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Pastores Gregis

Ultimo Aggiornamento: 19/11/2008 19:53
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19/11/2008 19:50

CAPITOLO SESTO

NELLA COMUNIONE DELLE CHIESE

« La preoccupazione per tutte le Chiese » (2 Cor 11, 28)

55. Scrivendo ai cristiani di Corinto, l'apostolo Paolo rievoca tutto ciò che egli ha patito per il Vangelo: «  Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese  » (2 Cor 11, 26-28). La conclusione a cui egli giunge è un interrogativo appassionato: «  Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?  » (2 Cor 11, 29). È lo stesso interrogativo che interpella la coscienza di ogni Vescovo, in quanto membro del Collegio episcopale.

Lo ricorda espressamente il Concilio Vaticano II quando afferma che tutti i Vescovi, in quanto membri del Collegio episcopale e legittimi successori degli Apostoli per istituzione e per comando di Cristo, sono tenuti ad estendere la loro sollecitudine a tutta la Chiesa. «  Tutti i Vescovi infatti devono promuovere e difendere l'unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa, istruire i fedeli all'amore di tutto il Corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della giustizia (cfr Mt 5, 10) e, infine, promuovere ogni attività comune a tutta la Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca, e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità. Del resto è una verità che, reggendo bene la propria Chiesa come porzione della Chiesa universale, contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è pure un corpo fatto di Chiese  ».206

Accade così che ogni Vescovo è simultaneamente in relazione con la sua Chiesa particolare e con la Chiesa universale. Lo stesso Vescovo, infatti, che è visibile principio e fondamento dell'unità nella propria Chiesa particolare, è pure il legame visibile della comunione ecclesiastica tra la sua Chiesa particolare e la Chiesa universale. Tutti i Vescovi, pertanto, risiedendo nelle loro Chiese particolari sparse nel mondo, ma sempre custodendo la comunione gerarchica con il Capo del Collegio episcopale e con il Collegio stesso, danno consistenza ed espressione alla cattolicità della Chiesa e nel contempo conferiscono alla loro Chiesa particolare tale nota di cattolicità. Ogni Vescovo, così, è quasi punto di congiunzione della sua Chiesa particolare con la Chiesa universale e testimonianza visibile della presenza dell'unica Chiesa di Cristo nella sua Chiesa particolare. Nella comunione delle Chiese, dunque, il Vescovo rappresenta la sua Chiesa particolare e, in questa, egli rappresenta la comunione delle Chiese. Mediante il ministero episcopale, infatti, le portiones Ecclesiae partecipano alla totalità dell'Una-Santa, mentre questa, sempre attraverso tale ministero, si rende presente nella singola Ecclesiae portio.207

La dimensione universale del ministero episcopale è pienamente manifestata e attuata quando tutti i Vescovi, in comunione gerarchica col Romano Pontefice, agiscono come Collegio. Riuniti solennemente in un Concilio Ecumenico o sparsi per il mondo, ma sempre in comunione gerarchica col Romano Pontefice, essi costituiscono la prosecuzione del Collegio apostolico.208 Anche in altre forme, però, tutti i Vescovi collaborano tra di loro e con il Romano Pontefice in bonum totius Ecclesiae, e ciò avviene anzitutto perché il Vangelo sia annunciato in tutta la terra e anche per fare fronte ai vari problemi che assillano le diverse Chiese particolari. Nello stesso tempo, anche l'esercizio del ministero del Successore di Pietro per il bene di tutta la Chiesa e di ogni Chiesa particolare, come pure l'azione del Collegio in quanto tale, sono di valido aiuto perché, nelle Chiese particolari affidate alla cura pastorale dei singoli Vescovi diocesani, siano salvaguardate l'unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa. Nella Cattedra di Pietro i Vescovi, sia come singoli sia uniti tra di loro come Collegio, trovano il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità della fede e della comunione.209

