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A quarant'anni dall'«Humanae vitae»

Ultimo Aggiornamento: 08/11/2008 10:54
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A quarant'anni dall'«Humanae vitae»

Un segno
di contraddizione


Quarant'anni fa, il 25 luglio 1968, Paolo VI firmava l'Humanae vitae, l'enciclica che respingeva la contraccezione con metodi artificiali, contro l'edonismo e le politiche di pianificazione familiare, spesso imposte ai Paesi poveri da quelli più ricchi. Appena pubblicato, il 29 luglio, il testo sollevò un'opposizione senza precedenti all'interno della stessa Chiesa cattolica, al punto che il Papa decise di non utilizzare più la forma solenne dell'enciclica, con ogni probabilità per non esporre a inutili logoramenti l'autorità pontificia:  «Raramente un testo della storia recente del Magistero - scrisse nel 1995 il cardinale Joseph Ratzinger - è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa Enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione profondamente sofferta». A spiegare il dissenso e le reazioni polemiche concorsero molti fattori, dal clima culturale complessivo di quegli anni agli enormi interessi economici implicati.
Su questo tema cruciale Papa Montini non mutò tuttavia il suo atteggiamento. Anzi, poche settimane prima della morte - parlando il 23 giugno 1978 al collegio cardinalizio - ribadiva, «dopo le conferme venute dalla scienza più seria», le decisioni prese allora, in coerenza con il Vaticano II, per affermare il principio del rispetto delle leggi di natura e quello «di una paternità cosciente ed eticamente responsabilizzata». E nel discorso per la festa dei santi Pietro e Paolo, esplicitamente presentato come un bilancio del pontificato, Papa Montini citò le encicliche Populorum progressio e Humanae vitae come espressioni di quella difesa della vita umana che definì elemento imprescindibile nel servizio alla verità della fede.
Definito con irrisione «l'enciclica della pillola», il documento papale - in continuità con il magistero di Pio XI e soprattutto di Pio XII, richiamato in proposito anche dalla Gaudium et spes - è coerente con le importanti novità conciliari sul concetto di matrimonio, ma nonostante questo fu sommerso dalle polemiche. Oggi, di fronte agli inquietanti sviluppi dell'ingegneria genetica, l'Humanae vitae appare lucida e antiveggente quando dichiara che «se non si vuole esporre all'arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell'uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato, sia rivestito di autorità, è lecito infrangere».
La bufera sollevata contro l'enciclica di Paolo VI oscurò soprattutto l'insegnamento sul matrimonio, descritto non come «effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali», ma istituito da Dio. Sacramento per i battezzati, il matrimonio è però «prima di tutto - afferma con forza l'Humanae vitae - amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale», come anche «forma tutta speciale di amicizia personale, in cui gli sposi generosamente condividono ogni cosa».
L'elaborazione del testo fu preceduta dai lavori di una commissione pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità che, com'è noto, nel 1966 concluse a maggioranza e non senza contrasti - e questo è molto meno noto - in favore della liceità della contraccezione nel quadro di una «paternità responsabile». Paolo VI tuttavia non si sentì legato a queste conclusioni, e per la sua decisione fu criticato e attaccato. Non si devono però dimenticare i consensi:  su «L'Osservatore Romano» del 6 settembre 1968 Jean Guitton definì l'enciclica ferme mais non fermée («ferma ma non chiusa»), in quanto «se parla della via stretta» mostra che è «la via aperta verso l'avvenire», mentre il cardinale gesuita Jean Daniélou sottolineava che il documento «ci ha fatto sentire il carattere sacro dell'amore umano», esprimendo una «rivolta contro la tecnocrazia».
Autentico segno di contraddizione, l'Humanae vitae non è ricordata volentieri. Certo per il suo insegnamento esigente e controcorrente. Ma anche perché non è utile al gioco ricorrente che mette i Papi l'uno contro l'altro, metodo forse utile dal punto di vista storiografico per delineare ovvie diversità, ma da respingere quando è usato strumentalmente, come avviene di continuo soprattutto nel panorama mediatico. Sostenitori di Paolo VI furono infatti il cardinale Karol Wojtyla - l'arcivescovo di Cracovia che aveva avuto un ruolo importante nella commissione allargata e che avrebbe poi molto innovato con il suo magistero pontificio sul corpo e la sessualità - e Joseph Ratzinger, altro porporato ab eo creatus. A mostrare la vitale continuità della proposta cristiana anche sul problema del controllo delle nascite, che già il 23 giugno 1964 il Papa definiva «estremamente grave» perché «tocca i sentimenti e gli interessi più vicini alla esperienza dell'uomo e della donna».

g. m. v.



(©L'Osservatore Romano - 25 luglio 2008)


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Il 25 luglio di quarant'anni fa Paolo VI firmava l'enciclica "Humanae vitae"

Rivoluzione sessuale
e secolarizzazione


Pubblichiamo una delle relazioni pronunciate al convegno "Custodi e interpreti della vita. Attualità dell'enciclica Humanae vitae" tenutosi dall'8 al 10 maggio presso la Pontificia Università Lateranense.

di Lucetta Scaraffia

"Se si volesse fare un rimprovero al Papa, non potrebbe essere quello del naturalismo, ma al massimo quello che egli ha un'idea troppo grande dell'essere umano, della capacità della sua libertà nell'ambito del rapporto spirito-corpo". Con queste parole scritte nel 1995, come prefazione alla riedizione dell'enciclica Humanae vitae, il cardinale Joseph Ratzinger individuava con lucida chiarezza quale fosse la ragione principale della difficile ricezione dell'enciclica anche all'interno del mondo cattolico. Paolo VI aveva avuto troppa fiducia nell'essere umano, e soprattutto sulla capacità dei cattolici di prendere una distanza critica dal momento storico in cui stava per intervenire con l'enciclica:  nel 1968, infatti, si stava avvicinando al suo culmine quel processo di liberazione sessuale che aveva avuto inizio alla fine del XVIII secolo. Un processo culturale che si riproponeva di liberare il comportamento sessuale dalle regole morali che lo avevano imbrigliato, per restituirlo ad una mitica naturalità, cosa che avrebbe finalmente reso felici gli esseri umani.
"Non so che cosa sia quel che tu chiami religione, ma non posso pensarne che male, dal momento che ti impedisce di gustare un piacere innocente, al quale la natura, madre e sovrana, ci invita tutti" dice il selvaggio Orou al cappellano della nave francese, che ha raggiunto le coste dell'isola di Tahiti nel pamphlet che Denis Diderot ha scritto nel 1774 dal titolo Supplemento al viaggio di de Bougainville. Il sottotitolo dell'opera è rivelatore delle sue intenzioni polemiche:  "sull'inconveniente che nasce dall'attaccare delle idee morali ad alcune azioni fisiche che non ne comportano". Se de Bougainville, nel suo celebre Viaggio, aveva offerto agli europei un perfetto paradigma della società di natura, Diderot coglie la sfida estendendola al comportamento sessuale, tema appena toccato nell'opera originaria. Secondo Orou, le regole cristiane sul matrimonio rendono "la condizione dell'uomo peggiore di quella dell'animale" perché obbliga gli esseri umani a rinunciare alla natura.
Con questo libretto, per la prima volta nella storia europea, viene proposta una totale indipendenza della vita sessuale da ogni categoria di ordine etico-religioso, e vediamo subito come la proposta si appoggi su una documentazione antropologica che dovrebbe testimoniare un comportamento "naturale", non ancora contaminato da regole e divieti, idea che conobbe un discreto successo anche negli anni successivi, fino a saldarsi con l'uso dell'antropologia fatto dai medici positivisti di fine Ottocento.
Nel pamphlet di Diderot ci sono già tutte le argomentazioni che utilizzeranno, a fine Ottocento, i pionieri del libero amore:  l'idea che le regole cristiane siano innaturali, e quindi impossibili da seguire, e che proprio per questo creino infelicità e storture sociali, e soprattutto che sia pericoloso il celibato ecclesiastico, impossibile da mantenere, e quindi apportatore di atti amorali e di malattie.
Il processo di secolarizzazione ottocentesco non solo mette in discussione la morale sessuale cristiana, ma addirittura la stessa legittimità della Chiesa a parlare di sesso, legittimità riconosciuta solo al discorso scientifico, soprattutto se medico.
Sempre in Polinesia, ma a Samoa, si era recata, intorno al 1920, una giovane promessa dell'antropologia culturale americana, Margaret Mead, per studiare il comportamento degli adolescenti. Il libro che racconta i risultati di questa ricerca - L'adolescenza a Samoa (1928) - ha confermato le descrizioni dei viaggiatori sette-ottocenteschi e dei missionari:  nelle isole della Polinesia il sesso era libero, e i corpi nudi e le danze selvagge erano prova di una totale assenza di inibizioni sessuali. La Mead, che aveva studiato un anno psicologia, arrivò anche ad affermare che a questa libertà sessuale corrispondeva una libertà da sensi di colpa, complessi nevrotici, impotenza e frigidità, che non esisteva più la crisi adolescenziale. Questo libro ebbe un successo di pubblico straordinario, mai registrato per un libro di ricerca antropologica, ma non solo:  venne considerato un'opera fondamentale dai massimi antropologi viventi, l'americano Boas e l'inglese Malinowski.
Il libro arrivava al momento giusto, perché offriva alla popolazione anglosassone una prova scientifica a favore della liberazione sessuale proprio quando era più insofferente del puritanesimo tradizionale:  nei decenni successivi, non ci fu studio dell'adolescenza o di problemi sessuali che non lo citasse come una bibbia. Lo straordinario successo del libro è la prova di quanto un gruppo di intellettuali cercasse in quegli anni di porre le basi di un'altra morale sessuale.
Ma la ricerca di Margaret Mead era sbagliata:  negli anni Ottanta, alcuni studiosi, sollecitati dallo scritto critico di un antropologo australiano, Derek Freeman, ritornarono sul posto per rifare l'indagine, e scoprirono che l'antropologa americana era arrivata troppo in fretta a conclusioni errate:  quella della libertà sessuale era una favola inventata dagli occidentali, per i quali nudità coincideva con una libertà di costumi da loro desiderata e immaginata.
Il fatto che finalmente si è capito che quella che è stata considerata una inoppugnabile prova scientifica dell'esistenza di società che praticavano la totale libertà sessuale, derivandone solo effetti positivi, fosse in realtà solo frutto di un malinteso nella migliore delle ipotesi - ma più probabilmente di una ricerca affrettata, in cui i testimoni avevano preso in giro l'allora giovane antropologa - può suggerire molte riflessioni. Soprattutto, che il clima riguardo alla liberazione sessuale negli ultimi decenni è mutato, perché non siamo più ansiosi di introdurla nelle nostre società, ma anzi oggi - che ormai è stabilmente diffusa - siamo pronti a guardarla con uno sguardo critico, consapevoli che il mito della felicità a portata di mano non si è realizzato neppure questa volta. Vediamo la realtà della Polinesia perché gli effetti della rivoluzione sessuale nei Paesi occidentali sono stati deludenti.
Ma l'utopia della liberazione sessuale non ha convinto solo gli antropologi:  già Freud aveva centrato sulla sessualità il suo discorso psicanalitico, minando una delle basi della moralità cattolica, cioè la fiducia nelle capacità dell'essere umano di combattere le tentazioni sessuali, sostenendo in sostanza che "nessuno era padrone in casa propria", e dopo la prima guerra mondiale una serie di suoi seguaci svilupperà in senso fortemente libertario la sua teoria, ottenendo uno straordinario successo fra i giovani europei e nordamericani. Sono infatti formati da Freud studiosi come Wilhelm Reich, e poi, sulle sue orme, Eric Fromm ed Herbert Marcuse, gli ideologi della liberazione sessuale.
Reich, staccatosi da Freud, era divenuto il profeta di una specie di religione che intrecciava psicanalisi e marxismo, centrata sulla convinzione che svilupparsi, vivere, esprimersi, amare compiutamente fosse impossibile per qualunque essere umano a cui fosse stata bloccata la funzione orgasmica e l'evoluzione verso la maturità sessuale, da lui definita come il "primato dei genitali". Tutte le sue opere principali, a cominciare da La funzione dell'orgasmo, pubblicata nel 1927, sono fondate sull'idea che chi non sfoga nell'orgasmo l'energia sessuale è destinato a nevrosi e a deformazioni della personalità. Nella sua opera più celebre, Psicologia di massa del fascismo (1933), questa motivazione psicologica viene utilizzata per spiegare l'affermazione dei regimi autoritari. È Reich il primo a utilizzare l'espressione "rivoluzione sessuale", che conoscerà tanto successo negli anni Sessanta.
La rivoluzione sessuale e quella politica erano dunque strettamente collegate nella ideologia del tempo, come riaffermarono pochi anni dopo Eric Fromm ed Herbert Marcuse, sia pure senza riferirsi a Reich, le cui opinioni, nel giro di qualche anno, diventarono così estreme e suscitarono tale sconcerto al punto che, negli Stati Uniti dove si era rifugiato, si ricorse al suo internamento psichiatrico. Fromm, nel celebre libro Paura della libertà, la cui prima edizione è del 1942, aveva sostenuto la stessa tesi:  cioè che se l'energia espansiva della vita era coartata nella sua espressione - cioè nella pratica sessuale - essa dava origine al carattere sado-masochista e autoritario. Ma la fortuna maggiore toccò al saggio Eros e civiltà di Marcuse, uscito nel 1955, dove il filosofo sosteneva che non ci poteva essere rivoluzione sociale senza rivoluzione sessuale, e che la liberazione sessuale costituiva la base della felicità umana.
Ma se è nota la fortuna di questi autori - negli anni Sessanta anche in Italia - chi ha dato la spinta decisiva alla rivoluzione sessuale è stato il biologo statunitense Alfred Kinsey (1896-1956), le cui date di nascita e di morte coincidono quasi perfettamente con quelle di Reich. Kinsey - che molto probabilmente non ha mai letto questi libri - ha dedicato la seconda parte della sua vita a raccogliere una documentazione, che voleva rigorosamente scientifica, sulla vita sessuale dell'"animale umano", un oggetto che egli si proponeva di osservare con la stessa freddezza e distacco con cui, come entomologo, osservava e classificava gli insetti. Il suo impegno totale alla causa, la sua fiducia utopica che la fine della repressione del desiderio sessuale avrebbe realizzato una società pacifica e armoniosa, ne hanno fatto un profeta-scienziato di grande impatto sociale. Come ogni vero guru, costringeva i suoi collaboratori a praticare anche nella vita, oltre che nello studio, la sua "religione".
Kinsey, come si è accennato, non è il primo studioso a proporre una liberalizzazione sessuale, ma è il primo a farlo senza ostentare alcuna ideologia politica, né simpatie per l'eugenetica o per il miglioramento della razza. La sua formazione di zoologo lo porta ad analizzare un solo tema - quello del comportamento sessuale - nella sua accezione più seriale e descrittiva, lontano da sconfinamenti sul terreno della psicologia o tanto meno dell'analisi sociale. Proprio perché l'interesse di Kinsey è esclusivamente incentrato sulla sessualità umana, analizzata con la stessa freddezza analitica che riservava alla catalogazione degli insetti, il suo lavoro è stato al tempo stesso così dirompente dal punto di vista morale, ma anche, per un altro verso, meno imbarazzante negli anni del dopoguerra, quando da una parte ogni riferimento all'eugenetica poteva richiamare le pratiche naziste, e dall'altra ogni dichiarazione di fede comunista suscitava i sospetti della società americana.
Con Kinsey, il comportamento sessuale si scinde completamente dalla sfera emotiva e da quella morale, per essere considerato solo dal punto di vista fisico:  in un certo senso, questa visione della sessualità - che si impone nelle società occidentali - ripropone, rovesciata, l'eresia gnostica che separava corpo e spirito dando tutta l'importanza allo spirito e disprezzando, quindi, la sessualità. Qui si dà invece al corpo e alla sessualità il massimo dell'importanza, facendo in sostanza coincidere l'identità dell'individuo con questi, e arrivando anche - secondo Reich e Fromm - a sostenere che la sessualità ne determina il comportamento, in totale contrapposizione alla unione inscindibile fra corpo e spirito sempre sostenuta dalla tradizione cristiana.
Naturalmente, questa visione nuova, libera, della sessualità, ha il merito di recuperarne la dimensione leggera, ludica, schiacciata in un certo senso dal carico di significati "alti" che la tradizione cristiana dà all'atto sessuale.
Lo studio di Kinsey sul comportamento sessuale dell'uomo è stato tradotto abbastanza presto in Italia - nel 1955, mentre l'edizione inglese è del 1948 - e pubblicato con una lunga introduzione di Cesare Musatti. Questi, noto in Italia come uno dei primi e più celebri psicanalisti freudiani, riconosce l'importanza scientifica e culturale dello studio, in quanto prova che "non esiste uno schema fisso della normalità sessuale:  e la fenomenologia sessuale, entro un ambito che non vi è motivo per qualificare abnorme, è estremamente varia, e sfuma nella anormalità vera e propria, o nelle sue diverse forme, per gradi insensibili". Il rapporto Kinsey si rivela quindi un ottimo ausilio per la psicanalisi, legittimando la confessione di desideri e pratiche trasgressive per la morale corrente.
Il successo di questa ideologia rivoluzionaria, che presupponeva un distacco netto fra sessualità e procreazione, era assicurato anche dal fattore demografico:  dopo la seconda guerra mondiale, infatti, grazie ai progressi medici, la crescita della popolazione, che avviene per la prima volta nella storia anche nei paesi del Terzo mondo, dà origine a una serie di previsioni catastrofiste. Già nella conferenza mondiale sulla popolazione tenuta a Roma nel 1954 sotto l'egida delle Nazioni Unite era emersa la preoccupazione per lo squilibrio tra la crescita demografica e le risorse del pianeta. Nei decenni seguenti, le organizzazioni internazionali fanno proprio il punto di vista occidentale, secondo il quale i Paesi ricchi sarebbero in pericolo, perché assediati da una crescente folla di poveri che si moltiplicano rischiando di consumare troppe risorse. Domina infatti l'idea - oggi abbandonata - che la produzione delle risorse costituisca un fattore rigido, immodificabile.
Ma, nonostante tutto, ancora negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta la contraccezione costituiva un tema controverso, tanto da non poter essere propagandato tra le masse come positivo in sé. Nel 1957 erano usciti in Italia due scritti a favore del controllo delle nascite:  l'articolo di Rinaldo de Benedetti sul Mondo (I figli della fame) che invocava il controllo delle nascite per adeguare la popolazione alla disponibilità effettiva delle risorse, e il pamphlet di Vittoria Olivetti (Demografia e controllo delle nascite), tenace militante del controllo delle nascite, che fa esplicito riferimento alla condizione femminile:  "scegliere il momento della gravidanza permette alle donne di vivere più liberamente e tranquillamente sul piano economico e psicologico". Ma la scelta delle donne non è ancora presa seriamente in considerazione:  negli anni Sessanta, sempre in Italia, un'associazione come l'Aied, per diffondere la contraccezione, pubblica dei fotoromanzi, nei quali la prima cosa che colpisce, al di là della indubbia resa divulgativa del messaggio, è la necessità di aprirsi a un discorso generale, di proporre una ricetta per un futuro migliore. Con l'uso degli anticoncezionali, dice il protagonista di un fotoromanzo dell'Aied, avremo "un mondo con pochi figli e molto amore", un mondo diverso da quello che i giovani hanno ereditato dalle generazioni passate, "sovraffollato, pieno di guerra, di fame, d'inquinamento". L'eroina di un'altra storia, che ha appena cominciato a prendere la pillola, afferma:  "sto prendendo la pillola:  questo è il segreto della nuova felicità"; felicità sessuale che diventa felicità familiare e solidità del matrimonio. L'occhio è rivolto al futuro e la contraccezione viene proposta non tanto come rimedio a problemi individuali, ma come mezzo per migliorare il mondo con l'amore e l'ecologia. Un altro fotoromanzo, meno raffinato, ripropone la contraccezione in un contesto caro al socialismo del primo Novecento, lo sfruttamento operaio, che diminuirebbe se ci fosse minore offerta di manodopera. Anche in questo caso, comunque, la contraccezione viene giustificata in una prospettiva generale - cioè la certezza di un mondo migliore - se solo fosse realizzata.
In fondo, ancora per l'Aied, l'uso dei contraccettivi deve essere sostenuto da una giustificazione generale, da una speranza utopica di un mondo migliore:  non si ha infatti il coraggio di giustificarlo con il desiderio individuale, di fatto egoistico. Anche se con altre motivazioni - la più usata è quella del sovrappopolamento del mondo, per cui la regolamentazione delle nascite viene proposta come indispensabile allo scopo di evitare un disastro ecologico e magari la stessa fine dell'umanità - in fondo questa propaganda non si differenzia molto da quella dei neomalthusiani della seconda metà dell'Ottocento, che giustificavano il controllo delle nascite con la grande utopia eugenetica ed evoluzionista.
L'utopia eugenetica diventa però impresentabile dopo che il nazismo l'ha fatta sua, e ha tentato di realizzarla con la soppressione dei minorati e in esperimenti medici mostruosi. In realtà, come vedremo, per certi aspetti è entrata a far parte della nostra cultura e talvolta si ripresenta, ma sotto vesti diverse, più "politicamente corrette".
Una di queste forme - che potremmo chiamare di eugenetica "psicologica" - è proprio quella utilizzata dalla propaganda per la pianificazione familiare degli anni Sessanta. Pianificazione familiare:  è questo infatti il nome che prende il controllo delle nascite, un nome più "scientifico" e più positivo, perché allude al futuro, sul modello della pianificazione economica, di gran moda in quel periodo. La motivazione più usata per convincere la masse ad adottarla è ancora di tipo utopico:  l'idea è che i bambini desiderati e voluti diventeranno esseri umani migliori, più sani e più intelligenti, ma anche più equilibrati e più felici di quelli nati "per caso".
La svolta sperata dai sostenitori del controllo delle nascite viene data dalla scoperta, da parte del dottor Pincus, di un nuovo tipo di anticoncezionale, la pillola che inibisce l'ovulazione:  commercializzata proprio a partire dal 1960, questo farmaco apre nuove prospettive, che permettono di realizzare le nuove e più avanzate teorie di liberazione sessuale, che negli anni Sessanta dilagano in tutto il mondo occidentale.
Se la pillola anticoncezionale apre una nuova stagione per la pratica della sessualità, e da questo punto di vista pone problemi inediti alla Chiesa, la sua scoperta è dovuta ad esponenti di un filone ideologico che la Chiesa conosce e combatte da molti anni, quello dell'eugenetica neomalthusiana. La ricerca di Pincus infatti - iniziata nel 1953 - è stata voluta e finanziata da una pioniera del controllo delle nascite, l'americana Margaret Sanger, collaboratrice apprezzata di Havelock Ellis, e fondatrice delle più importanti organizzazione mondiali per la cosiddetta pianificazione familiare. Nei suoi libri, diffusi e tradotti con grande successo - La Donna e la nuova razza (1920) e Il cardine della civiltà (1922) - il controllo delle nascite, sempre con fine eugenetico, viene considerato l'obbiettivo più importante per lo sviluppo dell'umanità. Dopo la seconda guerra mondiale, quando l'eugenetica cade in disgrazia perché associata alle barbarie naziste, la Sanger fa dimenticare la sua passata militanza, e si dedica solo al controllo delle nascite, coniugandolo con la militanza femminista.
Con la pillola anticoncezionale, il controllo delle nascite si è rapidamente imposto come un bene di massa, soprattutto strumento di liberazione per le donne.
La pillola anticoncezionale, infatti, ha una caratteristica fondamentale nuova, cioè quella di permettere alle donne di comportarsi dal punto di vista sessuale come gli uomini:  in questo stanno le ragioni del suo successo, ed il motivo per cui è passato sotto silenzio ogni disagio o disturbo medico provocato dalla sua assunzione e le eventuali conseguenze dannose per la salute femminile. Con la pillola, le donne non solo possono essere le sole a decidere se concepire un figlio, ma possono anche separare definitivamente, nelle loro scelte sessuali, la sessualità dall'amore e dalla famiglia, come è sempre stato possibile per gli uomini.
Queste trasformazioni culturali contagiano anche i cattolici, che cominciano a sentire voglia di rinnovamento, e proprio per quanto riguarda il centro di ogni discorso sulla sessualità, cioè per il matrimonio. La discussione dei fini del matrimonio riprende, fortemente influenzata dalle trasformazioni culturali avvenute nel mondo occidentale:  l'affermarsi dell'amore romantico, e l'idea che l'atto sessuale costituisca un elemento essenziale nel rafforzare l'amore fra i coniugi, ormai considerato come il vero fine del matrimonio. Il matrimonio viene percepito pertanto sempre più come una istituzione umana, con finalità umane e sociali, cioè il raggiungimento di una realizzazione affettiva e sessuale individuale, e come tale esposto alla fragilità dei desideri umani. Questo preoccupa la Chiesa, che vede in pericolo l'irreversibilità del vincolo, ma soprattutto scorge in questa umanizzazione una vera e propria cancellazione di Dio dal rapporto fra gli sposi, se pure credenti:  solo il fine della procreazione, che vede gli sposi interagire con la volontà divina, può riportare Dio nel vincolo, e restituire alla sessualità quel profondo significato simbolico e spirituale che la tradizione cristiana gli aveva attribuito.
Inoltre, era ormai chiaro che l'accento sull'amore costituiva solo una prima tappa:  nella cultura occidentale, la seconda rivoluzione sessuale non solo separerà definitivamente la sessualità dalla procreazione, ma anche dal matrimonio e dall'amore, per legittimarla come semplice ricerca di piacere individuale. In questo modo, la sessualità perde la dimensione sociale e pubblica, per divenire sempre più un'attività privata e insindacabile, nella quale ognuno rivendica il diritto di fare le scelte che preferisce. Anche il "figlio desiderato", scrive Marcel Gauchet, è "figlio del desiderio privato, di una famiglia deistituzionalizzata, di una coppia intimizzata, di una donna che vede nel partorire un'esperienza personale".
Questo passaggio da pubblico a privato è provocato dall'affermarsi di una cultura sempre più focalizzata sulla realizzazione individuale, e quindi poco attenta alla difesa della famiglia, resa più fragile, del resto, anche dall'emancipazione femminile e dalla crescente autonomia delle giovani generazioni.
La rivoluzione sessuale e la contraccezione diventano, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, una delle questioni più calde nel cattolicesimo contemporaneo:  cioè se è la severità della Chiesa nell'ambito della morale sessuale a provocare l'allontanamento dei fedeli, o piuttosto se è la liberalizzazione sessuale della modernità a provocare la secolarizzazione. E quindi una battaglia alla liberalizzazione salverebbe i fedeli dalle tentazioni di fuga. In entrambe le prospettive, comunque, emerge l'importanza della rivoluzione sessuale per l'affermarsi della secolarizzazione contemporanea.



