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Quarto Concilio Lateranense

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2008 13:58
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24/11/2008 13:57

XX

Il Crisma e l'Eucarestia devono essere custoditi sotto chiave

Ordiniamo che in tutte le chiese il crisma e l'Eucarestia debbano esser conservati scrupolosamente sotto chiave, perché nessuna mano temeraria possa impadronirsi di essi profanandoli con usi innominabili. Se il custode li abbandona, sia sospeso dall'ufficio per tre mesi; e se per la sua negligenza accadesse qualche cosa di abominevole, sia assoggettato ad una pena più grave.

XXI

Della confessione, dei segreto confessionale, del dovere di comunicarsi almeno a Pasqua

Qualsiasi fedele dell'uno o dell'altro sesso, giunto all'età di ragione, confessi fedelmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l'anno, ed esegua la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità; riceva anche con riverenza, almeno a Pasqua, il sacramento dell'Eucarestia, a meno che per consiglio del proprio parroco non creda opportuno per un motivo ragionevole di doversene astenere per un certo tempo. Altrimenti finché vive gli sia proibito l'ingresso in chiesa, e - alla sua morte - la sepoltura cristiana. Questa salutare disposizione sia pubblicata frequentemente nelle chiese, perché nessuno nasconda la propria cecità con la scusa dell'ignoranza.

Se poi qualcuno per un giusto motivo volesse confessare i suoi peccati ad un altro sacerdote, prima chieda e ottenga la licenza dal proprio parroco, poiché diversamente l'altro non avrebbe il potere di assolverlo o di legarlo (32).

Il sacerdote, poi, sia discreto e prudente; come un esperto medico versi vino e olio (33) sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulle circostanze del peccatore e del peccato, da cui prudentemente possa capire quale consiglio dare e quale rimedio apprestare, diversi essendo i mezzi per sanare l'ammalato.

Si guardi, poi, assolutamente dal rivelare con parole, segni o in qualsiasi modo l'identità del peccatore; se avesse bisogno del consiglio di persona più prudente, glielo chieda con cautela senza alcun accenno alla persona: poiché chi osasse rivelare un peccato a lui manifestato nel tribunale della penitenza, decretiamo che non solo venga deposto dall'ufficio sacerdotale, ma che sia rinchiuso sotto rigida custodia in un monastero, a fare penitenza per sempre.

XXII

Gli infermi provvedano prima all'anima poi al corpo

L'infermità del corpo dipende talora dal peccato, come disse il Signore all'ammalato che aveva sanato: Va e non voler più peccare, perché non debba accaderti di peggio (34), col presente decreto pertanto stabiliamo e comandiamo severamente ai medici dei corpi che quando sono chiamati presso gli infermi, prima di tutto li ammoniscano e li inducano a chiamare i medici delle anime, cosicché dopo che è stato provvisto alla salute spirituale degli infermi, si proceda al rimedio della medicina corporale con maggior efficacia: cessando infatti la causa, cessa anche l'effetto.

Questo decreto è motivato dal fatto che alcuni, quando soffrono, e i medici cercano di persuaderli a provvedere alla salute della loro anima, cadono in una estrema disperazione, da cui segue più facilmente il pericolo di morte.

I medici che trasgredissero, dopo la sua pubblicazione da parte dei prelati locali, questa nostra costituzione, siano esclusi dall'ingresso in chiesa fino a quando non abbiano soddisfatto nel debito modo per questa trasgressione.

Del resto, poiché l'anima è molto più preziosa del corpo, proibiamo ai medici sotto minaccia di anatema di consigliare all'ammalato per la salute del corpo qualche cosa che si risolva in danno per l'anima.

XXIII

Una chiesa cattedrale o regolare non resti vacante oltre tre mesi

Perché il lupo rapace non si impadronisca del gregge del Signore (35) per mancanza del pastore, o non avvenga che una chiesa, priva del suo capo, vada incontro a qualche grave danno nei suoi beni, volendo ovviare ai pericoli delle anime e provvedere alla sicurezza delle chiese, stabiliamo che una chiesa cattedrale o regolare non debba restar vacante oltre i tre mesi; dopo tale termine se, pur cessando il giusto impedimento, non è stata fatta l'elezione, quelli che avrebbero dovuto farla siano privati del potere di eleggere, e questo sia devoluto al superiore immediato.

Quegli cui è passato il potere, avendo Dio dinanzi agli occhi, provveda canonicamente entro tre mesi, col consiglio del capitolo e di altre persone prudenti, alla chiesa rimasta vedova, con persona adatta della stessa chiesa, o, se non se ne trovasse, di un'altra, sotto pena di sanzione canonica.

XXIV

L'elezione per scrutinio o per compromesso

A causa delle diverse forme di elezione, che si cerca sempre di escogitare, sorgono molti impedimenti e grandi pericoli per le chiese vacanti. Stabiliamo che in caso di elezione, alla presenza di tutti quelli che devono, vogliono e possono intervenire, siano scelte nel collegio tre persone che godono la comune fiducia, le quali in segreto raccolgano diligentemente ad uno ad uno il voto di tutti; poi messa ogni cosa in scritto, la pubblichino davanti a tutti. Respinta ogni possibilità di appello, fatto lo spoglio sia proclamato eletto quello che ha ottenuto l'unanimità o il voto della maggioranza, o della parte più qualificata del capitolo. Si potrebbe anche affidare il compito dell'elezione ad un certo numero di persone idonee, che a nome di tutti provvedano alla chiesa vacante il pastore. Ogni altra procedura non sia valida a meno che non sia fatta all'unanimità da tutti, come per ispirazione divina, senza alcuna irregolarità.

