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VANGELO DI LUCA

Ultimo Aggiornamento: 23/11/2008 16:21
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23/11/2008 16:14

V.               IL RACCONTO DEL VIAGGIO (9,51-19,28)

Qui Luca costruisce la propria cristologia e per esprimere il suo personale pensiero, accantona la sua fonte marciana e ci offre del materiale attinto o alla fonte Q oppure a fonti proprie. Pertanto questa sezione (9,51-19,28) viene denominata: la “grande inserzione lucana” a motivo  di questa connotazione personale. Luca riprenderà la sezione comune con Marco da (18,15-19,28).

La sezione suddetta è delimitata dai due versetti, molto lucani, che costituiscono il suo inizio (9,519 e la sua fine (19,28). Il titolo più appropriato è: “Verso Gerusalemme” ed è detto esplicitamente nel versetto iniziale. Inoltre Luca ripete più volte che Gesù procede verso Gerusalemme (13,22.23; 17,11; 18,31; 19,11; 19,28) o più in generale, che è “in viaggio” (9,57; 10,38, 14,25; 18,37, 19,1).

La tradizione del quarto vangelo conosce molte salite di Gesù a Gerusalemme. In Marco la salita occupa un solo capitolo, due in Matteo e ben dieci in Luca.

Luca, però, non è preoccupato di offrire un quadro geografico preciso, ma vuole dare una prospettiva teologica a questa salita. Il viaggio verso Gerusalemme è un viaggio verso la  Croce, che però non è separata dalla risurrezione.

Tutti gli insegnamenti inseriti in questo quadro della partenza di Gesù vanno letti nella prospettiva della morte/risurrezione. Si tratta in gran parte di materiale lucano che vogliono rispondere a una sola domanda: che cosa significa in concreto seguire Gesù nel suo cammino verso la croce?

TORNA ALL'INDICEa)    Il rifiuto dei Samaritani  (9, 51-56)

Luca ha iniziato il racconto della missione pubblica di Gesù in Galilea con il rifiuto degli abitanti di Nazareth (4, 16-30). Ora introduce il viaggio verso Gerusalemme ponendo ancora un altro rifiuto: quello dei samaritani. Sembra che Luca voglia porre tutta l’attività di Gesù sotto il segno del contrasto e del rifiuto.

L’inimicizia fra giudei e samaritani era di lunghissima data. Sargon II aveva conquistato Samaria, capitale del Nord nel 722 a.C. Secondo il costume politico degli Assiri, egli aveva deportato gli abitanti del luogo sostituendoli con popolazioni straniere. Si parla di questo in 2 Re 17,24ss: “Il re di Assiria fece venire gente da Babilonia, Chuta, Avva, Camat, e Sefarvàim: fece dimorare tutta questa gente nella regione di Samaria al posto dei figli d’Israele. Presero possesso di Samaria e abitarono nelle loro città”.

I nuovi arrivati, secondo il costume dell’epoca, accettarono il Signore, il Dio venerato da Israele, ma nello stesso tempo continuarono ad adorare i loro idoli (2 Re 17, 34-41).

L’ostilità trova dunque la sua ragione nella diversità di razza e nel sincretismo religioso. Gli avvenimenti successivi non hanno fatto altro che accrescere questa ostilità già esistente.

I giudei nel 538 a.C. tornano dall’esilio babilonese e i samaritani offrirono il loro aiuto per la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, ma Zorobabele, Giosuè e gli altri capi dei giudei risposero sdegnosamente: “Non c’è nulla tra voi e noi perché edifichiate una casa per il nostro Dio; noi soli dobbiamo edificarla per il Signore Dio d’Israele, come ci ha comandato Ciro, re di Persia” (Esdra 4,3).

Infine l’ostilità fu totale quando i samaritani costruirono un loro tempio sul monte Garizim nel 325 a.C.

Dopo questa doverosa nota storica, torniamo ora al nostro racconto.

Chiedendo ai discepoli di preparare la sua venuta in un villaggio di samaritani, Gesù rompe l’ostilità giudaica nei confronti di questo popolo dal sangue misto, che aveva il Pentateuco come Sacra Scrittura, ma il culto locale del Garizim costituiva una sfida permanente per il tempio di Gerusalemme.

Qui i samaritani rifiutano non tanto la persona di Gesù, quanto piuttosto Gerusalemme, conclusione del suo viaggio. E Gesù parlerà bene di samaritani, come rivelano la parabola del samaritano e l’episodio del lebbroso samaritano che torna a ringraziare Gesù.