(©L'Osservatore Romano - 25 luglio 2008)

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Il lacerante dissenso dottrinale all'enciclica da parte di alcuni preti e teologi americani

1968, l'anno della prova


Una testimonianza sui giorni che precedettero e accompagnarono la pubblicazione dell'Humanae vitae è stata offerta in occasione dell'incontro annuale a Roma dell'American Academy of Fertility Care Professional. Ne pubblichiamo il testo.

di Francis J. Stafford
Cardinale, Penitenziere Maggiore

"Non indurci in tentazione" è la sesta implorazione del Padre Nostro. Peirasmòs, il termine greco utilizzato in questo passaggio per indicare la "tentazione" significa prova o esame. È la richiesta dei discepoli a Dio di proteggerli contro la tentazione suprema delle forze empie. La tentazione si riferisce al calice di Gesù nell'orto del Getsemani, lo stesso calice che i suoi discepoli avrebbero usato (Marco, 10, 35-45). Il lato oscuro dell'interno del calice è un abisso. Rivela le conseguenze terribili del giudizio di Dio sull'umanità peccatrice. Nell'agosto del 1968 il peso del peirasmòs evangelico ricadde su numerosi sacerdoti, incluso me.
Fu l'anno di una brutta guerra, di un'innocenza complessa che santificò lo spargimento di sangue. Lo storico inglese Paul Johnson definisce il 1968 l'anno del "tentativo di suicidio dell'America". Incluse l'offensiva del Têt in Vietnam con i suoi effetti devastanti sulla politica americana; l'assassinio di Martin Luther King Jr. a Memphis, nel Tennesse; i tumulti nelle città americane durante il fine settimana della Domenica delle Palme e, in giugno, l'uccisione del senatore Robert F. Kennedy nella California del Sud. Fu anche l'anno in cui Papa Paolo VI pubblicò l'Enciclica sulla regolazione della natalità Humanae vitae, che incontrò un'opposizione immediata, premeditata e senza precedenti da parte di alcuni teologi e pastori americani. In ogni caso il 1968 fu un calice amaro.
L'estate del 1968 fu incandescente. I ricordi sono ancora vivi e dolorosi. Restano vividi come un tornado sulle pianure del Colorado. Abitano il turbine in cui dimora la collera di Dio. Nel 1968 accadde qualcosa di terribile nella Chiesa. In seno al sacerdozio ministeriale, fra amici, si verificarono ovunque fratture che non si sarebbero mai più ricomposte. Quelle ferite continuano ad affliggere l'intera Chiesa. Il dissenso e la manipolazione da parte dei responsabili della rabbia che essi stessi fomentavano divennero la prova suprema. Si modificarono rapporti fondamentali in seno alla Chiesa. Per molti fu un peirasmòs.
Ritengo necessarie alcune premesse. All'epoca, il cardinale Lawrence J. Shehan, sesto arcivescovo di Baltimora, era il mio superiore. Papa Paolo VI lo aveva nominato, insieme ad altri, membro aggiunto della Pontificia Commissione di studio sui problemi della famiglia, della popolazione e della natalità, creata dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1963, durante il Concilio Vaticano ii. Prima del 1968 si verificarono discussioni, ritardi e pubblicazioni non autorizzate da Roma di resoconti provvisori. Alla commissione ampliata fu assegnato il compito di fare delle raccomandazioni su tali questioni al Papa.
Per prepararsi alle deliberazioni, il cardinale inviò lettere riservate a varie persone della Chiesa a Baltimora chiedendo consiglio. Anche io ne ricevetti una. Nel rispondere attinsi alla mia esperienza sia personale sia pastorale.
La famiglia e l'educazione ricevuta mi avevano inculcato un'idea cristiana del sesso. Ero pieno di meraviglia di fronte al suo mistero. Non furono necessarie argomentazioni teologiche per convincermi dello stretto legame fra atto sessuale e nuova vita. Quella verità era infatti data per scontata presso la scuola elementare collegata alla parrocchia del monastero passionista di Saint Joseph a Baltimora. Durante l'adolescenza mio padre mi aveva introdotto al pieno significato della sessualità umana e alla necessità della disciplina. Il suo intervento aveva aperto un varco nel labirinto della mia adolescenza.
Mediante la famiglia, la scuola e le parrocchie strinsi amicizia con molte giovani donne. Ne frequentavo abitualmente alcune ed ero attonito di fronte alla loro bellezza. Il coraggio di santa Maria Goretti, canonizzata nel 1950, colpì la mia generazione come un forte temporale in montagna. Crescendo compresi meglio quanto potesse essere complessa l'amicizia con le giovani donne. Irrompevano nella primavera della mia vita come il ritmo composito di una poesia. Con mia grande sorpresa la gioia di essere loro amico veniva arricchita dalla preghiera, dalla modestia e dai sacramenti della penitenza e dell'Eucaristia.
L'educazione e la formazione che ricevetti in seguito, nei seminari, si basarono su quelle esperienze. In una lettera del 1955 a un'amica, la scrittrice Flannery O'Connor descrive il significato della virtù della purezza per molti cattolici di quel tempo:  "vedere Cristo come Dio e uomo probabilmente non è oggi più difficile che in passato (...) per te può trattarsi di non riuscire ad accettare ciò che definisci una sospensione della legge della carne e della realtà fisica, ma io penso che quando saprò cosa sono veramente le leggi della carne e della realtà fisica, allora saprò cos'è Dio. Le conosciamo come le vediamo noi, non come le vede Dio. Per me il concepimento verginale, l'incarnazione, la resurrezione sono le leggi autentiche della carne e della realtà fisica. Morte, decadenza, distruzione sono la sospensione di queste leggi. Rimango sempre attonita di fronte all'enfasi che la Chiesa pone sul corpo. Dice che non è l'anima che risorgerà, ma il corpo, glorificato. Ho sempre pensato che la purezza fosse la più misteriosa delle virtù, ma mi viene in mente che non sarebbe mai stato possibile convincere la coscienza umana della purezza, se non avessimo dovuto attendere con ansia la resurrezione del corpo, che sarà carne e spirito uniti nella pace, come lo sono stati in Cristo. La resurrezione di Cristo rimane il culmine della legge della natura".
La teologia della O'Connor di segno decisamente escatologico anticipa l'insegnamento del Concilio Vaticano ii "In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (Gaudium et spes, n. 22). In quegli anni, non avrei potuto usare le sue parole esplicite per esprimere la mia posizione sulla sessualità e la sua pratica. Quando la scoprii divenne per me una sorella spirituale.
Otto anni di ministero sacerdotale dal 1958 al 1966 a Washington e a Baltimora arricchirono la mia esperienza. Non impiegai molto a scoprire i cambiamenti negli atteggiamenti degli americani verso la virtù della purezza.
In entrambe le città si stava verificando un aumento vertiginoso delle gravidanze fuori dal matrimonio. Nel 1965-1966 il Consiglio metropolitano per il benessere e la salute intraprese uno studio per consigliare il governo della città su come affrontare quel fenomeno. A quel tempo, i membri del consiglio, di cui anche io facevo parte, riponevano una fiducia incondizionata negli esperti e nella ricerca sociale.
Perfino il Concilio Vaticano ii aveva espresso fiducia illimitata nel ruolo di specialisti benevoli (cfr Gaudium et spes, n. 57). Nessuno di quelli che conoscevo per motivi professionali previde la crisi di fiducia che stava proprio dietro l'angolo nei rapporti fra uomini e donne. Non fummo in grado di stabilire condizioni di giustizia e di purezza di cuore in cui potessero svolgere un ruolo la meraviglia e l'apprezzamento. Eravamo già anacronistici e privi di speranza. Ignoravamo il carattere della vita. Perfino allora c'erano segni dei disastri che i bambini, nati o nascituri, avrebbero dovuto affrontare. Per tutti gli anni Sessanta, parte del mio ministero di sacerdote e di assistente sociale, consistette nell'offrire consulenza a famiglie e a nuclei monoparentali del centro della città.
Rispondendo alla richiesta del cardinale Shehan con una lettera riservata condivisi in generale queste preoccupazioni. Il mio consiglio al cardinale fu molto concreto e specifico. Pensai concisamente:  il dono d'amore dovrebbe essere reso fecondo.
Questi due punti sono fissi e costanti. Questa semplice idea rese tutto più lieve come un alleggio in una tempesta. Ne scrissi in modo più formale al cardinale:  i significati procreativo e unitivo del matrimonio non si possono separare. Di conseguenza privare deliberatamente un atto coniugale della sua fertilità è intrinsecamente sbagliato. Incoraggiare o approvare questo abuso condurrebbe alla scomparsa della paternità e a una mancanza di rispetto per le donne. In seguito, Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un'intuizione complementare e superlativa del significato nuziale del corpo umano Decenni dopo, mi sono imbattuto in un pensiero analogo di Meister Echkart:  "La gratitudine per il dono si esprime soltanto permettendogli di divenire fecondo".
Qualche tempo dopo, la Pontificia Commissione inviò le sue raccomandazioni al Papa. La maggior parte dei suoi membri, fra cui il cardinale Shehan, consigliò una modifica dell'insegnamento ecclesiale sulla contraccezione alla luce delle nuove circostanze. Anche prima che l'enciclica fosse firmata e pubblicata il voto del cardinale era stato reso pubblico, sebbene non per sua volontà. Come sappiamo il Papa decise diversamente. Queste sono le premesse al dramma che si verificò dopo la pubblicazione il 29 luglio dell'Humanae vitae.
Nelle sue memorie il cardinale Shehan descrive la reazione immediata di alcuni sacerdoti a Washington:  "Dopo aver ricevuto la notizia della pubblicazione dell'enciclica, il Reverendo Charles E. Curran, insegnante di Teologia Morale presso la Catholic University of America, volò a Washington dall'ovest, dove viveva. Nel tardo pomeriggio del 29 luglio, lui e altri nove professori di Teologia della Catholic University si incontrarono, in maniera evidentemente prestabilita, a Caldwell Hall per ricevere, di nuovo come da accordi precedentemente presi con il "Washington Post", l'enciclica, capitolo per capitolo, man mano che usciva dalla rotativa.
La storia ha poi chiarito che entro le ore 21 avevano ricevuto l'intero documento, l'avevano letto, analizzato e criticato e avevano redatto la "Dichiarazione di Coscienza" in seicento parole.
Poi cominciò una lunga serie di telefonate a teologi nell'est, che continuarono, secondo il "Washington Post", fino alle 3.30, e nelle quali si chiedeva loro l'autorizzazione ad apporre alla dichiarazione i loro nomi come firmatari, sebbene gli interpellati non avessero avuto l'opportunità di leggere né l'enciclica né la dichiarazione stessa. Nel frattempo, era stato concordato con una televisione locale che la dichiarazione venisse trasmessa quella stessa notte".
Il giudizio del cardinale fu sprezzante. Nel 1982 scrisse:  "La prima cosa da notare a proposito di tutta la faccenda è questa:  per quanto io possa ricordare, mai nella storia della Chiesa la solenne proclamazione di un Papa è stata ricevuta da un gruppo di cattolici con tanta mancanza di rispetto e tanto disprezzo".
Cominciò il peirasmòs personale, la prova. A Baltimora, all'inizio dell'agosto 1968, alcuni giorni dopo la pubblicazione dell'enciclica, ricevetti per telefono l'invito di un pastore assistente, recentemente ordinato, a partecipare all'incontro di alcuni sacerdoti di Baltimora presso la canonica della parrocchia di Saint William of York, nell'area sud-est di Baltimora, per discutere dell'enciclica. L'incontro fu fissato per domenica sera 4 agosto. Accettai l'invito.
Il crepuscolo era luminoso e l'aria calda e umida. Il luogo era gremito. Sedevamo su file di banchi e sedie ed eravamo presieduti da un pastore diocesano del centro della città, che era noto per la sua opera nell'ambito della liturgia e dei rapporti fra le razze. Ad assisterlo nella gestione dell'incontro c'erano alcuni sacerdoti sulpiciani del Saint Mary's Seminary di Baltimora. Non ricordo quanti fossero.
Le mie aspettative si rivelarono del tutto irrealistiche. Avevo sperato che lo scopo dell'incontro fosse ricevere copie dell'enciclica e discuterne, ma mi sbagliavo. Infatti nulla di tutto ciò accadde.
Dopo averci accolto e presentato il gruppo dirigente il pastore venne al dunque. Pretendeva che ognuno di noi sottoscrivesse la "Dichiarazione di Coscienza" di Washington. Mescolando passione e umorismo ci spiegò le sue ragioni, che andavano dal mantenimento della credibilità della Chiesa fra i laici alla necessità di permettere una "flessibilità" nella formazione della coscienza dei coniugi sull'uso dei contraccettivi. Prima del nostro arrivo, chi ci aveva convocato aveva stabilito che il rifiuto dell'enciclica da parte dei sacerdoti di Baltimora sarebbe stato pubblicato il mattino successivo sul quotidiano "The Baltimore Sun".
La dichiarazione di Washington fu letta ad alta voce. Poi il pastore chiese a ognuno di noi di dare il consenso all'apposizione del proprio nome. Non ci fu tempo per discutere, riflettere o pregare. Ogni sacerdote doveva rispondere "sì" o "no".
Non firmai. Mi ricordai della mia lettera al cardinale Shehan. Rimasi convinto della verità del mio giudizio e delle mie conclusioni. Poiché ero seduto all'ultimo posto, ascoltai ogni risposta dei sacerdoti sperando nel sostegno di qualcuno di loro, che però non giunse. Infatti, tutti accettarono di firmare. Non ci furono astensioni. Dopo l'ultimo rimasi isolato. Il seminterrato cominciò a essere soffocante.
Era scesa la notte. La stanza era carica di tensione. Stava accadendo qualcosa di epocale. Divenne chiaro che la strategia era stata accuratamente elaborata in precedenza dai capi. Tutto si svolgeva senza difficoltà. Le loro abilità retoriche sortivano il proprio effetto anticipatamente. Avevano studiato attentamente come avvalersi della coercizione emotiva e intellettuale. Per il presbiterato di Baltimora la violenza sotto forma di aperta manipolazione era qualcosa di nuovo.
La reazione del capo al mio rifiuto fu prevedibile e terribile. Tutta la situazione a quel punto divenne una lotta snervante, una prova terribile, un peirasmòs. Il sacerdote/capo, avvalendosi di un linguaggio escatologico che attingeva al suo passato nel Corpo della Marina durante la seconda guerra mondiale, rispose in modo sprezzante alla mia decisione. Cercò di costringermi a cambiare idea. Si arrabbiò visibilmente e divenne verbalmente aggressivo. L'implicita violenza "fraterna" si fece più evidente. Contestò e poi derise la mia integrità. Mi rimproverò di rischiare il mio "futuro" ecclesiastico, sebbene con un riferimento più preciso dal punto di vista anatomico. Le ingiurie proseguirono.
Con coerenza sorprendente riuscii a rispondere che l'enciclica del Papa meritava per lo meno la cortesia di venire letta, mentre nessuno di noi lo aveva fatto. Proseguii dicendo che, in effetti, approvavo e accettavo l'insegnamento del Papa così come era stato riportato dai mezzi di comunicazione sociale. Quella risposta suscitò scherno ancor maggiore. Per il resto era calato il silenzio. Infine, vedendo che rimanevo fermo sulle mie posizioni, l'ex marine si mise a sbrigare dei compiti e ad aggiornare l'incontro. Poi i capi prepararono una dichiarazione per il quotidiano del giorno successivo.
L'incontro ebbe fine. Mi affrettai ad andarmene, libero, ma disorientato. Una volta fuori, le tenebre mi inghiottirono. Noi tutti eravamo stati sottoposti a una cosa nuova per la Chiesa, a qualcosa di inatteso. Un pastore e diversi professori di seminario avevano abusato della loro retorica per minare la verità nella comunità evangelica. Se contrastati, assumevano il ruolo degli amici di Giobbe. Il loro sdegno divenne un incubo. Nella notte sembrava che Dio tendesse la mano nel tentativo di toccarmi il viso.
Il dissenso di alcuni professori di seminario sulpiciani accrebbe il mio disorientamento. Nel loro antico seminario di Baltimora avevo infatti appreso per la prima volta il nesso fra libertà, interiorità e obbedienza. Dovevano ben essere consapevoli del fatto che il processo che avevano sostenuto quella sera andava oltre le "norme del legittimo dissenso", ma non mostravano alcuna preoccupazione per la gravità di quel momento teologico e pastorale. Non esprimevano insofferenza per il carattere coercitivo dell'incontro di agosto, e non lo fecero nemmeno in seguito. Né lo fece alcuno dei sacerdoti presenti. Quella stessa notte, un sacerdote diocesano chiese privatamente che il suo nome fosse rimosso prima della pubblicazione della dichiarazione sul giornale.
Per molto tempo mi sono interrogato sul significato di quell'evento. Era un cataclisma al quale era difficile sopravvivere incolumi. La mia comprensione dell'evento procedeva lentamente. In seguito, Henri de Lubac colse una parte del suo significato:  "Nulla è più in contrasto con la testimonianza della divulgazione. Nulla è più diverso dall'apostolato della propaganda".
Le idee di Hanna Arendt sono state d'aiuto a proposito dell'equilibrio pericoloso della cultura occidentale del xx secolo fra inevitabile condanna e sconsiderato ottimismo. "Si dovrebbero scoprire i meccanismi nascosti per mezzo dei quali tutti gli elementi tradizionali del nostro mondo politico e spirituale sono stati dissolti in una conglomerazione in cui tutto sembra aver perso valore specifico ed è divenuto incomprensibile all'uomo e inutilizzabile a fini umani. Cedere al mero processo di disintegrazione è divenuto una tentazione irresistibile, non solo perché ha assunto la falsa grandezza di "necessità storica", ma anche perché ogni cosa al di fuori di ciò ha cominciato ad apparire morta, esangue, insignificante e irreale". Il mondo sotterraneo che ha sempre accompagnato le comunità cattoliche, chiamato gnosticismo dai nostri antenati, era di nuovo riaffiorato e aveva tentato di usurpare la verità della tradizione cattolica.
Il ricordo di un fatto avvenuto nell'aprile del 1968 mi aiutò a gettare ulteriore luce su quanto era accaduto ad agosto. Al culmine delle agitazioni del 1968 a Baltimora, dopo l'assassinio di Martin Luther King Jr., feci una telefonata di emergenza allo stesso pastore del centro della città che poi avrebbe presieduto l'incontro di agosto. Il governatore della città mi aveva chiesto se i pastori e i loro fedeli assediati avevano bisogno di cibo, di assistenza medica o di altro tipo di aiuto.
Quella telefonata fu di gran lunga la più drammatica che feci. Il pastore descrisse ciò che vedeva dalla parrocchia mentre era al telefono con me. Una finestra incorniciava un vicinato che stava andando distrutto. Si stava scatenando l'inferno. Disse:  "Da qui non vedo altro che fuoco ovunque. Tutto è stato incendiato. Finora la chiesa e la canonica non sono stati toccati". Non voleva andarsene. La sua voce tradiva disillusione e paura. In seguito apprendemmo che gli edifici parrocchiali erano rimasti intatti.
Nei mesi e negli anni successivi continuai a cercare di "classificare" quei due eventi. Le traiettorie dell'aprile e dell'agosto 1968 imprevedibilmente conversero. I ricordi di violenza fisica in città nell'aprile 1968 mi aiutarono a dare una spiegazione all'avvenimento dell'agosto di quello stesso anno. Il dissenso ecclesiale può diventare una specie di violenza spirituale per forma e contenuto. Mi venne una nuova, inquietante idea. Violenza e verità non si mescolano. Quando un'evidente violenza di qualsiasi genere viene perpetrata contro la verità, l'ironia che ne risulta è letale.
Che cosa voglio dire? Esaminiamo le conseguenze dei due eventi. Dopo il violento fine settimana della Domenica delle Palme, il dialogo civile nella Baltimora metropolitana venne meno e lasciò il posto a rabbia e ad aperte recriminazioni fra bianchi e neri. La violenza dell'incontro dei sacerdoti ad agosto scatenò una feroce acrimonia. I dialoghi fra sacerdoti, se c'erano, erano contaminati dalla paura. Fra loro il sospetto divenne cronico. I timori abbondavano e sono presenti ancora oggi.
Il sacerdozio arcidiocesano perse qualcosa della fraternità di cui i sacerdoti di Baltimora avevano goduto per generazioni. Il 1968 segnò l'interruzione della communio generazionale del presbiterato arcidiocesano, che era stata continuamente rafforzata dal seminario e dalla sua facoltà sulpiciana. La fraternità sacerdotale era stata ferita. Il dissenso pastorale aveva attaccato il fondamento eucaristico della Chiesa. Il suo significato nuziale era stato negato. Alcuni sacerdoti cominciarono a considerare i vescovi null'altro che manichini di Roma.
In quella violenta notte di agosto accadde qualcos'altro fra i sacerdoti. L'amicizia nella Chiesa ricevette un duro colpo. Gesù, definendo "amici" quanti erano con lui, aveva fatto dell'amicizia un'analogia privilegiata della Chiesa. Quell'analogia venne offuscata dopo che un ingente numero di sacerdoti si vergognò dei propri responsabili e ripudiò il loro insegnamento.
In seguito, il cardinale Shehan riferì che il lunedì mattina del 5 agosto rimase "sgomento nel leggere sul "Baltimore Sun" che settandue sacerdoti della zona di Baltimora avevano firmato la Dichiarazione di Coscienza". Quelli che in seguito definì "gli anni della crisi" ebbero inizio in quella afosa e violenta sera dell'agosto 1968.
Tuttavia, quella notte non fu una sconfitta totale. Io, come altri, scoprii qualcosa di nuovo. Quando giunse il momento della testimonianza cristiana, non si riuscì a costringere alcun cristiano che non volesse. Quella notte, nonostante la novità di essere trattato come un oggetto di vergogna e di ridicolo, non mi "vergognai del Vangelo" e provai un "dolce piacere in ciò che è giusto". Non fu una cattiva lezione. L'obbedienza ecclesiale si manifestò appieno.
Scoprire che Cristo era stato il primo a non curarsi della vergogna fu lacerante nella sua realtà esistenziale e provvidenziale. Paradossalmente, in quell'afosa notte di agosto un nuovo segno apparve in modo inaspettato lungo il cammino verso una vita futura. Diceva:  "Gesù apprese l'obbedienza mediante la sofferenza".
La violenza di quella iniziale disobbedienza fu solo il preludio a una violenza ulteriore e diffusa. Quando si incontravano, i sacerdoti si dolevano per la manipolazione dei loro fratelli. Il disprezzo per la verità, in forma sia aggressiva sia passiva, è divenuto comune nella vita ecclesiale. Sacerdoti, teologi e laici dissenzienti hanno continuato con le loro tecniche di coercizione e, fin dall'inizio, la stampa se ne è avvalsa per promuovere il suo perfido piano.
Tutto ciò portò a un'altra scoperta. Il discernimento è un elemento essenziale del ministero episcopale. Per mezzo della grazia dello "Spirito che governa", le capacità di discernimento di un vescovo dovrebbero maturare. L'attenzione episcopale dovrebbe concentrarsi sulla frattura/rottura avviata da Gesù e descritta da san Paolo nella sua risposta ai dissenzienti di Corinto. "Cercate una prova che Cristo parla in me, lui che non è debole, ma potente in mezzo a voi. Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio nei vostri riguardi. Esaminate voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova" (2 Corinzi, 13, 3-5).
La rottura costituita dalla morte violenta di Gesù ha modificato la nostra idea della natura di Dio. La vita trinitaria è essenzialmente amore e arrendevolezza. Nel battesimo su ogni discepolo di Gesù viene impressa la filigrana trinitaria. Il Verbo incarnato venne per fare la volontà di colui che lo aveva mandato. L'obbedienza attuale dei discepoli al Successore di Pietro non si può separare dalla povertà di spirito e dalla purezza di cuore presentati e vinti dal Verbo sulla Croce.
Una breve postfazione. All'incirca nel 1978, durante una visita episcopale nella sua parrocchia, pranzai con quel pastore di Baltimora, l'ex marine che aveva presieduto l'incontro dell'agosto del 1968. Ero ospite presso di lui. Era ancora un avversario temibile. Parlammo della sua parrocchia, quella stessa che aveva amministrato durante le agitazioni del 1968. L'atmosfera era rilassata.
Durante il semplice pasto che consumammo in cucina presi una decisione difficile. Dal momento che non avevamo mai più parlato della notte dell'agosto 1968, decisi di farlo. Il mio riferimento fu breve, obiettivo e, per quanto possibile, non minaccioso. Avevo sperato che mi desse delle spiegazioni su un evento divenuto centrale per l'esperienza di molti sacerdoti, me incluso. Mentre ricordavo con la mente e con il cuore gli avvenimenti di quella notte, egli rimase in silenzio. Il suo silenzio proseguì. Sebbene non avesse dimenticato, non fece alcun commento. Non sollevò lo sguardo. Il suo cuore era più freddo ora.
Non ottenni nulla. Lasciai cadere la questione. Nel 1968 non era stato possibile alcun dialogo e non lo era nemmeno nel 1978. Mancava un terreno comune. Entrambi guardavamo nell'abisso, ma da sponde opposte. L'angoscia e l'inquietudine fecero svanire la lontana speranza di riconciliazione e di amicizia. Non tornammo mai più sull'argomento. È morto servendo una grande parrocchia suburbana. L'unica possibilità rimasta è percuotermi il petto e pregare:  "Signore ricorda il segreto degno di tutta la nostra indegnità".
I presbiteri diocesani non si sono ripresi dalle notti di luglio e di agosto del 1968. Molti nella vita consacrata hanno fallito la prova evangelica. Dal gennaio 2002 l'abisso si è spalancato altrove. Ora, tutto il popolo di Dio, inclusi bambini e adolescenti, deve guardare l'abisso e vedere quali bestie spaventose ne popolano il fondo. Tremiamo tutti di fronte alla collera di Dio, piangiamo con rammarico per i nostri peccati e imploriamo dal Padre il ricordo misericordioso dell'obbedienza di Dio.



