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VANGELO DI LUCA

Ultimo Aggiornamento: 23/11/2008 16:21
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j)      La crocifissione (23, 33-43)

Il Crocifisso di Luca non sta in silenzio, ma parla: alle folle, al Padre, al ladrone pentito. La prima parola di Gesù è stata per le donne, invitandole alla conversione. La seconda parola è per i suoi crocifissori: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (23,34). Gesù non solo perdona, ma scusa. Non muore minacciando il giudizio di Dio, ma perdonando e scusando. Il perdono non è certo solo rivolto ai romani, ma anche agli ebrei, a tutti. Questa misericordia di Gesù non sorprenda il lettore. Tutta la passione secondo Luca è infatti attraversata dalla misericordia: il gesto di Gesù che guarisce l’orecchio del servo del sommo sacerdote, lo sguardo a Pietro che lo rinnega, la parola del perdono ai crocifissori.

Morire perdonando è un tratto del martire cristiano. Luca lo ricorderà negli Atti degli Apostoli, raccontando il martirio si Stefano (7,60). Gesù sulla croce, però, non  è solo la figura del martire che perdona, ma la figura dell’amore di Dio  per l’uomo, non semplicemente dell’amore dell’uomo per Dio.

Ai piedi della croce ci sono il popolo, i capi dei giudei e i soldati. Ma l’attenzione non è mai distolta dal Crocifisso: a lui si guarda e di lui si parla, in questione è sempre la sua identità. Il popolo sta immobile a guardare, un guardare interessato, partecipe (theorein), non semplicemente curioso o indifferente. I capi e i soldati lo schernivano ripetutamente. I verbi usati sono di derisione per la sua pretesa messianica e il suo considerarsi amato da Dio con amore di predilezione (l’eletto). I soldati, invece, canzonano per la sua pretesa regalità. Collocato in questo punto preciso, anche il cartello con l’iscrizione della condanna sembra enfatizzare lo scherno.

Così sulla croce Gesù è raggiunto per l’ultima volta dalla tentazione, che però non è più Satana, ma dei capi, dei soldati, e subito dopo anche del malfattore crocifisso con lui: se sei l’eletto di Dio, perché non ti aiuta? Il suo silenzio non è la prova del tuo errore? Il fallimento della strada dell’amore che hai percorso non è il segno che la via di Dio è un’altra? Ma a queste domande il Crocifisso non risponde. Il silenzio di Dio è il segno di un altro modo di farsi presente e di parlare.

Luca prosegue raccontando una dopo l’altra le reazioni dei due malfattori “appesi” con lui. Le due figure sono radicalmente contrapposte. Il primo malfattore è probabilmente un indomabile zelota, che anche nella morte resta fedele alla sua scelta di ribellarsi al dominio straniero per instaurare il regno di Dio. Per lui un Messia che muore in croce e non salva se stesso, né quelli che hanno lottato per la sua causa, rappresenta uno sconfitto. Diversamente dal primo, il secondo malfattore confessa senza attenuanti la propria colpa, riconosce l’innocenza di Gesù e si affida a lui. Accogliendolo prontamente, Gesù compie nella sua morte ciò che ha fatto lungo tutta la vita: accogliere i peccatori (15,2). E mostra, al tempo stesso, che la sua salvezza è diversa da quella sognata dai capi, dai soldati e dal malfattore ostinato.

Si noti la solennità della promessa di Gesù (“in verità”) e la sua sicurezza (“ti dico”). Qui Gesù non prega, non chiede a Dio, ma garantisce una vita di comunione con lui (“sarai con me”) e subito (“oggi”).

TORNA ALL'INDICEk)    La morte di Gesù (23, 44-49)

Il grido di Gesù morente (23,46) riprende la preghiera del Salmo 31: è la preghiera piena di confidenza in Dio, che i rabbini raccomandavano di recitare la sera. E’ la preghiera di un povero abbandonato, smentito, che proclama la sua unica fiducia in Dio. Morire serenamente, fidandosi di Dio, è un altro tratto essenziale del martire cristiano (prima abbiamo ricordato quello del morire perdonando).

Diversamente da quanto raccontano Marco e Matteo, per Luca la vita di Gesù non finisce con un tragico interrogativo, ma nella serena convinzione di un compimento. Serenità, fiducia e abbandono, questi sono i sentimenti di Gesù morente. Come per Gesù, anche per noi non c’è stata salvezza dalla morte, ma una salvezza nella morte.

A sottolineare la “singolarità” della morte di Gesù ci sono i “segni” (le tenebre e la rottura del velo del tempio) che la precedono e le “reazioni” (del centurione e della folla) che la seguono. Luca dispone i particolari narrativi in modo che i segni straordinari accompagnino la morte di Gesù, non la seguano. Spiegano il significato di quella morte, ma non ne sono il frutto. L’evangelista non vede nelle tenebre un simbolo biblico, ma un fatto reale, per sottolineare la straordinarietà dell’evento e non il suo significato biblico.

