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VANGELO DI LUCA

Ultimo Aggiornamento: 23/11/2008 16:21
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23/11/2008 16:15

q)    Ostilità di Erode (13, 31-35)

Gesù sta attraversando il territorio di Erode, che è una volpe, un uomo furbo, ma anche un uomo vile. Egli crede di sbarazzarsi di Gesù con l’astuzia, così come aveva fatto con Giovanni Battista. Ma Gesù va in Giudea non perché l’ha stabilito Erode, ma perché rientra nel piano di Dio: come tutti i profeti Gesù deve morire a Gerusalemme. Il cammino di Gesù non dipende da Erode né da nessun altro: è guidato da una divina necessità: “E’ necessario”.

Più avanti Luca ricorderà che Gesù ha pianto su Gerusalemme (19, 41-449. Qui, invece, dopo aver detto che la città lo avrebbe rifiutato e ucciso, afferma tre cose.

-         La prima è che il suo rifiuto non è un fatto isolato, ma inserito in una lunga storia di incomprensioni, di tradimenti e di assassini dei profeti. Gesù legge il suo martirio alla luce del martirio dei profeti.

-         La seconda cosa è che il suo rifiuto non è uno qualsiasi, ma il più decisivo. Per questo la condanna sarà più severa: la città di Dio resterà abbandonata. C’è qui un riferimento a Ger. 22,5.

-         La terza affermazione ricorda che non c’è soltanto l’ostinazione del rifiuto, ma anche l’ostinazione dell’amore del Signore, più premuroso dell’amore di una chioccia che protegge i suoi pulcini sotto le sue ali. La Croce di Gesù è, da una parte, il culmine del rifiuto, ma è al tempo stesso, il culmine dell’amore.

TORNA ALL'INDICEr)     Banchetto lucano (14, 1-24)

Luca organizza del materiale eterogeneo con un’unità esterna ed interna. Per quanto concerne l’unità interna, tutti gli episodi o narrazioni gravitano attorno a un banchetto. L’unità esterna, invece, è puramente redazionale, sempre imperniata sul banchetto. Luca collega la varie parti anche mediante una progressione cronologica artificiosa: essi entrano per mangiare (v. 1); scelgono i loro posti a tavola (v. 7); per un pranzo o una cena (v. 12); per una cena (v. 16). In tutto ciò, Luca segue le norme dello stile greco classico.

Questa sezione inizia con la guarigione di un idropico in giorno di sabato. L’episodio accade nella casa di un fariseo e Luca è il solo evangelista che racconta la presenza di Gesù a pranzo dai farisei (cfr. 7,36). Questo sta a significare che non tutti i farisei erano avversari di Gesù, come a volte si pensa. Questi incontri, tuttavia, non erano mai privi di tensione, come appunto mostra questo stesso episodio (14, 1-6). Le due domande poste da Gesù ai dottori e ai farisei tendono a smascherare la loro ipocrisia: è più importante un uomo o un asino? A una domanda così lucida non si può controbattere: o ci si arrende accettandone la verità, o ci si chiude in un silenzio ostile, tanto più ostile quanto più ci si accorge che l’avversario ha ragione: “Ed essi non seppero come replicare a questi argomenti”.

Nel secondo episodio del banchetto lucano (14, 7-11), Gesù non intende dare una lezione di galateo, ma prendendo lo spunto dalle buone maniere della tavola egli trae conclusioni concernenti il Regno di Dio: la partecipazione al banchetto dipende da un invito da parte di Dio, che invita coloro che riconoscono la loro umile condizione e il loro bisogno di salvezza.

Il consiglio che Gesù dà al padrone di casa (14, 12-14), è rivoluzionario, contrario a tutti gli usi abituali. Luca enumera, come invitati, tutte le categorie di emarginati: questo è il comportamento nuovo. Di fronte a Dio nessuno è emarginato, ma ciascuno è prossimo.