(©L'Osservatore Romano - 25 luglio 2008)

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08/11/2008 10:33

Padre Lombardi sul quarantesimo
della «Humanae vitae»


"In occasione della ricorrenza del 40° anniversario della Humanae vitae è stata pubblicata questa mattina a pagamento sul "Corriere della sera" una "Lettera aperta al Papa" che attacca radicalmente l'Enciclica di Paolo vi. Facciamo alcune semplici osservazioni.
Anzitutto. I firmatari sono un certo numero di gruppi ben noti per le loro posizioni contestatrici, che non si limitano al solo insegnamento sulla morale coniugale, ma riguardano molti altri argomenti (ad esempio l'ordinazione delle donne) e si pongono quindi da tempo in antitesi con il magistero della Chiesa. Quindi, nulla di nuovo. Inoltre, la lunghezza della serie dei gruppi nominati non deve impressionare, poiché si tratta spesso delle diverse sezioni nazionali dello stesso gruppo, e diversi gruppi sono assai poco significativi.
Inoltre, l'accusa più dura, che cioè la posizione cattolica sia causa della diffusione dell'Aids, e quindi di dolore e di morte, ostacolando politiche illuminate di sanità pubblica, è manifestamente infondata. La diffusione dell'Aids è del tutto indipendente dalla confessione religiosa delle popolazioni e dall'influsso delle gerarchie ecclesiastiche, e le politiche di risposta all'Aids fondate principalmente sulla diffusione dei preservativi sono largamente fallite. La risposta all'Aids richiede interventi ben più profondi e articolati, in cui la Chiesa è attiva su molti fronti.
Ma soprattutto, la "lettera" non tocca neanche da lontano la vera questione che è al centro della Humanae vitae, cioè il nesso fra il rapporto umano e spirituale fra i coniugi, l'esercizio della sessualità come sua espressione e la sua fecondità. In tutta la lettera, la parola "amore" non compare mai. Sembra che ai gruppi firmatari questo non interessi per nulla. Nella sola contraccezione sembra risiedere per essi la sola speranza delle coppie e del mondo. Per capire il significato dell'Enciclica e il suo valore "profetico" sarebbe bene invece rileggere il discorso del Papa del 10 maggio scorso ai partecipanti al Convegno tenuto in Laterano appunto per il 40° della Humanae vitae.
Del resto, è evidente che non si tratta di un articolo che esprima una posizione teologica o morale, ma di una propaganda a pagamento a favore dell'uso dei contraccettivi. Viene anche da domandarsi chi l'ha pagata e perché".



(©L'Osservatore Romano - 26 luglio 2008)

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«Humanae vitae, fedeli alla verità dell’amore umano»

Un «atto di magistero autentico», poi «confermato da altri atti di magistero fino a configurarsi oggi come parte del magistero ordinario universale della Chiesa». Un insegnamento «che si inserisce nel contesto organico della dottrina cattolica, nella quale non è mai possibile separare la verità su Dio da quella sull’uomo, la fede da credere dalla prassi da attuare nella vita quotidiana». È monsignor Livio Melina, preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia, a sintetizzare in questo modo il significato e, soprattutto, l’attualità della Humanae vitae, firmata il 25 luglio del 1968 da Paolo VI.
Che cosa significò, 40 anni fa, la pubblicazione di questa enciclica?
Da parte di Papa Paolo VI, fu un atto di fedeltà a Cristo e alla verità dell’amore umano, in un contesto di opinione pubblica fortemente manipolato in senso contrario alla morale cattolica. Gli allarmi sulla sovrappopolazione e le lusinghe della rivoluzione sessuale avevano fatto breccia anche all’interno della comunità cristiana. Inoltre non mancava chi pensò che l’«aggiornamento» auspicato dal Vaticano II dovesse comportare una rottura con la tradizione. Con grande coraggio il Papa seppe levare la sua voce controcorrente per rivendicare l’integrale verità dell’amore coniugale come dono di sé, mai intenzionalmente chiuso alla vita.
Ci furono, all’epoca, molte contestazioni, anche in seno alla Chiesa, e ancora oggi si continua spesso a presentare la «Humanae vitae» come «oscurantista». Erano e sono tutte infondate quelle contestazioni? Perché non pochi teologi dissentirono dalla posizione espressa in quel testo?
Di fronte ad un contesto culturale profondamente cambiato, credo che ci fosse un grave ritardo della teologia, in particolare della teologia morale, nel comprendere i fondamenti di quella posizione che appartiene, peraltro, alla grande tradizione vissuta e predicata della Chiesa. L’impostazione casistica e legalistica della morale, bloccata in una contrapposizione tra coscienza e legge, non era in grado di fondare la norma etica. I primi tentativi di personalismo, pur giusti nella loro intenzione di superare una visione riduttiva della sessualità, finivano per non rendere conto del valore del corpo e del significato procreativo iscritto da Dio nel sesso. In questo contesto di insufficienza del pensiero teologico, sembrava a molti che l’attenzione pastorale verso le coppie dovesse portare a un cambiamento della norma morale, da sempre insegnata nella Chiesa, circa la verità integrale dell’atto coniugale. Il successivo sviluppo dell’antropologia teologica e della morale, maturato in piena fedeltà alle indicazioni di Humanae vitae, ha mostrato che altra era la via per dare ragione ad alcune giuste istanze percepite da chi dissentiva.
Quanto, del magistero successivo, può dirsi ispirato dall’enciclica?
Il magistero della Chiesa si è successivamente sviluppato non nella rottura, ma nella continuità, confermando la dottrina dell’enciclica e approfondendone le motivazioni. Preparando e accompagnando il Sinodo dei Vescovi del 1980 sulla famiglia, Giovanni Paolo II ha offerto alla Chiesa il grande tesoro delle sue catechesi del mercoledì – 1979-1984 – sulla «teologia del corpo», che costituiscono un corpo dottrinale la cui ricchezza attende ancora di venire pienamente esplorata e messa in valore. In esse il significato nuziale del corpo, nella sua differenza sessuale e nella sua chiamata al dono di sé, è intimamente connesso con la dimensione procreativa, che è costitutiva della verità dell’atto coniugale.
E che si può dire di Papa Ratzinger?
Il suo insegnamento, in particolare quello sulla teologia dell’amore dell’enciclica Deus caritas est, ha permesso di vedere il radicamento dell’amore umano nell’amore divino, collegando la questione dell’amore coniugale non solo alla questione antropologica, ma anche a quella teologica: l’uomo e la donna sono infatti creati a immagine di un Dio trinitario, in cui dono di sé e fecondità sono costitutivi. Così si può vedere che l’insegnamento dell’enciclica di Paolo VI non è un episodio isolato e imbarazzante, che si potrebbe mettere facilmente da parte nella pastorale.
Perché ancora oggi quel testo può considerarsi completamente «moderno»?
Più che moderno come si suol dire: «chi sposa la moda rimane presto vedovo» – direi piuttosto che l’enciclica montiniana è attuale, proprio perché è autenticamente profetica: dice cioè quella parola che viene da Dio e che ha un valore permanente, perché non è ispirata dalle mode o dal desiderio di compiacere, ma dalla carità autentica sempre radicata nella verità. Il profeta dice una parola che talvolta è scomoda ed anche rifiutata, ma che contiene in sé una giudizio ed un’indicazione di vita, che alla lunga si afferma. A distanza di quarant’anni siamo in grado di comprendere come quella parola difficile e scomoda sia ancor oggi un giudizio discriminante sull’evoluzione dei costumi in un ambito così decisivo per la vita dell’uomo, com’è quello della sessualità. L’erotismo pervasivo e devastante la vita quotidiana di tante persone, di tanti giovani, e che si è affermato come un nuovo idolo che chiede le sue vittime, non è forse già giudicato dalla parola che aveva indicato nell’amore il contesto della sessualità e nell’unità del significato unitivo e procreativo il criterio per un esercizio della sessualità come autentico dono di sé? Tutto ciò non è solo teoria, e lo so bene per tanti incontri e tante esperienze, in Italia e in tante parti del mondo.
Che cosa rileva da queste esperienze?
Ci sono innumerevoli coppie di sposi, riunite in associazioni e movimenti, che nella fiducia alla Chiesa e nel sacrificio, hanno seguito una via forse più difficile, ma certo felice ed hanno scoperto che la norma della Chiesa non è un limite oscurantista, ma la condizione perché la libertà possa svilupparsi e crescere nell’amore. Esse sono la dimostrazione vivente della verità della Humanae vitae, quarant’anni dopo. Per concludere direi che oggi, celebrando il quarantesimo dell’enciclica, possiamo dire di essere molto più consapevoli che non si tratta semplicemente di un moralismo arretrato, ma di una visione nuova dell’uomo e della donna, dell’amore e del corpo: una visione che certamente la fede illumina, ma che trova una profondissima corrispondenza nel cuore di ciascuno.

di Salvatore Mazza
Avvenire 26 luglio 2008

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I motivi e lo scopo del documento secondo Paolo VI

Genesi di un'enciclica


L'Humanae vitae fu firmata da Paolo VI giovedì 25 luglio 1968 e pubblicata quattro giorni più tardi, lunedì 29. Quarant'anni dopo riproduciamo il discorso che il Papa tenne a Castel Gandolfo mercoledì 31 luglio all'udienza generale.