Frutto della morte di Gesù sono il riconoscimento del centurione pagano (23,47) e la commossa partecipazione della folla (23,48). Dei conoscenti e delle donne, che lo avevano seguito dalla Galilea, si dice soltanto che assistevano da lontano: sono presentati nell’atteggiamento dei testimoni, non dei convertiti. Ciò che converte è la morte “svelata” nel suo significato di perdono e di fedeltà a Dio.

TORNA ALL'INDICEl)       La sepoltura (23, 50-56)

Deposto dalla croce, il corpo di Gesù viene avvolto in un lenzuolo, ma non si parla né di pulizia del cadavere né di unzioni (come dirà Gv 19,40). Precisando che è la vigilia di Pasqua – il nostro venerdì – Luca spiega per quale motivo il rito funebre risulta piuttosto ridotto, non portato a conclusione.

Il racconto della sepoltura lascia intendere che i discepoli non sono presenti. La sepoltura chiamerà in causa un nuovo personaggio del racconto, Giuseppe d’Arimatea, uomo ricco (possiede un sepolcro vuoto), un membro autorevole del sinedrio (ha l’autorità di presentarsi a Pilato), virtuoso e giusto, osservante della legge, è un pio giudeo che, sotto questo aspetto, ricorda Simeone.

Queste presenze positive, in qualche modo inaspettate, danno ancor più risalto alla totale assenza dei discepoli.



TORNA ALL'INDICEC.  LA RISURREZIONE E L’ASCENSIONE (24, 1-53)


Il confronto tra i quattro racconti evangelici della risurrezione può suscitare nel lettore molta perplessità. Tra le quattro narrazioni sussistono, infatti, numerose discordanze. Soltanto Matteo, ad esempio, ricorda l’episodio delle guardie poste a custodia della tomba. Luca colloca le apparizioni del Risorto in Giudea, Matteo in Galilea. Matteo e Marco parlano di un angelo, Luca e Giovanni di due. Giovanni, poi, segue uno schema completamente suo.

E’ chiaro che gli evangelisti si sono permessi nei riguardi degli eventi pasquali molta più libertà che nei racconti della passione. Sono evidentemente interessati al significato teologico degli eventi. Bisogna dunque leggere questi racconti nella loro ottica, non nella nostra. Questo non impoverisce la realtà degli eventi, ma l’arricchisce. La storicità non viene dissolta, al contrario viene approfondita, cogliendo i fatti nel loro significato salvifico, non solo nel loro accadimento.

Luca ha ordinato le varie tradizioni di cui disponeva in una narrazione letterariamente unita e tematicamente coerente. I racconti sono orientati verso il futuro, verso la chiesa. Si direbbe che Luca stia preparando i temi da svolgere poi negli Atti degli Apostoli.

TORNA ALL'INDICEa)    Le donne al sepolcro (24, 1-12)

Nell’episodio delle donne al sepolcro, Luca introduce tre modifiche (rispetto a Marco e Matteo), tutte raccolte nelle parole degli angeli (24, 5b-6).

La Galilea viene nominata, non come luogo dell’incontro con il Risorto ma come luogo delle predizioni della passione. Le apparizioni del Risorto, infatti, sono tutte ambientate  a Gerusalemme e dintorni. Luca non ha voluto turbare lo schema geografico e teologico nel quale ha racchiuso la sua intera opera (Vangelo e Atti): il Messia sale a Gerusalemme, qui si compiono gli eventi centrali della salvezza, da Gerusalemme la salvezza riprenderà il suo cammino verso il mondo.

Accanto alla formula tradizionale “è risuscitato” (verbo che di per sé significa “risvegliato”) Luca ne utilizza anche un altro: “Perché cercate tra i morti il Vivente?”. Si tratta di una formulazione paolina, più vicina alla mentalità greca. E’ una formulazione che chiarisce, se ce ne fosse bisogno, che Gesù non è tornato alla sua vita di prima, come un uomo che si è risvegliato. Il Risorto è entrato in una condizione di vita permanente: Egli è vivo e presente nella comunità.

La modifica più importante è però un’altra: le parole degli angeli concentrano esplicitamente l’attenzione sulla necessità della passione, un motivo prediletto dell’evangelista, tanto che nel nostro capitolo lo ritroveremo ancora altre due volte (24, 26.35).

TORNA ALL'INDICEb)    I due discepoli di Emmaus (24, 13-35)

L’apparizione del Risorto ai due discepoli di Emmaus è uno degli episodi più conosciuti del vangelo di Luca. Ma è soprattutto l’episodio chiave per ricordare la catechesi lucana sulla risurrezione. Il problema sembra essere questo: dove posso incontrare il Signore risorto e come posso riconoscerlo?