I discepoli, invece, vorrebbero il castigo come ai tempi di Elia (2 Re 1, 10-14), il quale per essere riconosciuta la sua missione di uomo di Dio, aveva fatto scendere il fuoco dal cielo che aveva divorato un centinaio di uomini mandati ad arrestarlo.

Ma Gesù non è venuto per essere il vigoroso riformatore dei costumi atteso dal Battista (3, 16-18). E se “rimproverò” i discepoli è perché essi non comprendevano assolutamente nulla della sua missione (annuncio del rifiuto: 9,22) e del suo insegnamento (amore verso i nemici: 6,29).

Un ultimo particolare: Gesù non è rifiutato direttamente, ma nei suoi messaggeri, mandati avanti a preparargli un posto. Non è difficile scorgere in questo un’esperienza della chiesa, che vedeva rifiutati i propri missionari che annunciavano l’arrivo di Cristo. Il rifiuto è un’esperienza della chiesa, non solo di Gesù.

TORNA ALL'INDICEb)    La radicalità della sequela (9, 57-62)

Al rifiuto dei samaritani seguono tre parole di Gesù sulla sequela, parole che colpiscono per la loro particolare radicalità.

Mentre andavano per la strada”: già sappiamo che è la strada verso Gerusalemme, verso la Croce. E’ questo precisa il “dovunque tu vada”. Gesù ha una meta precisa, dalla quale non si lascia distrarre.

Gesù non ha fissa dimora perché la sua missione è universale e non può fermarsi in nessun posto.

Il secondo breve dialogo fra Gesù e l’uomo invitato alla sequela, è certamente il più paradossale. Seppellire i propri morti era considerato un dovere essenziale, di fronte al quale anche le pratiche religiose passavano in seconda linea: “Chi si trova davanti a un suo parente morto è dispensato dalla recita dello schemà, dalla preghiera delle diciotto benedizioni e da tutti i precetti nominati dalla “torah”. Ma per Gesù l’annuncio del Regno viene prima di tutto, senza eccezione, viene anche prima delle legge.

Un altro sconosciuto è disposto a seguire Gesù, ma chiede il tempo di salutare quelli di casa. La metafora di Gesù (“Nessuno che ha messo mano all’aratro…”) sta a significare che la sequela non sopporta rinvii, né distrazioni, né uscite di sicurezza. Si è soliti qui fare un confronto con la vocazione di Eliseo (1 Re 19,20). Il confronto sottolinea la radicalità della chiamata di Gesù, per il quale non ci sono se e ma. Eliseo va prima a salutare i suoi di casa, il discepolo di Gesù no. Seguire Gesù è più che seguire Elia.

TORNA ALL'INDICEc)     Missione dei settantadue discepoli (10, 1-12)

Accanto all’invio in missione dei dodici apostoli (episodio riportato anche da Marco e Matteo). Luca riporta anche un secondo episodio che invece gli è proprio: l’invio in missione dei settantadue discepoli. L’intenzione è di mostrare che la missione non è unicamente affidata allo stretto gruppo degli apostoli, ma anche alla cerchia più vasta dei discepoli. Il compito di annunciare Cristo rientra nella vocazione cristiana di ogni battezzato e deve estendersi a tutta la terra: il numero settantadue richiama la tradizione giudaica che riteneva che le nazioni della terra fossero, appunto, settantadue.

L’evangelista introduce l’episodio collegandolo ai detti sulla sequela: “Li mandò a due a due…”. La missione suppone un invio e di questo il missionario (in questo caso, ogni cristiano) deve essere consapevole che ha ricevuto un incarico che deve portare a compimento con fedeltà e nei termini stabiliti.

Nel concetto di inviare c’è anche l’idea del viaggio, della partenza, della dispersione: “Andate!”. Non sono i popoli che devono incamminarsi verso i discepoli, ma i discepoli che devono correre verso i popoli. Questo modo di pensare la missione accentua fortemente l’idea di universalità e di servizio.

Ma quali sono i comportamenti e i sentimenti che Gesù pretende dai suoi missionari?

1)     Anzitutto, la consapevolezza dell’urgenza e della vastità del compito: “La messe è molta…”. Da questa consapevolezza sgorga la necessità della preghiera: “Pregate il padrone della messe…”. L’urgenza e la vastità del compito sono sottolineate anche da un altro avvertimento: “Per via non salutate nessuno”. Non c’è tempo per conversazioni inutili, per cose secondarie. Il discepolo si concentra tutto sull’essenziale e non ha tempo da perdere.