Diletti Figli e Figlie! Le nostre parole hanno oggi un tema obbligato dalla Enciclica intitolata Humanae vitae, che abbiamo pubblicato in questa settimana circa la regolazione della natalità. Riteniamo che vi sia noto il testo di questo documento pontificio, o almeno il suo contenuto essenziale, che non è soltanto la dichiarazione d'una legge morale negativa, cioè l'esclusione d'ogni azione, che si proponga di rendere impossibile la procreazione (n. 14), ma è soprattutto la presentazione positiva della moralità coniugale in ordine alla sua missione d'amore e di fecondità "nella visione integrale dell'uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna" (n. 7). È il chiarimento d'un capitolo fondamentale della vita personale, coniugale, familiare e sociale dell'uomo, ma non è la trattazione completa di quanto riguarda l'essere umano nel campo del matrimonio, della famiglia, dell'onestà dei costumi, campo immenso nel quale il magistero della Chiesa potrà e dovrà forse ritornare con disegno più ampio, organico e sintetico.
Risponde questa Enciclica a questioni, a dubbi, a tendenze, su cui la discussione, come tutti sanno, si è fatta in questi ultimi tempi assai ampia e vivace, e su cui la Nostra funzione dottrinale e pastorale è stata fortemente interessata. Non vi parleremo adesso di questo documento, sia per la delicatezza e la gravità del tema, che Ci sembrano trascendere la semplicità popolare del presente settimanale discorso, sia per il fatto che non mancano già e non mancheranno, intorno all'Enciclica, pubblicazioni a disposizione di quanti s'interessano del tema stesso (cfr ad esempio:  G. Martelet, Amour conjugal et renouveau conciliaire).
A voi diremo semplicemente qualche parola non tanto sul documento in questione, quanto su alcuni Nostri sentimenti, che hanno riempito il Nostro animo nel periodo non breve della sua preparazione.
Il primo sentimento è stato quello d'una Nostra gravissima responsabilità. Esso Ci ha introdotto e sostenuto nel vivo della questione durante i quattro anni dovuti allo studio e alla elaborazione di questa Enciclica. Vi confideremo che tale sentimento Ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente. Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del Nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato. Alcune circostanze a ciò relative vi sono note:  dovevamo rispondere alla Chiesa, all'umanità intera; dovevamo valutare, con l'impegno e insieme con la libertà del Nostro compito apostolico, una tradizione dottrinale, non solo secolare, ma recente, quella dei Nostri tre immediati Predecessori; eravamo obbligati a fare Nostro l'insegnamento del Concilio da Noi stessi promulgato; Ci sentivamo propensi ad accogliere, fin dove Ci sembrava di poterlo fare, le conclusioni, per quanto di carattere consultivo, della Commissione istituita da Papa Giovanni, di venerata memoria, e da Noi stessi ampliata, ma insieme doverosamente prudenti; sapevamo delle discussioni accese con tanta passione ed anche con tanta autorità, su questo importantissimo tema; sentivamo le voci fragorose dell'opinione pubblica e della stampa; ascoltavamo quelle più tenui, ma assai penetranti nel Nostro cuore di padre e di pastore, di tante persone, di donne rispettabilissime specialmente, angustiate dal difficile problema e dall'ancor più difficile loro esperienza; leggevamo le relazioni scientifiche circa le allarmanti questioni demografiche nel mondo, suffragate spesso da studi di esperti e da programmi governativi; venivano a Noi da varie parti  pubblicazioni,  ispirate  alcune  dall'esame di particolari aspetti scientifici del problema, ovvero altre da considerazioni realistiche di  molte e gravi condizioni sociologiche, oppure da quelle, oggi tanto imperiose, delle mutazioni irrompenti in ogni settore della vita moderna.
Quante volte abbiamo avuto l'impressione di essere quasi soverchiati da questo cumolo di documentazioni, e quante volte, umanamente parlando, abbiamo avvertito l'inadeguatezza della Nostra povera persona al formidabile obbligo apostolico di doverCi pronunciare al riguardo; quante volte abbiamo trepidato davanti al dilemma d'una facile condiscendenza alle opinioni correnti, ovvero d'una sentenza male sopportata dall'odierna società, o che fosse arbitrariamente troppo grave per la vita coniugale!
Ci siamo valsi di molte consultazioni particolari di persone di alto valore morale, scientifico e pastorale; e, invocando i lumi dello Spirito Santo, abbiamo messo la Nostra coscienza nella piena e libera disponibilità alla voce della verità, cercando d'interpretare la norma divina che vediamo scaturire dall'intrinseca esigenza dell'autentico amore umano, dalle strutture essenziali dell'istituto matrimoniale, dalla dignità personale degli sposi, dalla loro missione al servizio della vita, non che dalla santità del coniugio cristiano; abbiamo riflesso sopra gli elementi stabili della dottrina tradizionale e vigente della Chiesa, specialmente poi sopra gli insegnamenti del recente Concilio, abbiamo ponderato le conseguenze dell'una o dell'altra decisione; e non abbiamo avuto dubbio sul Nostro dovere di pronunciare la Nostra sentenza nei termini espressi dalla presente Enciclica.
Un altro sentimento, che Ci ha sempre guidato nel Nostro lavoro, è quello della carità, della sensibilità pastorale verso coloro che sono chiamati a integrare nella vita coniugale e nella famiglia la loro singola personalità; e abbiamo volentieri seguito la concezione personalistica, propria della dottrina conciliare, circa la società coniugale, dando così all'amore, che la genera e che la alimenta, il posto preminente che gli conviene nella valutazione soggettiva del matrimonio; abbiamo accolto poi tutti i suggerimenti formulati nel campo della liceità, per agevolare l'osservanza della norma riaffermata.
Abbiamo voluto aggiungere all'esposizione dottrinale qualche indicazione pratica di carattere pastorale. Abbiamo onorato la funzione degli uomini di scienza per il proseguimento degli studi sui processi biologici della natalità e per la retta applicazione dei rimedi terapeutici e della norma morale a ciò inerente. Abbiamo riconosciuto ai coniugi la loro responsabilità e quindi la loro libertà, quali ministri del disegno di Dio sulla vita umana, interpretato dal magistero della Chiesa, per il loro bene personale e per quello dei loro figli. E abbiamo accennato all'intento superiore che ispira la dottrina e la pratica della Chiesa, quello di giovare agli uomini, di difendere la loro dignità, di comprenderli e di sostenerli nelle loro difficoltà, di educarli a vigile senso di responsabilità, a forte e serena padronanza di sé, a coraggiosa concezione dei grandi e comuni doveri della vita e dei sacrifici inerenti alla pratica della virtù e alla costruzione d'un focolare fecondo e felice.
E finalmente un sentimento di speranza ha accompagnato la laboriosa redazione di questo documento; la speranza ch'esso, quasi per virtù propria, per la sua umana verità, sarà bene accolto, nonostante la diversità di opinioni oggi largamente diffusa, e nonostante la difficoltà che la via tracciata può presentare a chi la vuole fedelmente percorrere, ed anche a chi la deve candidamente insegnare, con l'aiuto del Dio della vita, s'intende; la speranza, che gli studiosi specialmente sapranno scoprire nel documento stesso il filo genuino, che lo collega con la concezione cristiana della vita, e che Ci autorizza a far Nostra la parola dell'Apostolo:  Nos autem sensum Christi habemus, noi poi teniamo il pensiero di Cristo (1 Corinzi, 2, 16). E la speranza infine che saranno gli sposi cristiani a comprendere come la Nostra parola, per severa ed ardua che possa sembrare, vuol essere interprete dell'autenticità del loro amore, chiamato a trasfigurare se stesso nell'imitazione di quello di Cristo per la sua mistica sposa, la Chiesa; e che essi per primi sapranno dare sviluppo ad ogni pratico movimento inteso ad assistere la famiglia nelle sue necessità, a farla fiorire nella sua integrità, e ad infondere nella famiglia moderna la spiritualità sua propria, fonte di perfezione per i singoli suoi membri e di testimonianza morale nella società (cfr Apostolicam actuositatem, n. 11; Gaudium et spes, n. 48).
È, come vedete, Figli carissimi, una questione particolare, che considera un aspetto estremamente delicato e grave dell'umana esistenza; e come Noi abbiamo cercato di studiarlo e di esporlo con la verità e con la carità che tale tema voleva dal Nostro magistero e dal Nostro ministero, così a voi tutti, interessati direttamente che voi siate o no alla questione stessa, chiediamo di volerlo considerare col rispetto che merita, nell'ampio e luminoso quadro della vita cristiana.
Con la Nostra Benedizione Apostolica.



(©L'Osservatore Romano - 28-29 luglio 2008)

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La lettura del cardinale arcivescovo di Cracovia

La verità dell'«Humanae vitae»


Domenica 5 gennaio 1969 "L'Osservatore Romano" pubblicò in prima pagina un ampio articolo del cardinale arcivescovo di Cracovia che - a distanza di cinque mesi - rileggeva e spiegava l'enciclica di Papa Montini. Lo ripubblichiamo integralmente.

di Karol Wojtyla

Sembrerà strano che noi cominciamo le nostre riflessioni sull'enciclica Humanae vitae partendo dall'Autobiografia di M. Gandhi. "A mio avviso - scrive il grande uomo indiano - affermare che l'atto sessuale sia una azione spontanea, analoga al sonno o al nutrirsi, è crassa ignoranza. L'esistenza del mondo dipende dall'atto del moltiplicarsi - dalla procreazione, diremmo noi - e poiché il mondo è dominio di Dio e riflesso del suo potere, l'atto del moltiplicarsi - della procreazione, diremmo noi - deve essere sottoposto alla norma, che mira a salvaguardare lo sviluppo della vita sulla terra. L'uomo che ha presente tutto questo, aspirerà ad ogni costo al dominio dei suoi sensi e si fornirà di quella scienza necessaria, per promuovere la crescita fisica e spirituale della sua prole. Egli tramanderà poi i frutti di questa scienza ai posteri, oltre che usarli a suo giovamento". In un altro passo della sua autobiografia Gandhi dichiara che due volte nella sua vita ha subito l'influsso della propaganda che raccomandava i mezzi artificiali per escludere la concezione nella convivenza coniugale. Tuttavia egli arrivò alla convinzione, "che si deve piuttosto agire attraverso la forza interiore, nella padronanza di se stesso, ossia mediante l'autocontrollo".
Rispetto all'enciclica Humanae vitae, questi tratti dell'autobiografia di Gandhi acquistano il significato di una particolare testimonianza. Ci ricordano le parole di san Paolo nella lettera ai Romani, riguardo alla sostanza della Legge scolpita nel cuore dell'uomo e attestata dal dettame della retta coscienza (Romani, 2, 15). Anche al tempo di san Paolo una tale voce della retta coscienza era un rimprovero per quelli che, pur essendo "i possessori della Legge", non la osservavano.
Forse è bene anche per noi avere davanti agli occhi la testimonianza di questo uomo non cristiano. È opportuno avere presente "la sostanza della Legge" scritta nel cuore dell'uomo e attestata dalla coscienza, per riuscire a penetrare la profonda verità della dottrina della Chiesa, contenuta nell'enciclica di Paolo VI Humanae vitae. Per questo all'inizio delle nostre riflessioni, che mirano a chiarire la verità etica e il fondamento obiettivo dell'insegnamento dell'Humanae vitae, siamo ricorsi ad una tale testimonianza. Il fatto che essa sia storicamente antecedente all'enciclica di qualche decennio, non diminuisce per nulla il suo significato:  l'essenza del problema infatti rimane in entrambi la stessa, anzi le circostanze sono molto simili.

Il vero significato
della paternità responsabile

Per rispondere alle domande formulate all'inizio dell'enciclica (Humanae vitae, 3), Paolo VI fa l'analisi delle due grandi e fondamentali "realtà della vita matrimoniale":  l'amore coniugale e la paternità responsabile (n. 7) nel loro mutuo rapporto. L'analisi della paternità responsabile costituisce il tema principale dell'enciclica, poiché quelle domande poste all'inizio pongono appunto questo problema:  "Non si potrebbe ammettere che l'intenzione di una fecondità meno esuberante, ma più razionalizzata, trasformi l'intervento materialmente sterilizzante in un lecito e saggio controllo delle nascite? Non si potrebbe ammettere cioè, che la finalità procreativa appartenga all'insieme della vita coniugale, piuttosto che ai suoi singoli atti? (...) non sia venuto il momento di affidare alla ragione e alla volontà più che ai ritmi biologici dell'organismo - umano - il compito di trasmettere la vita?" (n. 3). Per dare una risposta a queste domande il Papa non ricorre alla tradizionale gerarchia dei fini del matrimonio, fra i quali il primo è la procreazione, ma, come si è detto, fa l'analisi del mutuo rapporto tra l'amore coniugale e la paternità responsabile. È la stessa impostazione del problema, propria della Costituzione pastorale Gaudium et spes.
Una retta e penetrante analisi dell'amore coniugale presuppone un'idea esatta del matrimonio stesso. Esso non è "prodotto della evoluzione di inconscie forze naturali", ma "comunione di persone" (n. 8), basata sulla loro reciproca donazione. E per ciò un retto giudizio sulla concezione della paternità responsabile presuppone "una visione integrale dell'uomo e della sua vocazione" (n. 7). Per acquistare un tale giudizio, non bastano affatto "le prospettive parziali, siano di ordine biologico o psicologico, demografico o sociologico" (n. 7). Nessuna di queste prospettive può costituire la base per una adeguata e giusta risposta alle domande sopra formulate.
Ogni risposta che emana da prospettive, parziali non può essere che parziale. Per trovare una risposta adeguata, occorre avere presente una retta visione dell'uomo come persona, poiché il matrimonio stabilisce una comunione di persone, che nasce e si realizza attraverso la loro mutua donazione. L'amore coniugale si caratterizza con le note che risultano da tale comunione di persone e che corrispondono alla personale dignità dell'uomo e della donna, del marito e della moglie. Si tratta dell'amore totale, ossia dell'amore che impegna tutto l'uomo, la sua sensibilità, la sua affettività e la sua spiritualità, e che insieme deve essere fedele ed esclusivo. Questo amore "non si esaurisce tutto nella comunione tra i coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite" (n. 9); è perciò amore fecondo. Una tale amorevole comunione dei coniugi, per cui essi costituiscono secondo le parole della Genesi, 2, 24 "un solo corpo" è come la condizione della fecondità, la condizione della procreazione. Questa comunione essendo una particolare - poiché corporale e nel senso stretto "sessuale" - attuazione della comunione coniugale tra persone, deve realizzarsi al livello della persona e convenientemente alla sua dignità. In base a ciò si deve formulare un giudizio esatto della paternità responsabile.
Tale giudizio riguarda prima di tutto l'essenza della paternità - e sotto questo aspetto è un giudizio positivo:  "l'amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di "paternità responsabile"" (n. 10). L'enciclica in tutto il suo contesto formula questo giudizio e lo propone come risposta fondamentale alle domande poste prima:  l'amore coniugale deve essere amore fecondo, ossia "orientato alla paternità". La paternità propria dell'amore di persone è paternità responsabile. Si può dire che nell'enciclica Humanae vitae la paternità responsabile diventa il nome proprio della procreazione umana.
Questo giudizio, fondamentalmente positivo, sulla paternità responsabile richiede però alcune precisazioni. Solamente grazie a queste precisazioni troviamo una risposta universale alle domande di partenza. Paolo VI ci offre queste precisazioni. Secondo la enciclica, la paternità responsabile significa "sia (...) la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia (...) la decisione (...) di evitare temporaneamente od anche a tempo indeterminato, una nuova nascita" (n. 10). Se l'amore coniugale è amore fecondo, cioè orientato alla paternità, è difficile pensare che il significato della paternità responsabile, dedotto dalle sue proprietà, essenziali, possa identificarsi solamente con la limitazione delle nascite. La paternità responsabile viene perciò realizzata sia da parte dei coniugi, che grazie alla loro ponderata e generosa deliberazione si decidono a procreare una prole numerosa, come da parte di quelli che vengono nella determinazione di limitarla, "per gravi motivi e nel rispetto della legge morale" (HV 10).
Secondo la dottrina della Chiesa, la paternità responsabile non è, e non può essere solo l'effetto di una certa "tecnica" della collaborazione coniugale:  essa infatti ha anzitutto e "per sé" un valore etico. Un vero e fondamentale pericolo - al quale l'enciclica vuole essere appunto un rimedio provvidenziale - consiste nella tentazione di considerare questo problema fuori dell'orbita dell'etica, di fare degli sforzi per togliere all'uomo la responsabilità delle proprie azioni che sono così profondamente radicate in tutta la sua struttura personale. La paternità responsabile - scrive il Pontefice - "significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare" sulle tendenze dell'istinto - e delle passioni (n. 10). Questo dominio presuppone perciò "conoscenza e rispetto dei processi biologici" (n. 10), e ciò pone questi processi non soltanto nel loro dinamismo biologico, ma anche nella personale integrazione, cioè a livello della persona, poiché "l'intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che riguardano la persona umana" (n. 10).
L'amore è comunione di persone. Se ad essa corrisponde la paternità, e paternità responsabile, il modo di agire che conduce a una tale paternità, non può essere moralmente indifferente. Anzi, esso decide, se l'attuazione sessuale della comunione di persone sia o non sia autentico amore, "Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore" (n. 12).
L'uomo "non può rompere di sua iniziativa la connessione inscindibile tra i due significati dell'atto coniugale:  il significato unitivo e il significato procreativo" (n. 12). È proprio per questo che l'enciclica sostiene la precedente posizione del Magistero e mantiene la differenza fra la così detta naturale regolazione della natalità, che comporta una continenza periodica e l'anticoncezione che fa ricorso a mezzi artificiali. Diciamo "mantiene", perché "i due casi differiscono completamente tra di loro" (n. 16). C'è tra di loro una grande differenza riguardo alla loro qualificazione etica.
L'enciclica di Paolo VI come documento del supremo Magistero della Chiesa presenta l'insegnamento della morale umana e insieme cristiana in uno dei suoi punti chiave. La verità dell'Humanae vitae è dunque anzitutto una verità normativa. Ci ricorda i principi della morale, che costituiscono la norma obiettiva. Questa norma è scritta pure nel cuore umano, come prova almeno quella testimonianza di Gandhi, a cui abbiamo fatto appello all'inizio di queste considerazioni. Non di meno, questo obiettivo principio di morale subisce facilmente sia delle soggettive deformazioni sia un comune oscuramento. Del resto simile è la sorte di molti altri principi morali, come ad esempio di quelli che sono stati rievocati nell'enciclica Populorum progressio. Nell'enciclica Humanae vitae, il Santo Padre esprime anzitutto la sua piena comprensione di tutte queste circostanze che sembrano parlare contro il principio della morale coniugale, insegnata dalla Chiesa. Il Papa si rende conto anche delle difficoltà, alle quali è esposto l'uomo contemporaneo, come pure delle debolezze, a cui è soggetto. Tuttavia, la strada per la soluzione delle difficoltà e dei problemi non può passare che attraverso la verità del Vangelo:  "Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime" (n. 29). Il motivo di carità verso le anime, e nessun altro motivo, muove la Chiesa che "non lascia (...) di proclamare con umile fermezza tutta la legge morale, sia naturale che evangelica" (n. 29).