Il Vescovo diocesano in relazione alla suprema autorità

56. Il Concilio Vaticano II insegna che «  ai Vescovi, come a successori degli Apostoli, nelle Diocesi loro affidate, per sé spetta tutto il potere ordinario, proprio e immediato, che è necessario per l'esercizio del loro dovere pastorale (munus pastorale), ferma sempre restando in ogni campo la potestà del Romano Pontefice, in forza del suo ufficio, di riservare alcune cause a se stesso o ad altra autorità  ».210

Nell'aula sinodale è stata sollevata da qualcuno la questione se non si possa trattare la relazione tra il Vescovo e la suprema autorità alla luce del principio di sussidiarietà, specialmente per quanto concerne i rapporti tra il Vescovo e la Curia romana, auspicando che tali rapporti, in linea con un'ecclesiologia di comunione, si svolgano nel rispetto delle competenze di ciascuno e, quindi, nell'attuazione di una maggiore decentralizzazione. È stato pure chiesto che si studi la possibilità di applicare tale principio alla vita della Chiesa, salvaguardando in ogni caso il fatto che principio costitutivo per l'esercizio dell'autorità episcopale è la comunione gerarchica dei singoli Vescovi con il Romano Pontefice e con il Collegio episcopale.

Come si sa, il principio di sussidiarietà fu formulato dal mio predecessore di v. m. Pio XI per la società civile.211 Il Concilio Vaticano II, che non ha mai usato il termine « sussidiarietà », ha però incoraggiato la condivisione tra gli organismi della Chiesa, avviando una nuova riflessione sulla teologia dell'Episcopato, che sta dando i suoi frutti nella concreta applicazione del principio della collegialità alla comunione ecclesiale. I Padri sinodali hanno tuttavia ritenuto, per quanto riguarda l'esercizio dell'autorità episcopale, che il concetto di sussidiarietà risulti ambiguo e hanno insistito di approfondire teologicamente la natura dell'autorità episcopale alla luce del principio di comunione.212

Nell'Assemblea sinodale si è parlato più volte del principio di comunione.213 Si tratta di una comunione organica, che si ispira all'immagine del Corpo di Cristo, di cui parla l'apostolo Paolo quando sottolinea le funzioni di complementarità e mutuo aiuto tra le diverse membra nell'unico corpo (cfr 1 Cor 12, 12-31).

Perché, dunque, il ricorso al principio di comunione sia fatto correttamente ed efficacemente, saranno ineludibili alcuni punti di riferimento. Si dovrà innanzitutto tener conto del fatto che nella sua Chiesa particolare, il Vescovo diocesano possiede tutta la potestà ordinaria, propria e immediata, necessaria per l'adempimento del suo ministero pastorale. A lui, pertanto, compete un ambito proprio di esercizio autonomo di tale autorità, ambito riconosciuto e tutelato dalla legislazione universale.214 La potestà del Vescovo, dall'altra parte, coesiste con la potestà suprema del Romano Pontefice, anch'essa episcopale, ordinaria e immediata su tutte le singole Chiese e i raggruppamenti di esse, su tutti i pastori e i fedeli.215

Altro punto fermo da tener presente: l'unità della Chiesa è radicata nell'unità dell'episcopato, il quale, per essere uno, richiede un Capo del Collegio. Analogamente la Chiesa, per essere una, esige una Chiesa come Capo delle Chiese, quella di Roma il cui Vescovo, Successore di Pietro, è il Capo del Collegio.216 Affinché, dunque, «  ogni Chiesa particolare sia pienamente Chiesa, cioè presenza particolare della Chiesa universale con tutti i suoi elementi essenziali, quindi costituita ad immagine della Chiesa universale, in essa dev'essere presente, come elemento proprio, la suprema autorità della Chiesa [...] Il primato del Vescovo di Roma e il Collegio episcopale sono elementi propri della Chiesa universale «  non derivati dalla particolarità delle Chiese  », ma tuttavia interiori a ogni Chiesa particolare [...] L'essere il ministero del successore di Pietro interiore ad ogni Chiesa particolare è espressione necessaria di quella fondamentale mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare  ».217