2)     Il secondo atteggiamento suggerito è la povertà: “non portate né borsa né bisaccia…”. Si tratta di una libertà indispensabile perché la purezza del vangelo sia salvata ed è il modo di vivere che rende credibile il vangelo stesso. Mostra, infatti, davanti al tutti, la fiducia che il missionario ha nel Padre.

3)     Infine, terzo atteggiamento, la consapevolezza e l’accettazione di una situazione di sproporzione: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. Lo scontro col mondo non è ad armi pari, ma il cristiano deve avere fede nella Parola che annuncia, anche se questa sembra inadeguata al compito. Spesso è la mancanza di fede che impedisce alla Parola di manifestare la forza di Dio che essa nasconde.

Nella conclusione del discorso di Gesù (10, 10-12) compare il tema del giudizio e del rifiuto, due situazioni che riflettono le molteplice esperienze di ostilità e rifiuto fatte dalle comunità missionarie nelle città giudaiche prime e in quelle pagane poi. Ma sono parole che insistono nuovamente sul tema dell’urgenza: né il successo né il fallimento possono trattenere il missionario. Anche Gesù fu respinto dai samaritani. L’espressione “scuotere la polvere” è un richiamo all’urgenza e all’unicità dell’evento: è l’ultimo appello.

TORNA ALL'INDICEd)    Le città impenitenti (10, 13-16)

Al discorso missionario seguono due detti di Gesù, che in origine erano certamente separati, ma che qui trovano una eccellente collocazione. Essi sottolineano, riferendosi non più ai missionari ma a chi ascolta il loro annuncio, la necessità dell’ascolto con fede e l’urgenza della conversione.

Corazin, Betsaida e Cafarnao sono le tre città nelle quali Gesù ha portato avanti la sua attività con maggiore intensità. I loro abitanti hanno udito l’annuncio e hanno visto i miracoli, ma non si sono convertiti, mentre Tiro e Sidone, città pagane, avrebbero accettato il vangelo. Il giudizio su Cafarnao è poi particolarmente severo. Citando Isaia 14, 13-15 – un testo ironico sulla caduta del re di Babilonia – Gesù accusa la città di essere arrogante e idolatra come Babilonia.

Per chiudere il discorso, Gesù si rivolge nuovamente ai missionari ricordando loro un principio del giudaismo rabbinico: “L’inviato di un uomo è come se fosse lui stesso”. Ascoltare l’inviato, cioè accogliere il suo insegnamento e metterlo in pratica (6,47), è come ascoltare Gesù in persona, che a sua volta è l’inviato del Padre. Allo stesso modo, contrastare l’inviato è in definitiva opporsi al disegno salvifico di Dio stesso.

TORNA ALL'INDICEe)     Il ritorno dei settantadue (10, 17-24)

Gli inviati riferiscono al Signore il loro successo negli esorcismi. Il potere di guarigione che Dio ha dato a suo Figlio, si è dimostrato efficace in loro quando hanno invocato il nome di Gesù (cf. At 3,6).

Gesù esprime in modo simbolico la propria convinzione che gli esorcismi testimoniano l’impero del male crolla. E ne esporrà i motivi in 11,20: il regno di Dio sta sopraggiungendo e occupa il posto di Satana. Ormai i discepoli possono confrontarsi senza timore con le diverse manifestazioni del male, poiché esse sono sottomesse a un potere che proviene da Gesù stesso.

Ma il vero motivo della gioia dei rappresentanti di Gesù non va cercato però nel loro potere sulle forze infernali, ma nel fatto che Dio ha scritto i loro nomi nel libro della vita che non avrà fine.

Pieno di gioia per la venuta del regno testimoniata dagli esorcismi, Gesù pronuncia allora un rendimento di grazie al Padre, che si rivela ai “piccoli”.

Quando Gesù parlava, l’espressione “i sapienti e gli intelligenti” designava le élites religiose di Israele, rabbini e farisei che restavano ciechi di fronte all’annuncio di Gesù. I “piccoli”, invece, erano gli uomini senza cultura, senza competenza religiosa.