Una retta
gerarchia dei valori

La verità normativa dell'Humanae vitae è strettamente legata a quei valori che si esprimono nell'obiettivo ordine morale, secondo la loro propria gerarchia. Questi sono gli autentici valori umani che sono legati alla vita coniugale e familiare. La Chiesa si sente custode e garante di questi valori, come leggiamo nell'enciclica. Di fronte a un pericolo che li minaccia, la Chiesa si sente in dovere di difenderli. I valori autenticamente umani costituiscono la base e nello stesso tempo la motivazione dei principi della morale coniugale, rammentati nell'enciclica. Conviene metterli in risalto, sebbene si siano già rilevati nelle argomentazioni precedenti, e la cosa è ben chiara, poiché il vero significato della paternità responsabile è stato nell'enciclica già espresso nel rapporto all'amore coniugale.
Il valore che sta alla base di questa dimostrazione, è il valore della vita umana, cioè della vita già concepita e anche nel suo sbocciare, nella convivenza dei coniugi. Di questo valore parla la stessa responsabilità della paternità, alla quale l'intera enciclica è principalmente dedicata.
Il fatto che questo valore della vita già concepita o anche nel suo sbocciare non si esamini nell'enciclica sullo sfondo della procreazione stessa come fine del matrimonio, ma nella prospettiva dell'amore e della responsabilità degli sposi, pone il valore stesso della vita umana in una luce nuova. L'uomo e la donna nella loro convivenza matrimoniale che è convivenza di persone, devono dare origine a una nuova persona umana. Il concepimento della persona attraverso le persone - ecco la giusta misura dei valori, che deve essere qui adoperata. Ecco nello stesso tempo la giusta misura della responsabilità, che deve guidare la paternità umana.
L'enciclica riconosce questo valore. Sebbene essa non sembri parlarne molto, non di meno indirettamente lo fa risaltare ancor più, quando lo pone fermamente nel contesto di altri valori. Questi sono valori fondamentali per la vita umana, e insieme i valori specifici per il matrimonio e per la famiglia. Sono specifici, poiché soltanto il matrimonio e la famiglia - e nessun altro ambiente umano - costituiscono il campo specifico, in cui appaiono questi valori, quasi un suolo fertile, nel quale crescono. Uno di questi è il valore dell'amore coniugale e familiare, l'altro è il valore della persona, ossia la sua dignità che si manifesta nei più stretti e più intimi contatti umani. Questi due valori si permeano così profondamente, che in certo qual modo costituiscono un solo bene. Questo appunto è il bene spirituale del matrimonio, la migliore ricchezza delle nuove generazioni umane:  "i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali:  essa (la disciplina) apporta alla vita familiare frutti di serenità e di pace (...); favorisce l'attenzione verso l'altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l'egoismo, nemico del vero amore, ed approfondisce il loro senso di responsabilità nel compimento dei loro doveri. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per l'educazione dei figli; la fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello sviluppo sereno ed armonioso delle loro facoltà spirituali e sensibili" (n. 21).
Ecco il pieno contesto e nello stesso tempo la prospettiva universale dei valori, sui quali è fondata la dottrina della paternità responsabile. L'atteggiamento di responsabilità si estende su tutta la vita coniugale e su tutto il processo di educazione. Solo gli uomini che hanno raggiunto la piena maturità della persona attraverso una completa educazione riescono a educare i nuovi esseri umani. La paternità responsabile e la castità dei mutui rapporti dei coniugi ad essa inerente, sono una verifica della loro maturità spirituale. Essi perciò proiettano la loro luce sull'intero processo di educazione, che si compie nella famiglia.
L'enciclica Humanae vitae contiene non solo perspicue ed esplicite norme concernenti la vita matrimoniale, la conscia paternità e la giusta regolazione della natalità, ma attraverso queste norme indica anche i valori. Essa conferma il loro retto senso e ci mette in guardia da quello falso. Essa esprime la profonda sollecitudine di salvaguardare l'uomo dal pericolo di alterare i valori più fondamentali.
Uno dei valori più fondamentali è quello dell'amore umano. L'amore trova la sua sorgente in Dio che "è Amore". Paolo VI pone questa verità rivelata al principio della sua penetrante analisi dell'amore coniugale, perché esso esprime il più grande valore che si deve riconoscere nell'amore umano. L'amore umano è ricco di esperienze che lo compongono, ma la sua ricchezza essenziale consiste nell'essere una comunione di persone, cioè di un uomo e di una donna, nella loro mutua donazione. L'amore coniugale è arricchito dalla autentica donazione di una persona ad un'altra persona. Appunto questa mutua donazione della persona stessa non deve essere alterata. Se nel matrimonio si deve realizzare l'amore autentico delle persone attraverso la donazione dei corpi, cioè attraverso "l'unione nel corpo" dell'uomo e della donna, proprio per riguardo al valore stesso dell'amore, non si può alterare questa mutua donazione in nessun aspetto dell'atto coniugale interpersonale.
Il valore stesso dell'amore umano e la sua autenticità esigono una tale castità dell'atto coniugale, quale è richiesta dalla Chiesa ed è richiamata nell'enciclica stessa. In vari campi l'uomo domina la natura e la subordina a sé, mediante i mezzi artificiali. L'insieme di questi mezzi equivale in qualche modo al progresso e alla civilizzazione. In questo campo però, in cui si deve attuare attraverso l'atto coniugale, l'amore tra persona e persona, e dove la persona deve dare autenticamente se stessa (e "dare" vuol dire anche "ricevere" vicendevolmente) l'uso dei mezzi artificiali equivale ad un alteramento dell'atto di amore. L'autore dell'Humanae vitae ha presente il valore autentico dell'amore umano che ha Dio come sorgente e che viene confermato dalla retta coscienza e dal sano "senso morale". E proprio nel nome di questo valore il Papa insegna i principi della responsabilità etica. Questa è anche la responsabilità che salvaguarda la qualità dell'amore umano nel matrimonio. Questo amore si esprime pure nella continenza - anche in quella periodica - poiché l'amore è capace di rinunciare all'atto coniugale, ma non può rinunciare all'autentico dono della persona. La rinuncia all'atto coniugale può essere, in certe circostanze, un autentico dono personale. Paolo vi scrive a proposito:  "questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all'amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano (n. 21).
Esprimendo la premurosa sollecitudine per l'autentico valore dell'amore umano, l'enciclica Humanae vitae si rivolge all'uomo e richiama il senso della dignità della persona. L'amore infatti, secondo il suo autentico valore, deve essere realizzato dall'uomo e dalla donna nel matrimonio. La capacità ad un tale amore e la capacità all'autentico dono della persona richiedono da entrambi il senso della dignità personale. L'esperienza del valore sessuale deve essere permeata di una viva consapevolezza del valore della persona. Questo valore spiega appunto la necessità della padronanza di sé che è propria della persona:  la personalità infatti si esprime nell'autocontrollo e nell'autodominio. Senza di essi l'uomo non sarebbe capace né di donare se stesso né di ricevere.
L'enciclica Humanae vitae formula questa gerarchia dei valori che si dimostra essenziale e decisiva per tutto il problema della paternità responsabile. Non si può capovolgere questa gerarchia e non si può mutare il giusto ordine dei valori. Rischieremmo una tale inversione e mutamento dei valori, se per risolvere il problema noi partissimo da aspetti parziali e non invece "dalla integrale visione dell'uomo e della sua vocazione".
Ognuno di questi aspetti parziali in se stesso è molto importante e Paolo VI non diminuisce affatto la loro importanza:  sia dell'aspetto demografico-sociologico, che bio-psicologico. Al contrario, il Pontefice li considera attentamente. Egli vuole impedire soltanto che uno qualsiasi degli aspetti parziali - qualunque sia la sua importanza - possa distruggere la retta gerarchia dei valori e possa togliere il vero significato all'amore come comunione di persone e all'uomo stesso come persona capace di autentica donazione, nella quale l'uomo non può essere sostituito dalla "tecnica". In tutto questo però il Papa non trascura nessuno degli aspetti parziali del problema, anzi Egli li affronta, stabilendone il contenuto fondamentale e, legata ad esso, la retta gerarchia dei valori. E proprio su questa strada esiste la possibilità di un controllo delle nascite e quindi anche la possibilità di risolvere le difficoltà socio-demografiche. E perciò Paolo VI ha potuto scrivere con tutta sicurezza, che "i pubblici poteri possono e devono contribuire alla soluzione del problema demografico" (n. 23). Quando si tratta dello aspetto biologico e anche di quello psicologico - come appunto insegna l'enciclica - la via della realizzazione dei rispettivi valori passa attraverso la valorizzazione dell'amore stesso e della persona. Ecco le parole dell'eminente biologo, professore P. P. Grasset dell'Accademia delle Scienze:  "L'enciclica va d'accordo con i dati di biologia, rammenta ai medici i loro doveri e all'uomo segna la via, sulla quale la sua dignità - così da parte fisica come da quella morale - non subirà nessuna offesa (Le Figaro, 8 ottobre 1968).
Si può dire che l'enciclica penetra nel nucleo di questa problematica universale che ha impegnato il Concilio Vaticano ii. Il problema dello sviluppo "del mondo", sia nelle sue istanze moderne, come pure nelle sue prospettive più lontane, desta una serie di domande che l'uomo si pone su se stesso. Alcune di esse, sono espresse nella Costituzione pastorale Gaudium et spes. Non è possibile una giusta risposta a queste domande senza rendersi conto del significato dei valori che decidono dell'uomo e della sua vita veramente umana. Nell'enciclica Humanae vitae Paolo VI si impegna nell'esame di questi valori nel loro punto nevralgico.

Profilo evangelico

L'esame dei valori e attraverso di esso la norma stessa della paternità responsabile formulata nell'enciclica Humanae vitae portano su di sé una particolare impronta del Vangelo. Ciò conviene ancora rilevare alla fine delle presenti considerazioni, sebbene fin dall'inizio nessuna altra idea sia stata il loro filo conduttore. Le questioni che agitano gli uomini contemporanei "esigevano dal Magistero della Chiesa una nuova approfondita riflessione sui principi della dottrina morale del matrimonio:  dottrina fondata sulla legge naturale, illuminata ed arricchita dalla Rivelazione divina" (n. 4). La Rivelazione come espressione dello eterno pensiero di Dio ci permette e nello stesso tempo ci comanda di considerare il matrimonio come la istituzione per trasmettere la vita umana, nella quale i coniugi sono "liberi e responsabili collaboratori di Dio Creatore" (n. 1).
Cristo stesso ha confermato questa loro perenne dignità e ha innestato l'insieme della vita matrimoniale nell'opera della Redenzione e l'ha inserita nell'ordine sacramentale. Dal sacramento del matrimonio "i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l'adempimento fedele dei propri doveri, per l'attuazione della propria vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo" (n. 25). Essendo stata esposta nell'enciclica la dottrina della morale cristiana, la dottrina della paternità responsabile, intesa come retta espressione dell'amore coniugale e della dignità della persona umana, costituisce un'importante componente della testimonianza cristiana.
E ci pare che sia proprio di questa testimonianza un certo sacrificio che l'uomo deve compiere per i valori autentici. Il Vangelo conferma costantemente la necessità di un tale sacrificio e anzi lo conferma l'opera stessa, della Redenzione che si esprime totalmente nel Mistero Pasquale. La croce di Cristo è diventata il prezzo della redenzione umana. Ogni uomo che cammina sulla via dei veri valori, deve assumere qualche cosa di questa croce come prezzo che egli stesso deve pagare per i valori autentici. Questo prezzo consiste in un particolare sforzo:  "la legge divina, come scrive il Papa, richiede serio impegno e molti sforzi", e subito aggiunge che "tali sforzi sono nobilitanti per l'uomo e benefici per la comunità umana" (n. 20).
L'ultima parte dell'enciclica è un appello a questo serio impegno e a questi sforzi, sia all'indirizzo delle comunità, affinché "creino un clima favorevole all'educazione della castità" (n. 22), sia a riguardo dei pubblici poteri, come pure agli uomini di scienza, affinché riescano "a dare una base sufficientemente sicura ad una regolazione delle nascite, fondata sull'osservanza dei ritmi naturali" di fecondità (n. 24). L'enciclica fa appello infine ai coniugi stessi, all'apostolato delle famiglie per la famiglia, ai medici, ai sacerdoti e ai vescovi come pastori delle anime.
Agli uomini contemporanei, irrequieti e impazienti, e nello stesso tempo minacciati nel settore dei più fondamentali valori e principi, il Vicario di Cristo rammenta le leggi che reggono questo, settore. E poiché essi non hanno pazienza e cercano delle semplificazioni e delle apparenti facilitazioni, Egli ricorda loro quale debba essere il prezzo per i veri valori e quanta pazienza e sforzo occorra per raggiungere questi valori. Sembra che attraverso tutte le argomentazioni e appelli dell'enciclica, pieni per altro di una drammatica tensione, ci giungano le parole del Maestro:  "con la vostra perseveranza salverete le vostre anime" (Luca, 21, 19). Poiché in definitiva si tratta proprio di questo.



(©L'Osservatore Romano - 28-29 luglio 2008)

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“Humanae vitae”: attualità e profezia di un’enciclica

Congresso Internazionale a Roma per discutere sull'enciclica di Paolo VI

Presentazione Congresso per zenit

di Angela Maria Cosentino

ROMA, domenica, 14 settembre 2008 (ZENIT.org).- Per il 40°anniversario dell’enciclica di Paolo VI, si svolgerà a Roma, il 3 e 4 ottobre, il Congresso internazionale “ Humanae vitae: attualità di un’enciclica”.

L’evento è organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, che lo ospiterà, in collaborazione con la Confederazione Italiana Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità, il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II e l’Institut Européen d’education familiare.

Al centro dell’iniziativa aspetti teologico- dottrinali, riflessioni sulle risposte dei diversi destinatari dell’enciclica e sulle strategie operative per renderne possibile, oggi, l’attuazione.

Il primo giorno, venerdì 3 ottobre, è prevista la lectio magistralis del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, seguita da una sessione di lavoro dedicata al tema “Attualità del messaggio”, alla luce delle sfide culturali di oggi, in particolare su famiglia e procreazione, del contesto storico della “rivoluzione sessuale” e degli sviluppi del pensiero teologico sull’amore umano.

La seconda sessione, nel pomeriggio, affronterà, nella prima parte, “Quanto dell’Humanae vitae è stato attuato dai destinatari dell’enciclica”. Destinatari: uomini di scienza, contesto medico-sanitario, pubbliche istituzioni, Vescovi e sacerdoti.

Saranno presentate esperienze significative come, ad esempio, l’apporto di “uomini di scienza” che hanno impegnato risorse ed energie, nello sviluppo dei moderni Metodi Naturali di regolazione della fertilità (Metodo dell’ovulazione Billings e Metodi Sintotermici), applicabili oggi, con successo, in ogni circostanza della vita della donna, indipendentemente dalla regolarità o irregolarità dei cicli.

Il valore diagnostico e preventivo che questi metodi assumono nei confronti di alcune patologie, spesso causa d'infertilità, fa di essi anche uno strumento efficace per la tutela della fertilità della donna e ne giustifica l’utilizzo clinico nell’approccio alle coppie che ricercano la gravidanza.

Sabato mattina, 4 ottobre, è prevista una Solenne celebrazione eucaristica, nella basilica di San Pietro, presieduta dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Benedetto XVI. La “pedagogia” dei metodi naturali, con testimonianze di coppie, sarà al centro della riflessione del 4 ottobre pomeriggio. Seguirà una tavola rotonda per definire le strategie operative, nella quale saranno presenti significativi rappresentanti di realtà civili ed ecclesiali impegnate a sostegno della famiglia e alla vita.

Riproporre oggi, con il messaggio dell’Humanae vitae, l’inscindibile legame tra amore e vita che la csoddetta ‘rivoluzione sessuale’ ha contribuito a separare, rappresenta un evento culturale significativo che richiama alla ricchezza di un messaggio attuale ancora oggi, alla luce dei ripetuti attacchi incrociati contro la famiglia e la vita, delle problematiche relative alla fertilità e all’infertilità umana.

La denatalità rappresenta solo un aspetto recente della problematica demografica, ma il nodo centrale a cui richiama l’enciclica è la questione antropologica.

Tra i ripetuti attacchi contro la persona e la vita, si segnala la recente Risoluzione europea che, in vista della Conferenza mondiale dell’ONU sugli obiettivi del Millennio, propone il solito finanziamento di programmi di politiche antinataliste che comprendono, tra i “diritti riproduttivi”, contraccezione, “diritto all’aborto legale e sicuro” e deplorano il “divieto, sostenuto dalle chiese” di usare la contraccezione.

Con il paradosso di indirizzare le donne, nei paesi in via di sviluppo, verso una “scelta riproduttiva responsabile” con contraccezione, aborto e sterilizzazione, manipolando così non solo il linguaggio, ma anche la coscienza, la scienza, la salute della donna e del bambino.

Richiamare ai valori in gioco nella sessualità, al vero significato di procreazione responsabile, alle moderne possibilità per realizzarla, rappresenta uno degli obiettivi dell’evento collegato anche all’urgente emergenza educativa.

La concessione di patrocinio al Congresso, da parte di società scientifiche, pubbliche istituzioni, organismi del mondo ecclesiale, interessate a vario titolo ai temi della procreazione, della fertilità, e della famiglia può avviare un confronto costruttivo e un’auspicata collaborazione per realizzare progetti formativi e di ricerca, rivolti alla promozione della fertilità e dell’autentica procreazione responsabile.