Tutto il lungo racconto è costruito sullo schema di un cammino di andata e ritorno, che si trasforma in un cammino interiore e spirituale: dalla speranza perduta (“speravamo”) alla speranza ritrovata, dalla tristezza (24,17) alla gioia (24,32), dalla Croce come scandalo che impedisce di credere alla Croce come ragione per credere.

La condizione essenziale per riconoscere il Risorto - senza la quale non lo si riconosce come un compagno di viaggio - è la comprensione della necessità della Croce (24,26), che a sua volta richiede l’intelligenza delle Scritture (24,27).

La crocifissione non ha spezzato il cammino di Gesù: questa è la cecità dei due discepoli che impedisce loro di credere. Tutta la catechesi che Gesù rivolge loro non ha altro scopo che quello di capovolgere il loro sguardo. Non è Lui che deve cambiare il volto perché possano riconoscerlo: è il loro modo di vedere la sua storia che deve capovolgersi. Difatti il gesto che apre  loro gli occhi è la frazione del pane, un gesto che riporta la memoria all’indietro, alla vita di Gesù terreno qui riassunto nel ricordo della cena (una vita in dono, un pane spezzato) e alla memoria della Croce che è il compimento di quella dedizione. Ma la “fractio panis” è anche un gesto che porta in avanti, al tempo della chiesa, in cui i cristiani continueranno a “spezzare” il pane. Spezzare il pane e distribuirlo (24,30) è un gesto riassuntivo che svela l’identità permanente del Signore: del Gesù terreno, del Risorto e del Signore presente ora nella comunità. In tutte le tappe del suo cammino Gesù conserva la medesima identità, quella che è svelata nel suo cammino terreno, resta  come punto di riferimento per riconoscerlo anche come Risorto. Il discepolo che ha capito questo non ha più bisogno di “vedere”; una volta riconosciuto, il Signore sfugge al possesso, ma il discepolo ormai sa quali sono i tratti essenziali che identificano la sua presenza e quale sia il luogo in cui incontrarla.

TORNA ALL'INDICEc)     L’apparizione agli apostoli (24, 36-49)

In questa scena soltanto Gesù agisce e parla: saluta, domanda, rimprovera, mostra le mani e i piedi e, perfino, mangia davanti ai suoi discepoli. Non si dice se hanno toccato Gesù e neppure, almeno esplicitamente, se hanno creduto. Di loro, però, sono descritti i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia.

Raccontando questo episodio l’evangelista ha certamente un’intenzione apologetica (elogio in difesa di una persona o di una dottrina) Gesù offre via via prove sempre più convincenti in una sorta di itinerario progressivo che proprio qui si conclude: il sepolcro vuoto, l’apparizione degli angeli alle donne, l’incontro con i due discepoli di Emmaus, l’apparizione a Pietro e, infine, a tutti gli undici riuniti. Qui Gesù mostra le mani e i piedi, si fa vedere come una persona in carne e ossa, mangia una porzione di pesce. Gesù è veramente risorto! La sua persona è reale e concreta, non un fantasma evanescente.

Il Risorto “dischiude loro la mente per comprendere le Scritture” (24,45). Senza l’intelligenza delle Scritture il discepolo può trovarsi accanto al Signore senza riconoscere chi Egli sia. E’ la terza volta che l’evangelista ritorna su questo discorso (24,7.26.46). Qui però c’è una precisazione in più. Gli eventi rinchiusi nella divina necessità non sono due ma tre: la passione, la risurrezione, la predicazione a tutte le genti. Anche la missione è inclusa nella divina necessità, non è ai margini dell’evento cristologico, ma ne fa parte. Destinatari dell’annuncio sono “tutte le genti”, dunque l’universalità più ampia possibile. E l’annuncio deve avvenire “nel suo nome”, cioè, deve poggiare sulla sua autorità, non su altro. Contenuto dell’annuncio è la conversione e il perdono. La conversione è in primo luogo la conversione della mente, una conversione teologica: il Crocifisso è rivelazione di Dio, non sconfitta. Annunciare il perdono dei peccati è proclamare che l’amore di Dio è più grande del nostro peccato. Annunciare la Croce significa annunciare un Dio che perdona.

TORNA ALL'INDICEd)    L’Ascensione (24, 50-53)

L’Ascensione conclude la storia evangelica ma nello stesso modo  apre la storia della Chiesa (Atti 1, 9-11). Per Luca l’Ascensione ha un duplice significato.

a)     E’ un salire al Padre (“veniva portato verso il cielo”), precisando in tal modo che la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi un passo all’indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un passo in avanti, nella gloria di Dio.

b)  L’Ascensione è però descritta come un distacco, una partenza (“si staccò da loro”):       Gesù ritira la sua presenza visibile, sostituendola con una presenza nuova, invisibile e tuttavia più profonda: una presenza che si coglie nella fede, nell’intelligenza delle Scritture, nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane e nella fraternità.


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