Infine Gesù si rivolge ai discepoli (“volgendosi ai discepoli, in disparte”), i quali devono essere consapevoli della fortuna che li ha raggiunti, cioè la fortuna di vedere la vittoria sul male (la caduta di satana), la fortuna di essere chiamati alla conoscenza del Padre e del Figlio e la fortuna di constatare che le valutazioni di Dio capovolgono le valutazioni degli uomini.

TORNA ALL'INDICEf)      Il buon samaritano (10, 25-37)

Il tema del discepolato continua con un quesito posto da un dottore della legge che chiede a Gesù cosa debba fare per avere la vita eterna. La risposta di Gesù indica quale dovrebbe essere la condotta del vero discepolo.

Le due direzioni dell’amore – a Dio e al prossimo – si toccano profondamente, ma non al punto da far scomparire la differenza. La misura dell’amore di Dio è la totalità, la misura dell’amore del prossimo è “come te stesso”. Anche nell’amore Dio resta Dio e il prossimo resta il prossimo.

La scriba ha risposto bene perché si è riferito a un testo del Deuteronomio (6,5) e a un testo del Levitico (19,18), ma il Dottore della legge desidera che il concetto di “prossimo” sia ulteriormente precisato perché vuole essere sicuro di ottenere la vita eterna.

Nella parabola, un sacerdote e un levita, evitano di soccorrere il ferito, non tanto per durezza di cuore, quanto piuttosto per il desiderio di mantenere la propria purezza cultuale. Era infatti prescritto – ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio – di mantenersi puri, e il sangue contaminava. Ma Gesù fa intendere che il culto non deve essere a scapito della carità e la purezza che Dio vuole è la purezza dal peccato, dall’ingiustizia, non dal sangue di un ferito. E’ chiaro che Gesù non intende negare il valore del culto e della preghiera, ma vuole semplicemente ricordare che occorre stare attenti che il culto non distragga dai doveri dell’amore e della giustizia.

Come modello Gesù non prende un fariseo osservante ma un samaritano disprezzato. Nella parabola nulla è detto del ferito: non viene evidenziata la sua identità, ma il suo bisogno. Il “prossimo” è qualsiasi bisognoso che ti capita di incontrare, anche uno sconosciuto. Questa universalità della nozione di prossimo ha il suo fondamento nell’intero vangelo e cioè nell’universalità dell’amore di Dio. Il problema non è tanto quello di chiedersi chi sia il mio prossimo, quanto piuttosto quello di farsi prossimo di chiunque si incontra sulla propria strada.

TORNA ALL'INDICEg)    Marta e Maria (10, 38-42)

Luca ha collocato questo episodio subito dopo la parabola del samaritano per illustrare le due facce dell’unico comandamento: l’amore per il prossimo e l’amore per il Signore. Nei confronti del prossimo il servizio e la carità, nei confronti del Signore l’ascolto e il discepolato.

Le parole con le quali Gesù risponde a Marta ricordano che il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l’ascolto. Il servizio della tavola non è più importante dell’ascolto della Parola, come suggerisce anche un passo degli Atti degli Apostoli (6, 1-2).

Affannarsi e agitarsi è l’atteggiamento dei pagani (12,29), non perché è pagano l’oggetto della ricerca (in questo caso Dio e il prossimo), ma è pagano il modo di cercare: affannoso, inquieto, agitato.

La ragione di tanta agitazione sono le “troppe cose” (10,41), la tensione, cioè tra il troppo e l’essenziale, il secondario e il necessario. Il troppo è sempre a scapito dell’essenziale. Le troppe cose impediscono non soltanto l’ascolto, ma anche il vero servizio. Fare molto è segno di amore, ma può anche far morire l’amore. L’ospitalità ha bisogno di compagnia, non soltanto di cose. Perfino il troppo “dare”, anche per amore, rischia di togliere spazio elle relazioni.

TORNA ALL'INDICEh)    Il Padre Nostro  (11, 1-13)

E’ l’esempio di Gesù che fa nascere nei discepoli il desiderio di pregare e Luca facendo scaturire la preghiera del discepolo da quella di Gesù, vuole ricordarci che la nostra preghiera deve assomigliare a quella di Cristo.

Il Padre nostro è soprattutto la preghiera del discepolo (“Quando pregate dite”), cioè di colui che ha lasciato tutto per seguire Gesù e ha fatto del Regno l’unica ragione della sua esistenza. Questa preghiera non è una formula fissa da trasmettere con fedeltà letteraria, ma atteggiamento interiore di povertà e dipendenza.