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Aspetti teologici e dottrinali dell'«Humanae vitae»

Veramente liberi e liberamente veri


"Humanae vitae:  attualità e profezia di un'enciclica" è il titolo del congresso internazionale che si svolge il 3 ottobre nella sede romana dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Il cardinale arcivescovo di Bologna ha sintetizzato per noi i temi della sua lectio magistralis.

di Carlo Caffarra
L'enciclica Humanae vitae ha avuto in questi quarant'anni trascorsi dalla pubblicazione un destino singolare:  a una discussione di intensità sconosciuta per qualsiasi documento pontificio precedente è seguito un silenzio pressoché totale. (...) Nel primo ventennio dopo la pubblicazione, la riflessione e/o la contestazione riguardava la praticabilità della norma morale insegnata da Humanae vitae e l'autorevolezza dell'insegnamento. (...) Questo approccio presupponeva comunque la verità di ciò che l'enciclica prescriveva. Meglio:  il bene che la norma difendeva era ritenuto vero bene. È precisamente a questo livello che nel secondo ventennio è avvenuta la "crisi dell'Humanae vitae". Mi spiego.
La materia del contendere non è più la praticabilità della norma insegnata, e/o l'obbligatorietà dell'assenso del credente alla medesima in ragione del soggetto docente. La materia del contendere è costituita dalla domanda circa la verità del bene che l'Humanae vitae intende difendere. Cioè:  è vero o è falso che la connessione fra capacità unitiva e capacità procreativa unite nella sessualità è un bene propriamente morale? Si passa dal pensare:  "ciò che la Chiesa insegna non è praticabile o comunque non obbliga semper et pro semper", al pensare:  "ciò che la Chiesa insegna è falso". La domanda sulla verità è il nodo "problematico attuale".
La radicalizzazione del confronto con l'Humanae vitae è uno dei molti aspetti del confronto che la proposta evangelica oggi vive con la post-modernità occidentale. Esso non avviene più, almeno principalmente, sul piano della prassi:  è ragionevole, è possibile praticare ciò che la proposta cristiana esige o proibisce?
Lo scontro avviene sul piano veritativo. Il cristianesimo non dice la verità circa il bene dell'uomo, poiché il discorso religioso come tale non ha rilevanza veritativa. Il cristianesimo, allo stesso modo di ogni altra proposta religiosa, fa parte ad uguale diritto del "supermarket delle religioni":  ciascuno prende il prodotto secondo le sue preferenze, senza possibilità di una ragionevole argomentazione capace di giustificare la scelta in modo condivisibile. (...) Verità e cristianesimo sono due categorie di genere essenzialmente diverso. L'uso della ragione, come facoltà del vero, non è da ritenersi conditio sine qua non di individuazione, comprensione e libera accoglienza del Dono divino. Questo si ritiene per lo più oggi.
Non voglio ora però procedere in una riflessione di carattere generale su questo che costituisce uno dei grandi temi e delle "grandi sfide" del magistero di Benedetto XVI.
Vorrei piuttosto verificare come tutti i presupposti veritativi di carattere antropologico alla base dell'Humanae vitae siano stati progressivamente erosi. Questa erosione ha reso l'Humanae vitae non impraticabile, ma impensabile; ne ha dimostrato la (supposta!) falsità.
L'affermazione centrale dell'Humanae vitae si fonda sulla (percezione della) presenza di un bene morale nel fatto che l'atto sessuale coniugale fertile sia al contempo unitivo e procreativo. La compresenza delle due capacità non è un mero dato di fatto, ma ha in se stessa una preziosità di carattere etico che esige di essere rispettata. Questo atto di intelligenza si fonda su alcuni presupposti antropologici che devo solo telegraficamente richiamare.
Il primo. La persona umana è sostanzialmente una nella sua composizione di materia e spirito (cfr. Costituzione pastorale Gaudium et spes, 14, 1, EV 1/1363). Pertanto il rapporto fra l'io-persona ed il corpo non è solo di proprietà [ho il mio corpo] e quindi di uso.
Il secondo. La dimensione biologica della sessualità umana è linguaggio della persona, dotato di un suo significato proprio, di una sua grammatica.
Il terzo. La grammatica che regge il linguaggio della persona che è la sessualità, è la grammatica del dono di sé. Da ciò deriva che il rispetto di questa grammatica esige una profonda, intima integrazione fra èros e agàpe, fra pàthos, èros e lògos.
Ora, la mia convinzione è che tutti e tre questi presupposti sono stati nella postmodernità occidentale completamente erosi.
Il primo è stato demolito in una duplice direzione, affermando una natura senza libertà o una libertà senza una natura. (...) Il secondo è stato demolito dalla vittoria che l'etica utilitaristica ha ottenuto nell'èthos occidentale. Essa nega l'esistenza di ragioni incondizionatamente e universalmente capaci di giustificare una scelta libera. (...) Il terzo presupposto appare ampiamente demolito nel vissuto attuale in cui pàthos, lògos, èthos sono ormai completamente separati. Ed è questo il nodo che l'etica contemporanea si dimostra sempre più incapace di sciogliere.
Perciò l'Humanae vitae nella postmodernità è diventata ormai incomprensibile perché è diventata completamente impensabile.
A una lettura più profonda di tutta la vicenda tuttavia risulta che l'insegnamento dell'Humanae vitae è la risposta, è l'indicazione della via d'uscita da una sorta di prigione in cui l'uomo stava chiudendo se stesso. Parlare dunque di attualità dell'Humanae vitae, della sua rilevanza profetica non è retorica.
Che l'uomo oggi sia in pericolo nella sua propria umanità, è difficile negare. Ed allora mi chiedo:  che cosa oggi mette in pericolo l'humanitas della persona come tale? La mia risposta è:  l'avere sradicato l'esercizio della libertà dalla [consapevolezza della] verità circa l'uomo. Posso formulare questa stessa risposta nel modo seguente:  è la negazione che esista una natura della persona come criterio valutativo delle scelte della nostra libertà.
Che questa posizione metta a rischio l'humanum di ogni persona risulta dalle seguenti considerazioni.
Se prendiamo in considerazione la produzione delle norme di cui necessita ogni società (ubi societas ibi jus) e partiamo dal presupposto della negazione della natura nel senso suddetto, si deve pensare che la condizione sufficiente per costituire tutte le norme è esclusivamente il consenso delle parti, che normalmente si manifesta attraverso la votazione.
La difesa della persona è affidata alla buona disposizione di chi esercita il potere (in tutti i sensi:  anche il potere del politically correct), e viene tolta dalle coscienze la scriminante fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, fra ciò che è prevaricazione morale dell'altro e riconoscimento dell'altro.
Possiamo prendere in considerazione anche la condizione della singola persona nel contesto della negazione di una sua natura.
È ancora pensabile la possibilità del male morale? Del male morale inteso come il modo di esercitare la propria libertà contro il bene di chi la esercita. Se infatti è la libertà stessa a decidere non di compiere il bene o il male, ma a stabilire che cosa è bene o che cosa è male; se attribuisco alla libertà il potere di determinare la verità delle sue scelte, parlare di male morale non ha senso. Il dramma della libertà - possibilità di negare colle proprie scelte ciò che si è affermato vero colla propria ragione - si trasforma in una farsa. Ciò che sembra essere esaltazione suprema della libertà è in realtà la sua degradazione a mero spontaneismo.
Quanto detto finora acquista un significato più profondo se pensiamo al potere tecnico di cui l'uomo è venuto in possesso in questi ultimi quarant'anni. Sradicare la libertà dalla verità, negare che esista una natura umana nel contesto di possibilità tecniche sempre più estese, rischia di consegnare l'humanum a prevaricazioni senza limiti. Affermare la relatività di ogni forma di umanità rischia di privare il potere tecnico di ogni criterio di giustizia. Ciò che sto dicendo non significa che dobbiamo scegliere fra tecnica ed etica. Ma che non possiamo radicare la tecnica in un'etica senza verità. O - il che equivale - umiliare e degradare la ragione a una mera ratio technica. È una delle grandi sfide che il pontificato di Benedetto XVI sta lanciando al mondo:  o si allargano gli spazi della ragione o l'uomo è in pericolo mortale.
Che cosa ha a che fare tutta questa riflessione, qualcuno potrebbe chiedersi, con l'Humanae vitae? Essa mostra in quale condizione oggi si trova l'Humanae vitae:  quale è il suo permanente significato; il suo permanente significato profetico.
Ho parlato di "natura della persona umana". Secondo l'antropologia giudaico-cristiana, il corpo entra nella costituzione della persona. La persona umana è persona-corpo (persona corporea). Ne deriva che lo statuto ontologico della persona appartiene anche al suo corpo. La coscienza di sé non è disincarnata:  è la coscienza di sé come soggetto-corpo. Ho la coscienza che è lo stesso io che comprende un teorema di matematica, e che mangia. Così come l'altro è conosciuto e ri-conosciuto nel e mediante il suo corpo. È il corpo il linguaggio della persona.
Da ciò deriva una conseguenza d'importanza fondamentale.
La conseguenza riguarda la concezione della sessualità umana:  del suo lògos e del suo èthos. La sua ratio - il suo lògos - consiste nel fatto che l'esercizio della sessualità è linguaggio della persona, e quindi espunge da sé ogni separazione fra biologia (del sesso) e relazionalità (della persona). È l'unità di biologia e relazionalità che definisce la natura della sessualità umana; e la custodia di questa unità definisce l'èthos della sessualità umana.
La possibilità tecnica di separare la fertilità dall'esercizio della sessualità fu chiaramente intuita da Paolo VI e come la negazione radicale del lògos-èthos della sessualità umana e, soprattutto, come una "svolta epocale" nel rapporto fra l'uomo e la tecnica. In questo sta il permanente valore profetico di quel documento. Vediamo le cose più in particolare.
Ho parlato di negazione radicale del lògos-èthos della sessualità umana. La contraccezione chimica rendeva pensabile e praticabile un (supposto) vero atto di amore coniugale manipolando sostanzialmente la sua biologia. Veicolava nella coscienza dell'uomo e della donna l'idea che il vero amore era quello che unisce le persone dei coniugi, facendo un qualsiasi uso del proprio corpo a misura decisa dai due. Una "misura di uso" che ora la tecnica poteva stabilire.
Se l'atto di porre le condizioni del concepimento di una persona non entrava nella costituzione della libera relazionalità intra-coniugale, era solo questione di tempo per dedurre che lo stesso atto poteva prescinderne completamente:  dieci anni dopo, esattamente, nacque la prima bambina per fecondazione artificiale. La separazione della biologia dalla relazionalità era completa. Ho parlato di svolta epocale nella costituzione del rapporto tra uomo e tecnica. Il concepimento di una nuova persona si trasforma da "mistero" degno di venerazione in "problema" da risolvere. Paolo VI intuì che questa trasformazione rischiava di consegnare l'humanum come tale ad un destino tecnologico; rischiava di mettere l'humanum a disposizione di un potere di fatto senza limiti. La persona umana era a rischio di perdere la sua assoluta indisponibilità; di perdere la sua non negoziabilità.
Ci siamo chiesti:  in quale condizione versa oggi l'Humanae vitae? Mi sento di rispondere:  di drammatica attualità.
Come ogni profezia, anche l'Humanae vitae è dotata e di una grande forza e di una grande fragilità. La sua fragilità fu dovuta all'impreparazione e all'inadeguatezza del pensiero etico teologico a sostenerne l'insegnamento.
Il grande magistero di Giovanni Paolo II espresso nel ciclo di catechesi sull'amore umano, ha risposto a queste esigenze. Che ora il profondo magistero di Benedetto XVI sull'agàpe e sul suo rapporto con l'èros ha ulteriormente approfondito.
La forza della profezia dell'Humanae vitae consiste precisamente nel suo mettere in guardia l'uomo da un potere che potrebbe devastarne la dignità; dal mettere la propria umanità "a disposizione" e di una libertà e di una deliberazione pubblica che non riconosce più l'esistenza di una verità circa l'uomo.
Ed allora la sfida più urgente è quella educativa:  aiutare le giovani generazioni a trascendere se stessi verso la verità. Cioè, ad essere veramente liberi e liberamente veri.


(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2008)

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Messaggio del Papa al Congresso internazionale sull'Humanae vitae



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A Mons. Livio Melina
Preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II»
per Studi su Matrimonio e Famiglia

Ho appreso con gioia che il Pontificio Istituto di cui Ella è Preside e l'Università Cattolica del Sacro Cuore hanno opportunamente organizzato un Congresso Internazionale in occasione del 40° anniversario di pubblicazione dell'Enciclica Humanae vitae, importante documento nel quale è affrontato uno degli aspetti essenziali della vocazione matrimoniale e dello specifico cammino di santità che ne consegue. Gli sposi, infatti, avendo ricevuto il dono dell'amore, sono chiamati a farsi a loro volta dono l'uno per l'altra senza riserve. Solo così gli atti propri ed esclusivi dei coniugi sono veramente atti di amore che, mentre li uniscono in una sola carne, costruiscono una genuina comunione personale. Pertanto, la logica della totalità del dono configura intrinsecamente l'amore coniugale e, grazie all'effusione sacramentale dello Spirito Santo, diventa il mezzo per realizzare nella propria vita un'autentica carità coniugale.

La possibilità di procreare una nuova vita umana è inclusa nell'integrale donazione dei coniugi. Se, infatti, ogni forma d'amore tende a diffondere la pienezza di cui vive, l'amore coniugale ha un modo proprio di comunicarsi: generare dei figli. Così esso non solo assomiglia, ma partecipa all'amore di Dio, che vuole comunicarsi chiamando alla vita le persone umane. Escludere questa dimensione comunicativa mediante un'azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell'amore sponsale, con cui si comunica il dono divino: "se non si vuole esporre all'arbitrio degli uomini la missione di generare la vita, si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell'uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; limiti che a nessun uomo, sia privato sia rivestito di autorità, è lecito infrangere" (Humanae vitae, 17). E' questo il nucleo essenziale dell'insegnamento che il mio venerato predecessore Paolo VI rivolse ai coniugi e che il Servo di Dio Giovanni Paolo II, a sua volta, ha ribadito in molte occasioni, illuminandone il fondamento antropologico e morale.

A distanza di 40 anni dalla pubblicazione dell'Enciclica possiamo capire meglio quanto questa luce sia decisiva per comprendere il grande "sì" che implica l'amore coniugale. In questa luce, i figli non sono più l'obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente prima della vita umana. Questo grande "sì" alla bellezza dell'amore comporta certamente la gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente.

E' vero, d'altronde, che nel cammino della coppia possono verificarsi delle circostanze gravi che rendono prudente distanziare le nascite dei figli o addirittura sospenderle. Ed è qui che la conoscenza dei ritmi naturali di fertilità della donna diventa importante per la vita dei coniugi. I metodi di osservazione, che permettono alla coppia di determinare i periodi di fertilità, le consentono di amministrare quanto il Creatore ha sapientemente iscritto nella natura umana, senza turbare l'integro significato della donazione sessuale. In questo modo i coniugi, rispettando la piena verità del loro amore, potranno modularne l'espressione in conformità a questi ritmi, senza togliere nulla alla totalità del dono di sé che l'unione nella carne esprime. Ovviamente ciò richiede una maturità nell'amore, che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e un singolare dominio dell'impulso sessuale in un cammino di crescita nella virtù.

In questa prospettiva, sapendo che il Congresso si svolge anche per iniziativa dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, mi è pure caro esprimere particolare apprezzamento per quanto codesta Istituzione universitaria fa a sostegno dell'Istituto Internazionale Paolo VI di ricerca sulla fertilità e infertilità umana per una procreazione responsabile (ISI), da essa donato al mio indimenticabile Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, volendo in questo modo offrire una risposta, per così dire, istituzionalizzata all'appello rivolto dal Papa Paolo VI nel numero 24 dell'Enciclica agli "uomini di scienza". Compito dell'ISI, infatti, è di far progredire la conoscenza delle metodiche sia per la regolazione naturale della fertilità umana che per il superamento naturale dell'eventuale infertilità. Oggi, "grazie al progresso delle scienze biologiche e mediche, l'uomo può disporre di sempre più efficaci risorse terapeutiche, ma può anche acquisire poteri nuovi dalle conseguenze imprevedibili sulla vita umana nello stesso suo inizio e nei suoi primi stadi" (Istruz. Donum vitae, 1). In questa prospettiva, "molti ricercatori si sono impegnati nella lotta contro la sterilità. Salvaguardando pienamente la dignità della procreazione umana, alcuni sono arrivati a risultati che in precedenza sembravano irraggiungibili. Gli uomini di scienza vanno quindi incoraggiati a proseguire nelle loro ricerche, allo scopo di prevenire le cause della sterilità e potervi rimediare, in modo che le coppie sterili possano riuscire a procreare nel rispetto della loro dignità personale e di quella del nascituro" (Istruz. Donum vitae, 8). E' proprio questo lo scopo che l'ISI Paolo VI ed altri Centri analoghi, con l'incoraggiamento dell'Autorità ecclesiastica, si propongono.

Possiamo chiederci: come mai oggi il mondo, ed anche molti fedeli, trovano tanta difficoltà a comprendere il messaggio della Chiesa, che illustra e difende la bellezza dell'amore coniugale nella sua manifestazione naturale? Certo, la soluzione tecnica anche nelle grandi questioni umane appare spesso la più facile, ma essa in realtà nasconde la questione di fondo, che riguarda il senso della sessualità umana e la necessità di una padronanza responsabile, perché il suo esercizio possa diventare espressione di amore personale. La tecnica non può sostituire la maturazione della libertà, quando è in gioco l'amore. Anzi, come ben sappiamo, neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell'essere umano. Per questo il servizio che la Chiesa offre nella sua pastorale matrimoniale e familiare dovrà saper orientare le coppie a capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha iscritto nel corpo umano, aiutandole ad accogliere quanto comporta un autentico cammino di maturazione.

Il Congresso che state celebrando rappresenta perciò un importante momento di riflessione e di cura per le coppie e per le famiglie, offrendo il frutto di anni di ricerca, sia sul versante antropologico ed etico che su quello prettamente scientifico, a proposito di procreazione veramente responsabile. In questa luce non posso che congratularmi con voi, augurandomi che questo lavoro porti frutti abbondanti e contribuisca a sostenere i coniugi con sempre maggior saggezza e chiarezza nel loro cammino, incoraggiandoli nella loro missione ad essere, nel mondo, testimoni credibili della bellezza dell'amore. Con questi auspici, mentre invoco l'aiuto del Signore sullo svolgimento dei lavori del Congresso, a tutti invio una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 2 ottobre 2008

BENEDICTUS PP XVI

[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]

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Il cardinale Bertone al congresso internazionale per il quarantesimo anniversario dell'enciclica di Paolo VI

Attualità e profezia
dell'«Humanae vitae»


