteca, seconda soltanto a quella della Grande Laura. Grazie alle floride condizioni economiche, alla generosità di molti benefattori anche anonimi, i1 Monastero poté sempre essere prontamente ricostruito.

La Cappella e l’icona della Panaghía Portaítissa

La chiesa principale del monastero, detta katholikón, è riccamente ornata di affreschi e di icone. La biblioteca possiede più di 1500 manoscritti di cui alcuni riccamente miniati. Ma fra i tesori del Monastero spicca l'icona della Panaghía Portaítissa, venerata in una piccola Cappella, detta "Cappella della Portaítissa". La Cappella attuale, sita a sinistra dell'entrata del Monastero, è stata edificata nel 1680 ed affrescata nel 1683. È preceduta da un nartece affrescato nel 1774 con dipinti che rappresentano tra l'altro figure dell'antichità classica che, secondo la tradizione, annunciano la Natività di Cristo.

Secondo la tradizione, largamente diffusa dai monaci dell'Athos, l'immagine sarebbe opera autentica di San Luca. Apparteneva ad una vedova di Nicea - città e sede del primo Concilio ecumenico (anno 325) -, la quale viveva al tempo della lotta iconoclastica (secc.VIII-IX) e per questo tenuta nascosta nel timore di vederla distrutta dai nemici delle icone. Nell'anno 829, l'icona fu scoperta da un soldato che, proprio per distruggerla, la colpì con la sua spada. La Panaghía, colpita al volto, sgorgò sangue dalla ferita. Il soldato, sconvolto dal prodigio, si convertì e permise alla donna di conservare il suo prezioso tesoro…

Il quadro attuale della Panaghía Portaítissa è letteralmente ricoperto da ex-voto e da doni, i quali si sovrappongono a loro volta alla lamina metallica che nasconde quasi completamente l'immagine. Occorre tempo e molta pazienza prima di arrivare a distinguere i volti della Panaghía e del Bambino, anneriti dal fumo esalato dalle lampade ad olio che da secoli ardono davanti all'icona. Attorno ai volti, il resto della pittura è ricoperto, come già detto, da un rivestimento in argento dorato e sbalzato, ornato di pietre preziose grosse come noci. Sul capo della Madre e del Bambino sono poste due corone tempestate di brillanti che emettono bagliori di luce. Alcune catenine nelle quali sono appese monete d'oro e medaglie, sono fissate in corrispondenza della Panaghía. Questi e altri preziosi doni quasi sommergono la sacra immagine, davanti alla quale ardono perennemente venti lampade, anch'esse cariche di gemme e di gioielli.

I calogeri, gelosi della loro icona taumaturgica, raramente lasciano vedere per intero la tavola dipinta. Ciò spiega la difficoltà di apprezzare la sua giusta datazione. A giudizio degli specialisti, l'icona attuale apparterrebbe al XIV secolo o al più tardi al XV secolo. Ciò contrasta però con l'origine, storica o leggendaria, che avvolge l'icona.

Appoggiandoci su ciò che si vede dell'originale e sulle numerose repliche di quest'immagine che sono state fatte nel corso dei secoli, si può dire con certezza che l'icona è del tipo dell'Odigítria; da ciò si può facilmente comprendere come l'immagine sia attribuita a San Luca. La Madonna, raffigurata in busto, il volto leggermente rivolto verso il Bambino, regge il divin Figlio sul braccio sinistro e lo mostra con la mano destra sollevata come per indicare ai fedeli che le stanno di fronte: "E' lui la via". Il Bambino benedice alla greca, con la mano destra leggermente alzata e tiene un rotolo di pergamena con la sinistra. Veste tunica colore blu-verde e mantello (mafórion) rosso porpora riccamente ornato. L'icona è contrassegnata dalle due iscrizioni obbligatorie: MP Q Y, per Madre di Dio, e IC XC, per Gesù Cristo.

Le repliche dell'icona Portaítissa

La Madonna Portaítissa è molto diffusa in tutto il mondo ortodosso. Sul Monte Athos, ad esempio, esistono due altre Cappelle della Portaítissa dove si venerano copie dell'icona originale: la prima si trova nella Grande Laura, la seconda invece nel Monastero Konstamonitu.

La venerazione dell'icona è molto diffusa anche nel mondo slavo. Nel secolo XVII il patriarca Nicon aveva dato ordine agli iconografi del Monte Athos di fare due copie dello stesso formato dell'icona originale. La prima replica, mandata dall'archimandrita Pacomio allo zar Alessio, fu accolta a Mosca con grande solennità e trasferita in processione nel monastero Novodievitchi dove fu custodita in una cappella appositamente costruita dallo Zar. Presto, alla fine del secolo XVII, si prese l'abitudine di portare l'icona nelle case per benedirle e per guarire i malati. Gli zar e loro famiglie non si recavano mai a Mosca senza andare a pregare davanti ad essa.

La seconda copia, eseguita nel 1655, era anch'essa oggetto di grande venerazione. Era custodita a Novgorod, nella grande chiesa del monastero detto Iverskij Bogoroditchnij Sviatoezerski e venerata come taumaturgica dai fedeli. La sua festa si celebra il 31 marzo.

In seguito, le copie Iverskaja si diffusero in tutta la Russia. La sua festa si celebra per ben tre volte: il 12 febbraio, a ricordo del prodigioso arrivo dell'icona originale al monastero athonita; il 13 ottobre, a ricordo dell'arrivo dell'icona a Mosca, ed anche il martedì di Pasqua.

La venerazione dell'icona della Portaítissa è frequente anche in Occidente.

I monaci hanno fatto conoscere la loro Panaghía anche fuori del Monte Athos, come in Canada, Francia, Germania, Stati Uniti, e ovunque esista una diaspora ortodossa, cosicché le repliche dell'originale athoníta sono numerosissime.

Di recente una replica dell'icona originale è pervenuta in Canada. Alcuni mesi dopo l'arrivo si segnalarono fenomeni straordinari, come l'olio profumato che trasudava dall'icona. Il fenomeno durò a lungo, accompagnato da guarigioni spettacolari. Più straordinario ancora è il fatto che gli stessi fenomeni si manifestarono in Europa e in Francia tramite repliche dell'icona canadese. I fedeli ortodossi e non della Francia, uniti dagli stessi sentimenti di venerazione, hanno dato all'immagine il titolo di "Nostra Signora della Porta del Cielo". Il fenomeno ha destato non poca perplessità tra le Autorità ecclesiastiche, fino ad indurre nel 1991 il Vescovo cattolico di Tolosa a mettere in guardia contro ogni eccesso che non si inquadri con l'insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica.

Giorgio Gharib


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