Nell’ultimo episodio: la parabola del grande banchetto (14, 15-24), Gesù invita tutti a entrare nel Regno di Dio. C’è chi rifiuta (scribi e farisei) e c’è chi accetta (peccatori ed emarginati). Gli invitati rifiutano ritenendo di avere cose più importanti da fare, come: aver cura dei propri affari, del lavoro e della famiglia, si tratta di occupazioni plausibili, persino doverose. Ma anche queste occupazioni doverose, se si assolutizzano, distraggono dall’accoglienza del regno: questo è il forte avvertimento della parabola. Nulla viene prima del regno di Dio e nulla è più importante: il padrone non attende, se gli uomini non rispondono subito al suo invito, egli occupa subito i loro posti con altre persone.

TORNA ALL'INDICEs)     Appello alla rinuncia (14, 25-35)

Non siamo più nella casa del fariseo durante un pranzo, ma sulla strada e Gesù non parla più a scribi e farisei, ma alla folla “che andava con Lui”.

Come appare dalle parole di apertura (14,26) e di chiusura (14,33), il tema è la “condizione necessaria per essere discepolo”.

Non è certamente un tema nuovo, ma è trattato con una forza e una radicalità che è difficile trovare altrove. La radicalità è un tratto caratteristico di Luca, ma un secondo tratto, tipicamente lucano, è lo sforzo di calare il messaggio di Gesù nel quotidiano.

Gesù invita il discepolo a rompere tutti i legami familiari, a rompere perfino il legame con se stesso (14,26).

L’inquietante invito di Gesù era senza dubbio, in origine, rivolto ai discepoli missionari itineranti, i quali, concretamente, dovevano abbandonare tutto per annunciare dovunque l’arrivo del regno. Matteo si mantiene in questa linea, collocando il detto nel discorso missionario, ma la comunità ha poi inteso questo detto come rivolto a tutti: è una condizione di ogni discepolo, non solo del missionario itinerante. E’ in questa seconda prospettiva che si pone Luca: l’invito è rivolto alle folle (14,25), cioè a tutti. Luca è più minuzioso nell’elencare i legami da rompere: non solo, come Matteo, i genitori e i figli, ma anche i fratelli, la moglie e perfino se stessi.

Anche le parabole che seguono (della torre e del re) devono essere lette nel contesto delle condizioni per seguire Gesù, cioè nel contesto della rinuncia: la sequela non è fatta per i superficiali, per gli irriflessivi e per i presuntuosi.

La conclusione (“così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo”) è probabilmente redazionale, costruita da Luca come conclusione delle due parabole e dell’intera pericope. Solo nel distacco dai beni è possibile essere discepoli, è possibile il dono totale (finire la torre e vincere l’esercito nemico).

Il paragone del sale (14, 34-35) – che sembra apparire qui all’improvviso – è in realtà una conclusione indovinata: non si può essere discepoli a metà. Se il discepolo non si dona nella sua completezza, è come il sale che perde sapore: non serve a nulla.

TORNA ALL'INDICEt)      Le tre parabole della misericordia (15, 1-32)

In questo capitolo Luca presenta tre parabole che hanno in comune la nota della misericordia divina verso i peccatori, egli ci offre in tal modo l’intima natura, il perfetto esempio della buona notizia: il vangelo nel vangelo. Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro e questo gli procura critiche e mormorazioni. E’ questo uno dei punti di costante tensione fra Gesù e i suoi avversari, come tutto il vangelo testimonia. Un primo esempio lo abbiamo già trovato in 5, 29-32 (la chiamata di Levi).

L’annotazione introduttiva alle tre parabole del capitolo 15 ricorda che l’accoglienza dei peccatori era un comportamento abituale di Gesù, come suggeriscono i verbi all’imperfetto: “Si facevano vicini a lui tutti i pubblicani e i peccatori”. Ma si tratta di un comportamento che spesso irrita i giusti: non soltanto quelli del tempo di Gesù (“scribi e farisei mormoravano”), ma anche i cristiani successivi, come Luca spesso ricorda negli Atti degli Apostoli (11,13). Non è che i farisei escludessero definitivamente i peccatori, volevano però che il comportamento di Dio nei loro confronti fosse severo e che, di conseguenza, i peccatori per ritornare nella comunità dovessero pagare un prezzo di penitenza, di opere e di osservanze. Non accettavano dunque il comportamento benevolo di Gesù, che rivela il vero volto del Padre, che attende i peccatori, li cerca e gioisce del loro ritorno. Ma a volte i “giusti” hanno invidia di questa misericordia di Dio e ne restano irritati: vorrebbero un altro tipo di padre, più severo, più giudice, meno padre.