Attualità e profezia. L'enciclica Humanae vitae di Papa Paolo VI, a quarant'anni dalla sua pubblicazione, rivela tutta la sua attualità e il grande animo profetico del suo ispiratore, Papa Montini. Lo ha sottolineato il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, che sabato mattina 4 ottobre nella basilica di San Pietro, ha presieduto la messa per i partecipanti al congresso internazionale celebrativo della ricorrenza, organizzato a Roma dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo ii per studi su matrimonio e famiglia, in collaborazione con l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Una celebrazione che coincide con il giorno della festa di san Francesco d'Assisi. Una coincidenza significativa, ha notato il segretario di Stato nella sua omelia, che mostra come "le due odierne ricorrenze, al di là di un primo superficiale sguardo, sono tra loro convergenti". San Francesco, "un santo popolare e universalmente riconosciuto per la radicalità della sua scelta evangelica e per la sua fedeltà e il suo amore per la Chiesa", ha amato e onorato la vita con tutto se stesso. "Si pensi - ha detto in proposito il porporato - alla sua attenzione e rispetto per la natura, per gli animali per tutto il creato; si pensi specialmente al suo rispetto e amore per la vita umana. Chi più del santo di Assisi ha dato alla vita umana un valore spirituale profondo, considerando la propria vita come dono divino e a Dio offrendola totalmente sì da diventare conforme nei segni della passione a Gesù Cristo"?
San Francesco considerava la vita quale gratuito dono di Dio, con libertà di cuore; per questo "poteva intrattenersi quasi familiarmente con il creato lodando il Signore nelle sue creature, che chiamava fratelli e sorelle. Ed è proprio questo suo rapportarsi con il mistero della vita, aiuta a comprendere meglio "il profetico magistero del grande Pontefice Paolo VI a proposito della vita umana".
Nel dibattito che occupa l'opinione pubblica in questo periodo a proposito della dignità della vita umana, dal momento del concepimento al suo termine naturale, la magistrale enciclica di Paolo VI si ripropone come testo da rileggere e da meditara. Ma sarebbe davvero riduttivo, ha precisato il cardinale, rileggerla "come purtroppo non pochi fanno, fermandosi alle critiche aprioristiche rivolte da larghi strati della pubblica opinione, mettendo in secondo piano l'alto insegnamento sul senso e valore dell'inviolabilità della vita dell'uomo, oggi quanto mai manipolata e spesso calpestata".
Di qui il riferimento all'esemplarità della testimonianza di san Francesco, il quale insegna che solo nell'amore si comprende il mistero della vita con i suoi esigenti risvolti di responsabilità e di libertà. "Solo a partire dal progetto amorevole di Dio - ha detto Bertone - prende senso pieno l'atto coniugale. Ciò, naturalmente, presuppone rispetto e apertura accogliente verso la vita, e non un'attitudine di possesso egoistico. La vocazione dell'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, si realizza in pienezza solo nel dono di sé a Dio e al prossimo. La vita esemplare di Francesco insegna che solo nel rispetto di Dio si giunge a rispettare ogni creatura".
Il rispetto è forse il valore di cui si sente più la necessità in un mondo sempre più carico di violenza e di morte "perché sempre più povero di amore, quell'amore autentico che genera e nutre la vita. Per questo - ha aggiunto il cardinale - è importante far emergere con chiarezza la bellezza della vita concepita e vissuta come dono di amore. Questo fa parte della nostra vocazione; come cristiani siamo chiamati a farci carico liberamente delle speranze e delle sofferenze dell'umana esistenza, e a rendere tangibile la tenerezza divina che in Cristo ci ha manifestato e donato l'amore capace di vivere in pienezza le stagioni della vita in qualsiasi condizione ci si venga a trovare".
Riferendosi poi alla preghiera del salmo responsoriale - "Sei tu Signore l'unico mio bene" - il celebrante ha così proseguito:  "È vero:  solo Dio è il Bene e ciò che da Lui proviene è buono. Ma se Dio viene rigettato, come è possibile capire che cosa è buono, come riconoscere il vero Bene misura di ogni altro bene? Si assiste oggi a un triste rifiuto di Dio; il suo progetto circa la vita con i doveri che comporta, appare come un peso da cui liberarsi, un ostacolo da cui sbarazzarsi per affermare la piena libertà dell'uomo, libertà di gestire se stesso e la vita come "cosa" di cui si ha pieno possesso e non come dono ricevuto e del quale si dovrà rendere un giorno conto. Il Papa Paolo VI, quando emanò l'enciclica Humanae vitae, aveva ben presente questa situazione socioculturale e avvertiva il grave dovere di difendere la nobiltà dell'amore coniugale. In particolare, sentiva indispensabile riaffermare il carattere sacro della vita umana, come elemento imprescindibile per la promozione e il rispetto della persona nel servizio alla verità della fede".
E torna il richiamo a san Francesco, alla sua testimonianza "che l'uomo di fede sa che il valore dell'esistenza è dato dalla fedeltà al progetto di Dio, riconosciuto come Creatore e Signore della vita". Per cui - come si legge nell'enciclica - "un atto di amore reciproco, che pregiudichi la disponibilità a trasmettere la vita che Dio creatore di tutte le cose secondo particolari leggi vi ha immesso, è in contraddizione sia con il disegno divino, sia con il volere dell'Autore della vita umana" (Humanae vitae, 13)
Dunque la parola chiave per comprendere l'enciclica è quella dell'amore. Lo sottolineò Papa Benedetto XVI il 10 maggio scorso ai partecipanti a un altro analogo convegno internazionale promosso per questo stesso quarentesimo anniversario. E il cardinale Bertone a questo ha fatto riferimento. Benedetto XVI affermò che l'atto coniugale nell'enciclica "viene descritto all'interno di un processo globale che non si arresta alla divisione tra anima e corpo né soggiace al solo sentimento, spesso fugace e precario, ma si fa carico dell'unità della persona. E ciò è frutto di un amore che sa pensare e scegliere in piena libertà, senza lasciarsi condizionare oltremisura dall'eventuale sacrificio richiesto". "Ecco da dove scaturisce il miracolo della vita - disse ancora Benedetto XVI - che i genitori sperimentano in se stessi, verificando come qualcosa di straordinario quando si compie in loro e tramite loro".
Come dunque non essere grati al servo di Dio Paolo VI, si è chiesto il segretario di Stato, per un documento che, a quarant'anni di distanza si sta rivelando quanto mai attuale, e che non pochi fuori della Chiesa oggi vanno con onestà apprezzando sempre più?
"Certo, - ha aggiunto - ne siamo tutti ben consapevoli, accogliere l'insegnamento dell'enciclica non è facile; occorre una sinergia di azioni concomitanti al servizio della vita umana che interessi la coppia, i fidanzati e le famiglie; occorre una ricerca sulla procreazione veramente responsabile che tenga conto di ogni aspetto sia antropologico, come etico e scientifico". Ancora una volta è stato lo stesso Benedetto XVI ad averlo sottolineato nel messaggio che ha fatto pervenire ai partecipanti al Congresso, esortandoli "a proseguire nel cammino che avete intrapreso". "Paternità responsabile - ha concluso il cardinale Bertone - è questione di coraggio e di amore. Le sole risorse umane potrebbero non essere sufficienti; per questo la Chiesa non si stanca di invitare a ricorrere all'aiuto divino. Seguire la legge di Dio, parrebbe a prima vista oneroso, ma così non è. Ce lo ricorda Gesù nella pagina evangelica che abbiamo ascoltato, invitandoci a prendere il suo giogo sopra di noi e imparare da Lui che è mite e umile di cuore...".



(©L'Osservatore Romano - 5 ottobre 2008)

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Il messaggio dell’Humanae vitae: aspetti teologico-dottrinali

Intervento del Card. Caffarra al Congresso internazionale sull'Enciclica

ROMA, domenica, 5 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica la lezione magistrale pronunciata il 3 ottobre dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, nel corso del Congresso internazionale “Humanae vitae: attualità di un'Enciclica”, organizzato dall'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

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L'Enciclica Humanae Vitae [HV] ha avuto in questi quarant'anni trascorsi dalla sua pubblicazione un destino singolare: ad una discussione di intensità sconosciuta per qualsiasi documento pontificio precedente è seguito un silenzio pressoché totale. Il percorso - dalla discussione al silenzio -  può essere sinteticamente narrato nel modo seguente.

Nel primo ventennio dopo la pubblicazione, la riflessione e/o la contestazione riguardava la praticabilità della norma morale insegnata da HV e l'autorevolezza dell'insegnamento. In tale contesto venne elaborato la teoria della gradualità della legge, progressivamente supportata dalle teorie etiche del consequenzialismo e del teleologismo. La discussione sull'HV si è progressivamente, e logicamente, approfondita fino all'elaborazione di teorie etiche generali dalle quali derivava un'interpretazione del testo, che negava l'incondizionatezza della norma ivi insegnata.

L'altro aspetto del dibattito che caratterizzò il primo ventennio era di carattere ecclesiologico. Riguardava la competenza del Magistero di insegnare con autorità norme morali che esso stesso dice essere di legge naturale. E anche riguardava il grado di autorevolezza con cui il Magistero insegna ciò che insegna in HV.

Questo approccio ad HV presupponeva comunque la verità di ciò che l'Enciclica prescriveva. Meglio: il bene che la norma difendeva era ritenuto vero bene. È precisamente a questo livello che nel secondo ventennio è avvenuta la "crisi dell'HV". Mi spiego.

La materia del contendere non è più la praticabilità della norma insegnata [difficile, impossibile, comunque non ineccepibile], e/o l'obbligatorietà dell'assenso del credente alla medesima in ragione del soggetto docente. La materia del contendere è costituita dalla domanda circa la verità del bene che HV intende difendere. Cioè: è vero/è falso che la connessione fra capacità unitiva e capacità procreativa unite nella sessualità è un bene propriamente morale? Si passa dal pensare: "ciò che la Chiesa insegna non è praticabile o comunque non obbliga semper et pro semper", al pensare: "ciò che la Chiesa insegna è falso". La domanda sulla verità è il nodo problematico attuale.

La mia riflessione seguente parte da questa constatazione, da questo "capolinea" cui è giunto il percorso di questi quarant'anni. E cercherò di rispondere alle seguenti domande: come e perché si è giunti a questa radicalizzazione del confronto/scontro? In quale condizione si trova oggi [l'insegnamento di] HV?

1. Ragioni della radicalizzazione

La radicalizzazione del confronto con l'HV è uno dei molti aspetti del confronto che la proposta evangelica oggi vive con la post-modernità occidentale.

Esso non avviene più, almeno principalmente, sul piano della prassi: è ragionevole, è possibile praticare ciò che la proposta cristiana esige o proibisce.

Lo scontro avviene sul piano veritativo. Il cristianesimo non dice la verità circa il bene dell'uomo, poiché il discorso religioso come tale non ha rilevanza veritativa. Il cristianesimo, allo stesso modo di ogni altra proposta religiosa, fa parte ad uguale diritto del "super-market delle religioni": ciascuno prende il prodotto secondo le sue preferenze, senza possibilità di una ragionevole argomentazione capace di giustificare la scelta in modo condivisibile. La proposta cristiana non ha, perché non può avere, possibilità di stringere amicizia colla ragione. La domanda: il cristianesimo è una religione vera? Ha lo stesso senso che la domanda: di che colore sono le sinfonie di Mozart? Verità e cristianesimo sono due categorie di genere essenzialmente diverso. L'uso della ragione, come facoltà del vero, non è da ritenersi conditio sine qua non di individuazione, comprensione e libera accoglienza del Dono divino.

Non voglio ora però procedere in una riflessione di carattere generale su questo tema che costituisce uno dei grandi temi e delle "grandi sfide" del Magistero di Benedetto XVI.

Vorrei piuttosto verificare come tutti i presupposti veritativi di carattere antropologico che sono alla base di HV siano stati progressivamente erosi. Questa erosione ha reso l'HV non impraticabile, ma impensabile; ne ha dimostrato la (supposta!) falsità.

Come è a voi noto, l'affermazione centrale di HV si fonda sulla (percezione della) presenza di un bene morale nel fatto che l'atto sessuale coniugale fertile sia al contempo unitivo e procreativo. La compresenza delle due capacità non è un mero dato di fatto, ma ha in se stessa una preziosità di carattere etico che esige di essere rispettata.

Questo atto di intelligenza si fonda su alcuni presupposti antropologici che devo solo telegraficamente richiamare.

Il primo. La persona umana è sostanzialmente una nella sua composizione di materia e spirito [«corpore et anima unus», dice il Concilio Vaticano II parlando dell'uomo] (cfr. Cost. past. Gaudium et spes 14,1, EV 1/1363). Pertanto il rapporto fra l'io-persona ed il corpo non è solo di proprietà [ho il mio corpo] e quindi di uso.

Il secondo. La dimensione biologica della sessualità umana è linguaggio della persona, dotato di un suo significato proprio, di una sua grammatica. Esistono gesti e comportamenti che nella loro dimensione fisica veicolano un senso spirituale. Se il bacio di Giuda ci sconvolge tanto profondamente, è perché il gesto del baciare ha un suo significato proprio: compierlo dandole un altro senso è avvertito come immorale e riprovevole.

Il terzo. La grammatica che regge il linguaggio della persona che è la sessualità, è la grammatica del dono di sé. Da ciò deriva che il rispetto di questa grammatica esige una profonda, intima integrazione fra eros e agape, fra pathos, eros e logos.

Ora, la mia convinzione è che tutti e tre questi presupposti sono stati nella post-modernità occidentale completamente erosi.

Il primo è stato demolito in una duplice direzione, affermando una natura senza libertà o una libertà senza una natura. È stato un processo molto complesso che ha visto e la progressiva riduzione della libertà a spontaneità e una visione della persona tendenzialmente materialista.

Il secondo è stato demolito dalla vittoria che l'etica utilitaristica ha ottenuto nell'Ethos occidentale. Essa nega l'esistenza di ragioni incondizionatamente e universalmente capaci di giustificare una scelta libera. La scelta libera è giustificabile solo "in relazione a..." []situazione storica, condizione personale ...]. La conseguenza di questa vittoria è che nell'ambito dell'esercizio della sessualità tutto alla fine è diventato giustificabile, purché  sia liberamente voluto.

Il terzo presupposto appare ampiamente demolito nel vissuto attuale in cui pathos, logos, ethos sono ormai completamente separati. Ed è questo il nodo che l'etica contemporanea si dimostra sempre più incapace di sciogliere.

Concludo questo secondo punto. Esso ha sostenuto la seguente tesi: l'HV nella post-modernità è diventata ormai incomprensibile perché è diventata completamente impensabile.

2. Condizione attuale di HV

Ad una lettura più profonda di tutta la vicenda tuttavia risulta che l'insegnamento di HV è la risposta, è l'indicazione della via d'uscita da una sorta di prigione in cui l'uomo stava chiudendo se stesso. Parlare dunque di attualità dell'HV, della sua rilevanza profetica non è retorica. È ciò che  cercherò di mostrare in questo secondo punto della mia relazione.

Che l'uomo oggi sia in pericolo nella sua propria umanità, è difficile negare. Ed allora mi chiedo: che cosa oggi mette in pericolo l'humanitas della persona come tale? La mia risposta è: l'avere sradicato l'esercizio della libertà dalla [consapevolezza della] verità circa l'uomo. Posso formulare questa stessa risposta nel modo seguente: è la negazione che esista una natura della persona come criterio valutativo delle scelte della nostra libertà.

Che questa posizione metta a rischio l'humanum di ogni persona risulta dalle seguenti considerazioni.

Se prendiamo in considerazione la produzione delle norme di cui necessità ogni società [ubi societas ibi jus], se partiamo dal presupposto della negazione della natura nel senso suddetto, si deve pensare che la condizione sufficiente per costituire tutte le norme è esclusivamente il consenso delle parti, che normalmente si manifesta attraverso la votazione.

Inoltre l'iter che porta al consenso, sempre all'interno di quella negazione, può essere pensato e realizzato solo come una controversia tra rivali. Nel senso che i partecipanti alla deliberazione pubblica non hanno alcun referente che li obblighi preventivamente alla discussione pubblica. La controversia sulle ragioni proprie di ciascuno o è risolta sulla base che tutti e ciascuno sono radicati in un verum circa l'uomo, che li fa oltrepassare se stessi verso un bene umano comune, oppure è risolta con l'imposizione del proprio punto di vista, e alla fine dei propri interessi. Come disse il Santo Padre Benedetto XVI all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 aprile 2008: «il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l'applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti..... Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo».

La difesa della persona è affidata alla buona disposizione di chi esercita il potere [in tutti i sensi: anche il potere del "politically correct"], e viene tolta dalle coscienze la scriminante fra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, fra ciò che è prevaricazione morale dell'altro e riconoscimento dell'altro.

Possiamo prendere in considerazione anche la condizione della singola persona nel contesto della negazione di una sua natura.

È ancora pensabile la possibilità del male morale? Del male morale inteso come il modo di esercitare la propria libertà contro il bene di chi la esercita. Se infatti è la libertà stessa a decidere non di compiere il bene o il male, ma a stabilire che cosa è bene / che cosa è male; se attribuisco alla libertà il potere di determinare la verità delle sue scelte, parlare di male morale non ha senso. Il dramma della libertà - possibilità di negare colle proprie scelte ciò che si è affermato vero colla propria ragione - si trasforma in una farsa. Ciò che sembra essere esaltazione suprema della libertà è in realtà la sua degradazione a mero spontaneismo.

Quanto detto finora acquista un significato più profondo se pensiamo al potere tecnico di cui l'uomo è venuto in possesso in questi quarant'anni dalla pubblicazione di HV. Sradicare la libertà dalla verità, negare che esista una natura umana nel contesto di possibilità tecniche sempre più estese, rischia di consegnare l'humanum a prevaricazioni senza limiti. Affermare la relatività di ogni forma di umanità rischia di privare il potere tecnico di ogni criterio di giustizia.  Ciò che sto dicendo non significa che dobbiamo scegliere fra tecnica ed etica. Ma che non possiamo radicare la tecnica in un'etica senza verità. O - il che equivale - umiliare e degradare la ragione a una mera "ratio technica". È una delle grandi sfide che il pontificato di Benedetto XVI sta lanciando al mondo: o si allargano gli spazi della ragione o l'uomo è in pericolo mortale.

Che cosa ha a che fare tutta questa riflessione, qualcuno potrebbe chiedersi, con l'HV? Essa mostra in quale condizione oggi si trova [l'insegnamento di] HV: quale è il suo permanente significato; il suo permanente significato profetico. HV cioè si trova cioè nella condizione delle "sentinelle della città umana", della profezia.

Ho parlato di "natura della persona umana". Secondo l'antropologia giudaico - cristiana, il corpo entra nella costituzione della persona. La persona umana è persona - corpo [persona corporea]. Ne deriva che lo statuto ontologico della persona appartiene anche al suo corpo. La coscienza di sé non è disincarnata: è la coscienza di sé come soggetto - corpo. Ho la coscienza che è lo stesso io che comprende un teorema di matematica, e che mangia. Così come l'altro è conosciuto e ri-conosciuto nel e mediante il suo corpo. È il corpo il linguaggio della persona.

Da questa visione della persona - corpo e del corpo - persona, che ovviamente meriterebbe ben altro approfondimento, deriva una conseguenza di importanza fondamentale. Il corpo umano, mio e dell'altro, non è mai riducibile completamente ad un «oggetto»: da studiare, da manipolare. Se dal punto di vista metodologico mettere fra parentesi la qualità propriamente umana del corpo può essere fruttuoso di risultati cognitivi, non possiamo trasformare una scelta metodologica in una scelta di contenuto.

L'altra conseguenza di non minore importanza riguarda la concezione della sessualità umana: del suo logos e del suo ethos. La sua ratio - il suo logos - consiste nel fatto che l'esercizio della sessualità è linguaggio della persona, e quindi espunge da sé ogni separazione fra biologia [del sesso] e relazionalità [della persona]. È l'unità di biologia e relazionalità che definisce la natura della sessualità umana; e la custodia di questa unità definisce l'ethos della sessualità umana.

La possibilità tecnica di separare nel versante della fertilità - scoperta della contraccezione chimica - fu chiaramente intuita da Paolo VI e come la negazione radicale del logos - ethos della sessualità umana e, soprattutto e come una "svolta epocale" nella costituzione del rapporto fra l'uomo e la tecnica. In questo sta il permanente valore profetico di quel documento. Vediamo le cose più in particolare.

Ho parlato di negazione radicale del logos - ethos della sessualità umana. La contraccezione chimica rendeva pensabile e praticabile un [supposto] vero atto di amore coniugale manipolando sostanzialmente la sua biologia. Veicolava nella coscienza dell'uomo e della donna l'idea che il vero amore era quello che unisce le persone dei coniugi, facendo un qualsiasi uso del proprio corpo a misura decisa dai due. Una "misura di uso" che ora la tecnica poteva stabilire.

Se l'atto di porre le condizioni del concepimento di una persona non entrava nella costituzione della libera relazionalità intra-coniugale, era solo questione di tempo per dedurre che lo stesso atto poteva prescinderne completamente: dieci anni dopo, esattamente, nacque la prima bambina per fecondazione artificiale. La separazione della biologia dalla relazionalità era completa, ed un fatto compiuto.

Ho parlato di svolta epocale nella costituzione del rapporto uomo - tecnica. Il concepimento di una nuova persona si trasforma da «mistero» degno di venerazione in «problema» da risolvere. Paolo VI intuì che questa trasformazione rischiava di consegnare l'humanum come tale ad un destino tecnologico; rischiava di mettere l'humanum a disposizione di un potere di fatto senza limiti. La persona umana era a rischio di perdere la sua assoluta indisponibilità; di perdere la sua non negoziabilità.

Ci siamo chiesti: in quale condizione versa oggi l'HV? Mi sento di rispondere: di drammatica attualità.

3. Conclusione

Come ogni profezia, anche HV è dotata e di una grande forza e di una grande fragilità.

La sua fragilità fu dovuta dall'impreparazione e dalla inadeguatezza del pensiero etico teologico a sostenerne l'insegnamento. La problematica avrebbe dovuto essere affrontata con un'antropologia adeguata, una vera e proprio teologia del corpo, un ripensamento personalista della categoria di legge naturale: di tutto questo difettava l'etica teologica del tempo.

Il grande Magistero di Giovanni Paolo II espresso nel ciclo di catechesi sull'amore umano, ha risposto a queste esigenze. Che ora il profondo Magistero di Benedetto XVI sull'agape e sul suo rapporto con l'eros ha ulteriormente approfondito. Ma di tutto questo parlerà il prof. Melina.

La forza della profezia di HV consiste precisamente nel suo mettere in guardia l'uomo da un potere che potrebbe devastarne la dignità; dal mettere la propria umanità "a disposizione" e di una libertà e di una deliberazione pubblica che non riconosce più l'esistenza di una verità circa l'uomo.

La forza di HV potrà mostrare la sua efficacia solo se uomini e donne non vorranno congedarsi dalla condizione drammatica in cui l'uomo si trova: poter negare colla sua scelta la verità circa se stesso affermata dalla ragione. E il "foglio di congedo" può essere o la negazione della libertà ridotta a spontaneità o la negazione della verità circa l'uomo.

Ed allora la sfida più urgente è quella educativa: aiutare le giovani generazioni a trascendere se stessi verso la verità. Cioè, ad essere veramente liberi e liberamente veri.

  


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L’ Humanae vitae: un’Enciclica che sollecita i Pastori

ROMA, domenica, 12 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica la relazione pronunciata da monsignor Giuseppe Anfossi, Vescovo di Aosta e Presidente della Commissione Episcopale per la famiglia, i giovani e la vita, in occasione del Congresso internazionale “Humanae vitae: attualità e profezia di un’Enciclica”, svoltosi dal 3 al 4 ottobre scorso presso l’Università Cattolica di Roma.