“Padre”: nella sua brevità (Matteo aggiunge invece “nostro” e “che sei nei cieli”) Luca indica che la preghiera del discepolo ha lo stesso tono e la stessa confidenza di quella di Gesù. L’invocazione “Padre” – priva di ogni altro aggettivo – è infatti tipica sulle labbra di Gesù: esprime la sua filiazione (22,42; 23, 34.36). Il discepolo deve pregare in unione a Cristo, in qualità di figlio. Sta proprio in questo rapporto di figliolanza l’originalità cristiana (Gal 4,6; Rm 8,15).

“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”: il verbo è al passivo, secondo l’uso ebraico ciò significa che il protagonista è Dio, non l’uomo. La preghiera è semplicemente un atteggiamento che fa spazio all’azione di Dio. L’espressione “santificare il nome” deve essere letta alla luce dell’Antico Testamento, in particolare di Ez 36, 22-29. Non indica un riconoscimento generico di Dio, ma un permettere a Dio di svelare il suo volto nella storia della salvezza e nella vita della comunità. Il discepolo prega perché la comunità diventi un segno trasparente che lascia scorgere la presenza di Dio. Per capire la seconda invocazione (“venga il tuo regno”) bisogna rifarsi a tutta la predicazione di Gesù. Il Regno di Dio ha una presenza oggi e ha, allo stesso tempo, un compimento alla fine. L’uso dell’aoristo (“venga”) sta a indicare che qui si ha di mira lo stadio ultimo (escatologico) del Regno. Il discepolo chiede e aspetta tutto questo come un dono ma insieme chiede il coraggio di costruirlo.

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: il verbo (“dacci”) è all’imperativo presente e indica un’azione ripetuta, giorno per giorno. C’è qui un riferimento alla manna, il pane del cielo che aveva rifocillato il popolo di Dio durante l’esodo, ma i giudei si aspettavano un nuovo pane offerto come nutrimento alla comunità degli ultimi tempi.

“Perdonaci i nostri peccati”: Luca ha cambiato il termine “debito” che ai greci non sarebbe apparso nel suo significato religioso, con il termine “peccato”. Ma ha conservato però il termine “debito” per indicare il perdono al prossimo ( qui il termine “debito” è carico di significato concreto: bisogna condonare anche i debiti, non solo le offese morali). Il perdono di Dio precede il nostro, si modella sul suo e ne è la risposta.

“Non lasciarci soccombere nella tentazione”:  di quale tentazione si parla? In Luca questo termine “peirasmos” orienta in tre direzioni:

a)     La tentazione di Gesù nel deserto (4, 1-11) che secondo Luca è il tipo delle   tentazioni della chiesa: la continua scelta tra il servizio, la debolezza della croce, e la ricerca della sicurezza umana.

b)    Le tentazioni che la comunità credente incontrerà nel tempo della passione e della persecuzione, del dubbio e del turbamento (cfr. 22,28). Gesù ha pregato perché i discepoli non abbiano a soccombere: ma è necessario, a differenza di Pietro, che il discepolo non sia presuntuoso.

c)     Infine tentazione è tutto ciò che può appesantire il cuore del discepolo così che la Parola viene in esso soffocata: tentazioni sono le prove quotidiane che, alla lunga, logorano il coraggio iniziale (8, 13-14). Il discepolo chiede di essere liberato da tutto questo. Non chiede di essere esente dalla tentazione, ma di essere aiutato a superarla.

La parabola successiva (11, 9-13) indirizzata ai discepoli (“E disse loro”), fa parte di una più ampia catechesi sulla preghiera, il cui centro è costituito dal Padre nostro. La conclusione che Gesù trae dalla parabola è la certezza di essere esauditi. Come è certo che quell’amico, per una ragione o per l’altra, finirà con l’alzarsi, così è certo che Dio ascolta chi lo prega.

A questo punto, però, sorge una domanda che Luca avverte nella sua catechesi: se è vero che l’ascolto è certo, perché l’uomo non ottiene da Dio ciò che gli chiede? L’evangelista risponde che Dio ascolta sempre, ma a modo suo.

I paragoni a cui Gesù ricorre per illustrare questo concetto sono sorprendenti e catturano l’attenzione: l’uomo è come un bambino che a volte non sa quello che chiede, e Dio è come un padre che non concede sempre al figlio ciò che questi gli domanda: gli dà soltanto ciò che sa essergli utile.

C’è però un dono che Dio non nega mai: lo Spirito Santo (11,13).

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