In tutte e tre le parabole viene messa in evidenza la gioia di Dio per la conversione del peccatore.

1)     Nella conclusione della prima si legge: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza”.

2)     Nella conclusione della seconda: “C’è gioia davanti a Dio per un solo peccatore che si converte”.

3)     Nella terza parabola manca la parola gioia, però si parla di festa: “Facciamo festa, poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita”.

Dunque l’attenzione delle parabole si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore, non sull’azione del peccatore che si converte. Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare, il discorso è teologico non morale. La novità della rivelazione evangelica riguarda in primo luogo il comportamento di Dio (un Dio che cerca il peccatore e gioisce del suo ritrovamento), non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo.

TORNA ALL'INDICEIl pastore e la pecora

La parabola della moneta perduta e ritrovata (15, 8-10) è meno importante delle altre due: ripete semplicemente la prima, non aggiungendovi nulla. Diverso è invece il caso della parabola del pastore e della pecora (15, 4-7). Pastore e gregge sono un tema classico dell’AT. Il ritrovamento della pecora smarrita è un tratto abituale della salvezza: Mi 4, 6-7; Ez 34, 11-16, Ger 23, 1-4. Dio è il pastore che si oppone ai capi del popolo che sono “cattivi” pastori: cercano e difendono se stessi anziché servire il gregge e avere compassione di coloro che si smarriscono.

Questa parabola, oltre allo sfondo veterotestamentario, ha anche un parallelo in Matteo (18, 12-24), la cui prospettiva, però, è molto diversa. Matteo non inserisce la parabola in una polemica con i farisei, ma all’interno di una regola di comportamento per la comunità. Non insiste particolarmente sulla gioia del ritrovamento, ma sulla ricerca da parte del pastore. Così il punto di vista di Matteo si chiarisce: un invito alla comunità ecclesiale, e in particolare ai suoi responsabili, perché vadano alla ricerca degli smarriti, imitando in questo il Signore Gesù. Luca, invece, come già abbiamo detto, racconta la gioia di Dio nel ritrovare la pecora.

TORNA ALL'INDICEIl Padre e i due figli

Da qualunque angolatura si guarda la parabola del Padre e dei due figli (15, 11-32), ci si accorge che al centro c’è sempre la figura del padre, che dà unità all’intera narrazione. Il punto su cui la parabola concentra l’attenzione è come Dio si pone di fronte ai due figli – il peccatore e il giusto – e come i due figli si pongono davanti a Lui. In ambedue i casi, c’è un netto contrasto; qui sta la novità della teologia di Gesù. E’ in gioco il vecchio e il nuovo, il vino e gli otri, non c’è spazio per alcun rattoppo.

L’attenzione, dunque, indugia sulla figura del padre. Egli non cessa di amare il figlio che si è allontanato e continua ad attenderlo. A lui non interessa che il figlio gli abbia dissipato il patrimonio. Ciò che lo addolora è che il figlio sia lontano, a disagio. Quando il figlio ritorna, il padre gli corre incontro e gioisce del suo ritorno; quel figlio deve subito capire che nulla è cambiato nei suoi confronti: è un figlio, come sempre e quella casa è la sua casa. E’ questo il vero volto di Dio, il volto di un padre e basta, che Gesù ha inteso rivelare con la sua incondizionata accoglienza dei peccatori.

Il figlio minore esce di casa non perché ha bisogno di lavoro (il padre è ricco, ha campi e braccianti), ma perché vuole organizzarsi una vita indipendente. Lo stare in casa gli pesa come una schiavitù. Un vero padre è amore, ma è sempre anche  legge. E questo può a volte insinuare nei figli che egli sia un padrone, anziché un padre. Il peccato del figlio non è la vita libertina condotta lontano da casa. Questa è la conseguenza di un peccato precedente e più profondo, il peccato di pensare alla casa come a una prigione, la presenza del padre come ingombrante e mortificante e l’allontanamento dal padre come libertà. Questo è il vero peccato, la radice di tutte le infedeltà.