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Introduzione

Interpreto il mio compito nel modo seguente; si chiede a me, che sono Vescovo di una Diocesi in Italia, di rispondere alla domanda: i Vescovi che esercitano il loro ministero in un popolo loro affidato quali sollecitazioni ricevono, secondo Lei, dall’Enciclica HV? La parola ‘sollecitazione’ nella lingua italiana dice ‘richiesta insistente fatta con un po’ d’urgenza’. Immagino che le ‘sollecitazioni’ siano pastorali e riguardino l’educazione della fede affidata in primo appello al Pastore e poi alle diverse persone che condividOno con lui, in forma diversa responsabilità e compiti di carattere pastorale. Questa responsabilità accoglie le parole di Paolo VI rivolte ai vescovi: "Lavorate con ardore e senza sosta alla salvaguardia e alla santità del matrimonio, perché sia sempre vissuto in tutta la sua pienezza umana e cristiana. Considerate questa missione come una delle vostre più urgenti responsabilità nel tempo presente.” (n. 30).

Il Vescovo ha la cura di un gregge per tutto ciò che riguarda la vita cristiana; il suo compito pastorale, quindi, è ampio quanto la missione pastorale della Chiesa (non è uno studioso di teologia o morale, e neppure l’incaricato di una particolare pastorale ad esempio, familiare o giovanile). I compiti di insegnare, santificare e governare nella Chiesa sono affidati al successore di Pietro e ai Vescovi in comunione con lui. Il ministero affidato ai Vescovi mediante uno specifico sacramento (cfr CCC n. 875) ha un carattere collegiale, é quindi esercitato in comunione con il Vescovo di Roma successore di Pietro e con gli altri Vescovi dentro un collegio. Esso ha però anche un carattere personale come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: “è chiamato personalmente : ‘Tu seguimi’ (Gv 21,22) per essere, nella missione comune, testimone personale, personalmente responsabile davanti a colui che conferisce la missione, agendo ‘in sua persona’ e per delle persone: ‘Io ti battezzo nel nome del Padre…’; ‘Io ti assolvo…’ " (n. 878). Desidero allora parlare con voi delle sollecitazioni che un Vescovo sente in sé rileggendo l’Enciclica HV, stando in questa posizione ecclesiale che ho descritto, anche personale.

Provo subito ad elencare ciò che secondo me un Vescovo ‘sente’ e pensa durante la lettura avendo di fronte il suo popolo. Immagino che la reazione sia diversa da vescovo a vescovo, ma provo a non guardare solo a me stesso.

La fedeltà a Dio e all’uomo

Se c’è un progetto di salvezza di Dio, il pastore non può non vederlo in riferimento alle concrete situazioni di vita dei soggetti interessati, alla loro cultura e mentalità, e non può non chiedersi quale peso abbia la situazione concreta sul progetto stesso e se per caso non induca a modificarlo. In ogni caso nasce la domanda: la situazione concreta ha soltanto una funzione passiva e di recezione? Questo problema che è stato preso seriamente in considerazione dal Papa Paolo VI, può trovare oggi una nuova e diversa considerazione?

Dopo tanti anni dalla pubblicazione dell’Enciclica, sono davvero molte le risposte date in qualche modo al problema che ho sollevato; vi hanno concorso fedeli laici, religiosi, presbiteri e vescovi. Credo dunque che si possa affermare che la Chiesa nel suo livello più autorevole, a cominciare da Paolo VI, abbia risposto dicendo che è proprio la fedeltà all’uomo a motivare la decisione che ispira l’Enciclica. Si deve inoltre notare che con il passare del tempo questa fedeltà si manifesta sempre più. Essa assume un carattere addirittura profetico come ha detto chiaramente Giovanni Paolo II il 7 novembre 1988.1 A ben guardare si è anche trattato di conciliare verità e carità, e una verità che produce libertà. Provo a dirlo con il Catechismo della Chiesa Cattolica che lo indica come un compito affidato ai Vescovi: “[…] Il compito pastorale del Magistero è quindi ordinato a vigilare affinché il Popolo di Dio rimanga nella verità che libera” (n. 890). Questa citazione mi interessa come Pastore anche là dove dice che il mio compito è vigilare affinché il popolo di Dio rimanga nella verità. Mi chiedo ora però come posso declinare concretamente e quotidianamente questo compito di vigilare; esso comporta naturalmente anche proporre, diffondere, sostenere idee e convinzioni e, forse, prendere delle corrispondenti iniziative. Un aspetto molto importante e anche un po’ previo è dato dal proporre la dottrina dell’Enciclica in modo convincente, mostrando quindi che contiene una verità che libera; non è sufficiente che ne sia convinto io soltanto. Devo dire che la lettura della più diversa letteratura specifica, a cominciare da quanto è offerto dal magistero, mi aiuta. Bisogna riconoscere che negli anni si è fatto molto lavoro culturale per mostrare che la scelta è buona; questo vale soprattutto per quanto riguarda l’antropologia, la concezione dell’uomo e della sessualità nell’unità di corpo e spirito, e il significato della procreazione. Anche la concezione del matrimonio e la spiritualità coniugale ne hanno guadagnato. Il punto che più mi convince – pur annotando la difficoltà di trovare sempre le parole per dirlo – è riconducibile all' intero o al totale come reazione forte e salvante, mentre la cultura moderna accentua la frammentarietà dell’universo umano.2 (Cfr Benedetto XVI, OR 11. 05. 2008).

Continuare a riflettere e studiare: un compito tuttora aperto

Rileggendo l’HV e almeno una parte dei documenti e studi che ad essa si riferiscono trovo che si possono elencare notevoli punti acquisiti in favore dell’HV e della verità che contiene, ma nello stesso tempo credo si debba tenere vivo l’appello lanciato da Paolo VI allora e prima dal Concilio Vaticano II agli uomini di scienza perché la riflessione e lo studio continuino.3 Il compito culturale volto a comprendere di più e meglio non è quindi terminato. Se l’insegnamento dell’HV non è facile come dice lo stesso Papa Benedetto XVI, non si deve lasciare nulla di intentato. Questo compito culturale, pedagogico, didattico e comunicativo è molto impegnativo e va seriamente considerato da tutti coloro che come me sono impegnati nella missione pastorale, perché ricorda a tutti che pur sapendo da quale parte sta la verità, il tempo presente deve essere vissuto e concepito come in movimento e ancora in crescita, un cantiere aperto.

Avere cura dei protagonisti della pastorale

Dal punto di vista pastorale potrebbe essere utile e formativo offrire ai sacerdoti e ad altri operatori, religiosi e laici, delle informazioni più accurate sullo stato della ricerca teorica, ed eventualmente offrire ad alcuni di loro momenti di formazione almeno sui temi che si ritiene siano più importanti oggi. Non è facile definirli, ne indico uno, l’educazione all’amore che comprenda, come è giusto, anche la formazione al sentimento, all’affettività e alla sessualità. La preparazione dei ragazzi e ragazze alla Cresima, la pastorale dei ragazzi e dei giovani di parrocchia, associazione, movimento e oratorio, hanno un estremo bisogno di idee, racconti, riflessioni, strumenti e sussidi. Perché non far incontrare di più su questo compito educativo gli uomini e le donne delle facoltà teologiche con gli educatori e gli animatori? Il tema è molto vicino al meraviglioso retroterra richiesto per comprendere la pedagogia proposta dall’HV. Il tema naturalmente deve essere affrontato con saggezza pedagogica e profondità spirituale. Secondo me sarebbe necessario accrescere il dialogo tra i ‘teorici’ e i ‘pratici’ (tra i teologi professori di facoltà e gli educatori sul campo) e avviare delle sperimentazioni condotte con la presenza di veri supervisori teorici. Non possiamo nasconderci una constatazione precisa: le conoscenze che abbiamo della sessualità - parlo soprattutto delle conoscenze che si presentano come scientifiche - non sono a punto di arrivo e c’è anche da domandarsi se lo saranno mai. Tuttavia oggi è possibile comporre un patrimonio di conoscenze che possediamo e metterlo a servizio dei diversi educatori. Questo però richiede preventivamente un altro incontro tra gli studiosi delle discipline teologiche e quelli delle scienze umane.

Sulla formazione di chi insegna discipline teologiche e filosofiche

A questo proposito voglio esprimere un’osservazione personale: la poca esperienza che ho fatto di convegni organizzatiti da soggetti e istituzioni fedeli al magistero, mi dice che i difensori della dottrina dell’HV - e sono per lo più studiosi di professione e\o insegnanti universitari - hanno genericamente parlando, i seguenti valori o meriti e limiti. I valori sono dati dal possesso amoroso della dottrina della Chiesa che presentano e dalla forza del pensiero astratto, sistematicamente costruito e ben inserito nella tradizione teologica. I limiti sono dati dalla conoscenza troppo teorica che essi hanno delle teorie filosofiche, sociologiche e psicologiche del mondo contemporaneo e occidentale. Essi conoscono le tesi antropologico-filosofiche che sottendono tali teorie, ma non hanno dimestichezza con i presupposti di tali teorie che citano.4 Questo fa sì che chi li ascolta provenendo dalle scienze umane non riesce a ‘entrare’ nella loro esposizione tanto sistematica e dalle premesse teoriche a loro non note; di conseguenza molte persone di per sé ben disposte anche credenti e praticanti, pur esercitando delle professioni importanti oggi, dai medici agli psicologi, rimangono escluse dalla comprensione che li potrebbe persuadere. Per dirla tutta, coloro che posseggono una preparazione universitaria filosofica e\o teologica dovrebbero munirsi di conoscenze teoriche psicologiche, antropologiche, sociologiche e medico-scientifiche di prima mano e dirette. Questo studio darebbe loro anche un altro vantaggio non secondario: permetterebbe di costruire delle ‘letture’ più ampie e più documentate conformi al pensiero della Chiesa; lo potrebbero fare poggiando su quelle parti di verità o di scoperte scientifiche che sono acquisite e condivise e già presenti nel pensiero laico di oggi. Così facendo si eviterebbero alcuni aspetti negativi del dibattito contemporaneo come è talora condotto da parte dei pensatori cattolici religiosi o preti: usare il proprio linguaggio tecnico e non il loro; considerare l’altro come un avversario e quindi esagerare in termini di opposizione e di denuncia di errore l’esposizione della posizione avversa con il rischio di esasperare la distanza tra la nostra verità e il loro errore.

Persuadere: un’arte da coltivare

Un problema importante e grave per un Vescovo, ma lo condivide con gli esperti del vostro mestiere, riguarda la costruzione del consenso sulle tesi teoriche previe e presupposte alle indicazioni etiche. Questo consenso da costruire riguarda molte persone, una parte di coloro che pure si definiscono fedeli alla Chiesa, ivi compresi quelli che hanno delle responsabilità in essa. Riguarda più precisamente i destinatari della pastorale matrimoniale e familiare: i giovani in crescita verso l’età adulta, i fidanzati e gli sposi e coloro che si rivolgono ai consultori; riguarda naturalmente anche tutti coloro che hanno delle responsabilità nei loro confronti, medici, insegnanti di metodi naturali, operatori di consultorio, sacerdoti e coniugi animatori di pastorale familiare; infine, gli uomini e le donne dalla comunicazione sociale cattolica e altri ancora. Il Pastore, in breve, anche se decide di riferirsi soltanto o prevalentemente ai componenti del Popolo di Dio, si interroga spesso sulle strade da percorrere per persuadere o almeno per creare un consenso critico disponibile alla ricerca o alla messa in discussione della posizione tenuta fino allora e spesso errata, delle persone che gli sono affidate. La sua domanda poi si articola in alcune pastorali particolari, ad esempio pastorale familiare e giovanile e quella affidata all’ufficio diocesano delle comunicazioni sociali. In ogni caso, mi permetto di dire che la domanda sulla strade da percorre è molto seria e che oggi trova poche risposte o almeno non adeguate alla gravità del problema.

Piccole e quotidiane attenzioni

Tra le cose importanti che sono da fare aggiungo ancora le seguenti. In generale, ma soprattutto circa il tema che ci sta cuore qui oggi, i responsabili della pastorale e dell’educazione dovrebbero imparare e mettere in atto delle forme educative fatte per coltivare la coscienza. Da un certo punto di vista le persone che frequentiamo sono migliori di quanto appare ai loro stessi occhi; esse però abitualmente non sanno parlare di tutto ciò che hanno dentro; esse inoltre hanno poche occasioni o pochi luoghi per farlo; poi, come insegna l’esperienza, i contenuti dei mondi interiori sono più ricchi delle parole che le persone trovano per dirlo. I maestri di ogni tipo e i sacerdoti potrebbero imparare molto dall’esperienza umana che si rivela nella coscienza. Anche io mi associo ad un teologo molto conosciuto e affermato, Giuseppe Angelini, che invita a ‘dare la parola alla coscienza muta’.5

Una seconda attenzione riguarda l’apporto che possono dare ad una nuova cultura dell’amore e della sessualità le persone che non elaborano pensiero sistematico e che non insegnano nelle scuole. Ritengo che si debba ancor più seriamente di quanto già si fa, intraprendere una strada che valorizzi l’esperienza umana in tutte le sua manifestazioni. Ritengo perciò che la Chiesa debba cercare delle persone istruite, formate spiritualmente e teologicamente, che si dispongano a fare delle analisi fenomenologiche a partire dalla lettura di storie vere, narrazioni di avvenimenti accaduti (piccole e grandi storie tragiche e felici), opere di poeti e cantanti, romanzi e diari … Questa via può portare a convinzioni nuove, e quindi ad un cambio di atteggiamenti, molte persone che non hanno attitudine al pensiero astratto o non ne posseggono gli strumenti. In questa stessa direzione vanno le narrazioni a mo’ di testimonianze che si possono fare in piccoli gruppi.

Per terminare

Termino dicendo delle cose ovvie che però sono importanti e un pastore non può non dirle. A mio modo di vedere chiunque abbia in questo campo delle responsabilità pastorali o promozionali - compresi allora anche i medici e gli insegnanti dei metodi naturali - dovrebbe anche curare alcuni aspetti della sua personalità. Li elenco senza troppa cura di sistematicità. Deve voler bene alle persone e cercare di comprenderle; deve dialogare e quindi ascoltare molto sapendo però mantenersi vigile, in modo da non cadere in una qualche forma di solidarietà troppo simpatetica sì da dimenticare poi ciò che la Chiesa insegna. Per fare questo deve anche essere culturalmente curioso e sempre disponibile ad imparare; deve leggere e studiare. Deve poi avere umiltà e rimandare o ricorrere a chi ne sa di più sia nel livello culturale alto e scientifico e sia in quello dell’esperienza o della vita vissuta. Gli richiederei, in breve, un cuore di pastore il cui modello sappiamo bene dove si trova, e per trovarlo è sufficiente leggere il Vangelo pregando. Gli chiederei anche l’animo e lo stile dell’animatore, di chi cioè fa crescere quanto già trova presente nell’altro, ma non teme di dare qualche cosa di sé, sapere, vita e speranza. Vedo importante, infine, anche un altro aspetto della personalità, la disponibilità al colloquio prolungato compreso quello spirituale con la coppia o con il singolo a tu per tu.

Appendice: il progetto AMOS

Propongo alla lettura un progetto a cui anche io tempo addietro ho dato un po’ pensiero e lavoro. E’ in realtà il frutto di una collaborazione tra più persone, sposi, esperti, una religiosa e un sacerdote. Allora gli sposi erano insieme con me responsabili della pastorale familiare del Piemonte: l’intuizione di fondo è stata loro.

Come nasce.

Si comincia e riflettere sull’insegnamento della Chiesa riguardante l’HV e i metodi naturali. Si constata che i giovani e le giovani coppie sono portatori di domande e di sane inquietudini, ma non sono disponibili ad accogliere ciò che la Chiesa insegna, la visione cristiana della sessualità e la regolazione naturale della fertilità. Bisogna creare un terreno che le renda sensibili; si decide di partire più da lontano con la speranza che possano essere anche più numerose le coppie interessate ad ascoltare. Si prendono in considerazione le difficoltà sulla sessualità con cui si misurano le giovani coppie: essa si presenta come un castello che affascina e insieme mette paura, un castello un po’ buio che sono costretti a visitare da soli … e senza luce.

Il progetto

Il nome: AMOS è acronimo di Amore Metodi naturali Orientamenti sulla Sessualità. Ricorda un profeta dallo stesso nome, che annuncia delle promesse … “in quel giorno rialzerò la capanna di Davide, che è caduta” (9, 11).

Il progetto naturalmente contempla una meta finale, obiettivi intermedi, contenuti, metodi e strumenti… affidati a dei responsabili. E’ sostanzialmente un progetto culturale (non fa movimento e non crea appartenenza). La sua finalità consiste nel preparare delle coppie di sposi o delle persone singole, al compito di svolgere nella comunità cristiana ruoli (1) di organizzatori e animatori impegnati a programmare attività o a gestire gruppi o corsi, oppure (2) di consulenti (per esercitare questo secondo compito è necessario però che vi sia oltre alla disponibilità della persona e la formazione specifica, una formazioni di base adeguata come è il caso di medici, psicologi, insegnanti…). Sono tutti volontari.

Come opera

Il pensiero è rigorosamente quello che l’Enciclica propone e suppone. La finalità è descrivibile come diffusione di una cultura dell’amore e della sessualità che dia valore alla persona umana. Vuole favorire l’assimilazione delle buone ragioni che persuadono e motivano la scelta dei metodi naturali. Chi vi opera deve disporsi a conoscere e a comprendere i giovani, i fidanzati e gli sposi mettendosi un po’ dalla loro parte e vedere le loro difficoltà, paure e perplessità.

NB. Far conoscere i metodi naturali, proporli e accompagnarne la pratica non rientra nelle finalità. Si colloca prima su di un terreno culturale formativo.

Obiettivi intermedi

Si riconducono a - conoscenza e confronto con altre attività similari (ad esempio, consultorio, centro metodi naturali) - a presa di contatto con diversi modi di affrontare gli stessi problemi (come altri soggetti o istituzioni fanno con diversa ideologia o pensiero o prassi) - conoscenza di come i vari mezzi di comunicazione espongono e trattano i problemi della sessualità e della procreazione - acquisizione di competenze culturali e tecniche per esercitare il ruolo di organizzatori, animatori o consulenti con altre coppie o persone - conoscenza delle presenze pastorali del territorio diocesano e presa di contatto con alcune di esse - conoscenza di sussidi e loro pratica per utilizzarli in modo personalizzato.

Stile operativo

Si riconduce fondamentalmente a quello della animazione o della consulenza. Quando si affrontano temi di contenuto in particolare la sessualità, si dà spazio al confronto delle coppie tra di loro e con gli esperti; questi a loro volta si distinguono per appartenenza a discipline teologiche oppure alle scienze umane: anch’essi vengono messi a confronto.

Le attività in fascia interna

Il progetto avendo una struttura di associazione è regolato da uno Statuto,perciò cura l’organizzazione, l’adempimento delle regole, la formazione dei soci e il loro aggiornamento.

Le attività in fascia esterna.

Contatti con enti e strutture (parrocchie, gruppi famiglia, scuole, consultori, associazioni…) e organizzazione di servizi. Si cerca ogni utile collaborazione con altri organismi o enti presenti sul territorio.

[Per ulteriori informazioni consultare: www.bussola.it/progettoamos]

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1 Cfr L'Osservatore Romano del 7/8 novembre 1988.

2 Cfr BENEDETTO XVI ai partecipanti al Convegno internazionale nel quarantesimo anniversario dell'Humanae Vitae in L'Osservatore Romano dell'11 maggio 2008.

3 Cfr GS n. 52 e HV n. 24.

4 Con la parola ‘presupposti’ intendo le teorie definite con il linguaggio scientifico e quindi non filosofico, e le loro argomentazioni anch’esse scientifiche.

5 Cfr Giuseppe ANGELINI, Educazione e identità di genere: il maschile e il femminile. Relazione tenuta il 23 ottobre 2004 a Torino nell'ambito del primo Convegno dell'Associazione Progetto Amos sul tema "Famiglia: insieme si può...".

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