La Chiesa di Cristo, nella sua nota di cattolicità, si realizza pienamente in ogni Chiesa particolare, la quale riceve tutti i mezzi naturali e soprannaturali per adempiere la missione, che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo. Tra questi c'è anche la potestà ordinaria, propria e immediata del Vescovo, richiesta per l'esercizio del suo ministero pastorale (munus pastorale), il quale esercizio, però, è sottoposto alle leggi universali e alle riserve, fatte dal diritto o da un decreto del Sommo Pontefice, alla suprema autorità, oppure ad altra autorità ecclesiastica.218

La capacità di governo proprio, comprendente anche l'esercizio del magistero autentico,219 intrinsecamente appartenente al Vescovo nella sua Diocesi, si trova all'interno di quella realtà misterica della Chiesa, la quale fa sì che nella Chiesa particolare sia immanente la Chiesa universale, che rende presente la suprema autorità, cioè il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi con la loro potestà suprema, piena, ordinaria e immediata su tutti i fedeli e pastori.220

Conformemente alla dottrina del Concilio Vaticano II, si deve affermare che la funzione di insegnare (munus docendi) e quella di governare (munus regendi) &endash; quindi la corrispondente potestà di magistero e di governo &endash; nella Chiesa particolare sono da ciascun Vescovo diocesano esercitate, per loro natura, nella comunione gerarchica con il Capo del Collegio e con il Collegio stesso.221 Ciò non indebolisce l'autorità episcopale, anzi la rafforza, in quanto i vincoli della comunione gerarchica che legano i Vescovi alla Sede Apostolica richiedono una necessaria coordinazione tra la responsabilità del Vescovo diocesano e quella della suprema autorità, che è dettata dalla natura stessa della Chiesa. È lo stesso diritto divino a porre i limiti dell'esercizio dell'una e dell'altra. La potestà dei Vescovi, per questo, «  non è sminuita dalla potestà suprema e universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata, poiché lo Spirito Santo conserva invariata la forma di governo da Cristo Signore stabilita nella sua Chiesa  ».222

Bene si espresse pertanto il Papa Paolo VI quando, aprendo il terzo periodo del Concilio Vaticano II, affermò: «  Come voi, venerati Fratelli nell'episcopato, sparsi sulla terra per dare consistenza ed espressione alla vera cattolicità della Chiesa, avete bisogno di un centro, d'un principio di unità nella fede e nella comunione, quale appunto trovate in questa Cattedra di Pietro; così Noi abbiamo bisogno che voi Ci siate sempre vicini per dare sempre più al volto della Sede Apostolica la sua prestanza, la sua umana e storica realtà, anzi la consonanza alla sua fede, l'esempio al compimento dei suoi doveri, il conforto nelle sue tribolazioni  ».223

La realtà della comunione, che è alla base di tutte le relazioni intraecclesiali 224 e che è stata messa in luce anche nella discussione sinodale, costituisce una relazione di reciprocità tra il Romano Pontefice e i Vescovi. Infatti, se da una parte il Vescovo, per esprimere in pienezza il suo stesso ufficio e fondare la cattolicità della sua Chiesa, deve esercitare la potestà di governo che gli è propria (munus regendi), nella comunione gerarchica con il Romano Pontefice e con il Collegio episcopale, dall'altra parte il Romano Pontefice, Capo del Collegio, nell'esercizio del suo ministero di supremo pastore della Chiesa (munus supremi Ecclesiae pastoris), agisce sempre nella comunione con tutti gli altri Vescovi, anzi con tutta la Chiesa.225 Nella comunione ecclesiale, allora, come il Vescovo non è solo, ma è continuamente riferito al Collegio e al suo Capo ed è da essi sostenuto, così anche il Romano Pontefice non è solo, ma è sempre in riferimento ai Vescovi ed è da essi sostenuto. È questa un'altra ragione per cui l'esercizio della potestà suprema del Romano Pontefice non annulla, ma afferma, corrobora e rivendica la stessa potestà ordinaria, propria e immediata del Vescovo nella sua Chiesa particolare.




 

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