Ma è proprio con la partenza da casa che inizia la degradazione: una vita disordinata, poi la fame, poi il servizio presso un padrone pagano, poi l’umiliazione di pascolare i porci. Questo disagio del figlio peccatore non è un castigo inflitto dal padre (o da Dio), ma è una situazione in cui il figlio stesso si è posto. Un disagio che serve per risvegliare la sua coscienza e difatti il cammino di ritorno inizia con un mutamento interiore. Questo figlio non conosce ancora suo padre: è convinto di aver perso l’amore del padre e che debba di nuovo meritarselo lavorando come un servo. E invece il padre non ha mai smesso di amarlo, e quando il figlio gli chiede perdono, non lo lascia neppure parlare: il suo amore è prima del pentimento del figlio. Il padre è completamente diverso da come il figlio immaginava. La veste più bella, l’anello al dito, i calzari sono tutti segni dell’essere figlio. Il padre glieli offre prontamente, ma non per dirgli: sei di nuovo mio figlio, ma per dirgli: lo sei sempre stato.

Il figlio maggiore, anziché godere della gioia del padre, ne prova irritazione. La gioiosa accoglienza riservata al fratello minore gli dà l’amara sensazione che la sua fedeltà di rimanere in casa sia del tutto sprecata. Se il peccatore è trattato in quel modo, a che serve essere giusti? Questo figlio giusto e osservante non conosce suo padre e ragiona come se la fedeltà fosse un peso e la compagnia del padre una fatica. Assomiglia agli scribi e farisei che mormoravano perché Gesù accoglieva i peccatori.

Lo stesso amore che ha spinto il padre a correre incontro al figlio minore, lo spinge ora a uscire e a pregare il figlio maggiore di lasciar perdere le proprie rimostranze e di far festa insieme. Il padre vorrebbe riunire i due figli, unendoli a sé e tra di loro. Vorrebbe che scoprissero la sua paternità e la loro fraternità. Così è Dio.

Il figlio maggiore si è lasciato convincere? E’ entrato in casa a far festa? Non lo sappiamo. La conversione del giusto è, a volte, più difficile di quella del peccatore.

TORNA ALL'INDICEu)    Il cristiano e la ricchezza (16, 1-31)

In tutto il capitolo 16 – ad eccezione di una parabola sulla legge (16, 16-17) e di una parola sul divorzio (16,18) – Luca sviluppa il tema dell’uso cristiano della ricchezza. Non è il denaro che è di per sé negativo, ma l’accumulo della ricchezza. Il denaro ha due facce, una positiva e una negativa. È nato per servire l’uomo, ma ha la tendenza a trasformarsi in padrone.

TORNA ALL'INDICE- Il fattore astuto (16, 1-18)

La parabola dell’amministratore scaltro ha sempre suscitato perplessità in molti lettori: possibile che il vangelo presenti un uomo disonesto come un modello da cui imparare? In effetti da una lettura più attenta le cose non stanno proprio così. Difatti Gesù non approva la falsificazione dei conti, ma l’elogio si riferisce alla “scaltrezza” e all’accortezza del comportamento, non alla disonestà. Si tratta di un’esortazione  che suggerisce ai discepoli come usare il denaro: con accortezza e nella prospettiva del regno. Se l’amministratore disonesto ha saputo servirsi delle ricchezze di questo mondo per farsi degli amici e provvedere così al suo futuro su questa terra, quanto più il cristiano deve pensare al suo avvenire eterno adoperando i suoi beni per aiutare quelli più poveri di lui, in modo che essi lo accolgono un giorno nel regno futuro (14,14).

Considerare il denaro come un mezzo e non come un fine vuol dire dimostrarsi scaltri. La ricchezza è “ingiusta”, ingannatrice perché può essere idolatrata e paragonata ai beni del regno futuro che sono veri ed eterni. Il regno del denaro avrà una fine… Alla disonestà che qualificava l’amministratore e il denaro, la parabola oppone la fedeltà richiesta giorno per giorno per amministrare sia i beni spirituali che quelli materiali.

Ma qui vengono improvvisamente introdotti come ascoltatori anche i farisei. E quanto si dice di loro è una sferzante ironia: “I farisei amavano il denaro”. Diversamente da Gesù, essi pensavano che i due servizi – al Signore e al denaro – potessero coesistere. Per molti di loro la ricchezza era il premio delle persone giuste, la povertà, il castigo dei peccatori. Ragionando in questo modo, si poteva servire Dio e il denaro. Tanto più che, secondo i farisei, si dà gloria a Dio con le osservanze e con le offerte al tempio. Per Gesù, invece, la gloria di Dio consiste nel mettersi a servizio dei fratelli.

Seguono poi tre detti indipendenti di Gesù (vv. 16-18) raggruppati qui sotto la parola-richiamo “legge”. Non è facile capire perché Luca le abbia inserite qui. In Mt 11,12 questo detto ha un contesto tutto diverso: rientra nel commento di Gesù su Giovanni il Battista.

Nel primo detto, Luca vede tre periodi della storia della salvezza: la legge e i profeti, Giovanni Battista e il Regno di Dio nella presenza di Gesù. Ma chi sono coloro i quali vogliono penetrarvi a forza? Forse si allude alla rottura violenta con se stessi e con l’ambiente e al radicalismo già illustrato attraverso l’esempio del fattore astuto.

Il secondo detto asserisce che la legge nel suo spirito autentico viene completata sotto ogni aspetto in Gesù, che non abolisce la legge antica, ma ne esprime il senso più profondo.

Il terzo detto è sul divorzio. Luca a differenza di Marco (10,11), non accenna ad alcuna eccezione sul divorzio.

TORNA ALL'INDICE- Il ricco e Lazzaro (16, 19-31)

In questo racconto riportato solo da Luca, Gesù si rivolge ai farisei, i quali pensavano di essere giusti solo perché osservavano meticolosamente la legge (11,37). Nella parabola c’è un duplice contrasto, al primo: il ricco e il povero, ne segue un secondo: il ricco all’inferno e Lazzaro nel regno di Abramo. Il primo elemento saliente della parabola è proprio questo capovolgimento: Dio giudica diversamente da noi e la storia va a finire diversamente da come i furbi immaginano. Aggiungiamo che, con ogni probabilità, viene qui contestata una convinzione diffusa in quel tempo: la ricchezza è segno della benevolenza di Dio. La parabola vuole, invece, insegnare che Dio è dalla parte dei più poveri e degli abbandonati.

Ma il racconto parabolico non si ferma qui. Segue un secondo quadro, nel quale è detto qualcosa di molto importante. Il ricco vorrebbe che i suoi fratelli fossero avvertiti della sua situazione, ma a quale scopo? Hanno Mosé, i profeti, non occorre altro. Gli insegnamenti non mancano, ciò che invece manca è il coraggio, la fede, ma soprattutto la libertà per vedere e comprendere. Chi vive da ricco è cieco e non vede il povero che pure gli sta accanto. Il ricco della parabola non osteggia Dio e non opprime il povero: semplicemente non lo vede. Ma proprio questo è il grave pericolo: il vivere da ricchi rende ciechi e indifferenti.

TORNA ALL'INDICEv)     Lo scandalo, il perdono, e la fede (17, 1-10)

Nelle sue istruzioni ai discepoli e alle folle che lo seguono lungo la strada, Gesù ha ripetutamente parlato delle dure esigenze che comporta il seguirlo. Le possiamo riassumere in due affermazioni: “Chi non preferisce me al padre, alla madre, alla moglie e ai figli, ai fratelli e alle sorelle e perfino alla propria vita non può essere mio discepolo” (14,26); e poi l’altra: “Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (14,33).

Ora il discorso verte sulle condizioni che rendono possibile la sequela: la fede e l’umiltà. Non è più il discepolo sulla scena ma l’intera comunità.

Lo scandalo (17, 1-3) nel vocabolario biblico non è semplicemente un cattivo esempio morale, ma un ostacolo al regno, un inciampo, qualsiasi cosa in grado di ostacolare la totale adesione a Gesù e al suo messaggio. La chiesa deve essere per tutti, soprattutto per i “piccoli”[36], un ambiente che faciliti la fede, non che la ostacoli. La severa condanna di Gesù è rivolta a quanti, all’interno o all’esterno, tentano di ostacolare la fede. Ma, soprattutto, è condannabile lo scandalo all’interno della comunità. Che la logica del mondo cerchi di ridurre la credibilità del vangelo è ovvio, ma cosa pensare quando lo scandalo viene da coloro che si vantano di essere testimoni di Cristo?

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