Chi tentasse fare una elezione contro le forme prescritte, sia privato, per questa volta, del diritto di elezione.

Proibiamo infine assolutamente che nell'elezione uno possa dare procure, a meno che sia assente, trattenuto da giusto impedimento e non possa venire. Su ciò, se necessario, dia garanzia con giuramento, allora, se vorrà, affidi ad uno dello stesso collegio di fare le sue veci.

Riproviamo anche le elezioni clandestine e stabiliamo che non appena fatta l'elezione, sia pubblicata solennemente.

XXV

L'elezione fatta dal potere secolare è invalida

Chiunque acconsentisse alla propria elezione fatta abusivamente dal potere secolare, contro la libertà canonica, perda l'elezione e diventi ineleggibile; egli non potrà essere eletto a qualche dignità senza la dispensa.

Chi poi osasse fare una elezione di tal genere - che noi dichiariamo invalida ipso jure - sia senz'altro sospeso dagli uffici e dai benefici per un triennio, privo, per quel tempo, del potere di eleggere.

XXVI

Pene contro chi conferma una elezione irregolare

Nulla nuoce maggiormente alla chiesa di Dio, quanto che indegni prelati siano assunti al governo delle anime.

Volendo rimediare a questo male, stabiliamo con un decreto irrevocabile che, quando uno è eletto al governo delle anime, quegli a cui compete la sua conferma esamini con diligenza il procedimento dell'elezione e la persona dell'eletto e se tutto si è svolto secondo le norme, conceda la conferma. Se invece si fosse proceduto con poca prudenza, non soltanto dovrà essere rifiutato chi è stato indegnamente promosso, ma dovrà essere punito anche chi l'ha promosso irregolarmente. Stabiliamo anche che questi, quando consti la sua negligenza, specie se ha approvato un uomo di scienza insufficiente, di vita disonesta, o di età insufficiente non solo sia privato del potere di confermare l'elezione del successore, ma, perché non possa in nessun caso sfuggire alla pena, sia anche sospeso dal percepire i frutti del proprio beneficio, fino a che, se sarà creduto opportuno, non meriti il perdono. Che se poi venisse convinto di aver mancato intenzionalmente, sia sottoposto ad una pena maggiore.

Anche i vescovi, se vogliono sfuggire alla pena canonica, cerchino di promuovere agli ordini sacri e alle dignità ecclesiastiche soggetti che diano affidamento di adempiere degnamente l'ufficio loro affidato.

Quelli che sono immediatamente soggetti al Romano Pontefice, per ricevere la conferma del loro ufficio, se possono si presentino personalmente alla sua presenza, altrimenti inviino persone adatte, capaci di rispondere all'inchiesta sul procedimento dell'elezione e sugli eletti stessi. Finalmente dopo attenta considerazione del complesso della cosa, con, segua la pienezza del suo ufficio, avendo soddisfatto le leggi canoniche. Quelli però le cui sedi sono molto distanti, cioè fuori d'Italia, se sono stati eletti senza opposizione, abbiano provvisoriamente l'amministrazione spirituale e temporale in considerazione della necessità e dell'utilità delle chiese, a patto però che non alienino assolutamente nulla dei beni ecclesiastici. Saranno consacrati o benedetti come si è usato finora.

XXVII

L'istruzione degli ordinandi

Il governo delle anime è l'arte delle arti. Comandiamo, perciò, severamente che i vescovi istruiscano diligentemente quelli che devono essere promossi al sacerdozio, e li formino, o loro direttamente o per mezzo di persone capaci alla celebrazione dei divini uffici e all'amministrazione dei sacramenti. Se in avvenire osassero ordinare degli ignoranti e degli inetti cosa facile da constatare - decretiamo che sia quelli che li ordinano, che gli ordinati stessi debbano sottostare ad una pena grave. E’ meglio, infatti, specie nell'ordinazione dei sacerdoti, avere pochi e buoni ministri, che molti e cattivi, poiché se un cieco fa da guida ad un altro cieco, cadono tutti e due in una fossa (36).

XXVIII

Chi ha chiesto di andarsene ne sia costretto

Qualcuno, dopo aver chiesto insistentemente l'autorizzazione di resignare, una volta ottenutala non intende più andarsene. Ma poiché nella domanda di ritirarsi essi avevano riguardo all'utilità delle chiese o alla propria salute, noi volendo sottrarli agli argomenti di quelli che non cercano che i propri interessi (37) o anche da qualsiasi forma di leggerezza, decretiamo che costoro siano costretti a ritirarsi.

XXIX

Nessuno Può avere due, benefici con cura d'anime

Con molta prudenza nel concilio Lateranense (38) fu proibito che nessuno ricevesse, contro le prescrizioni dei sacri canoni, diverse dignità ecclesiastiche e più chiese parrocchiali sotto pena per il beneficiario di perdere il beneficio stesso e per chi l'avesse conferito di essere privato del diritto di collazione. Ma poiché l'audacia e l'avidità di taluno ha privato di effetti tale decreto, noi volendo rimediare in modo più chiaro e più deciso, stabiliamo, col presente decreto, che chiunque riceve un beneficio che abbia annessa la cura delle anime, se prima ne aveva uno simile lo perda isso jure e se tentasse di tenerli entrambi, sia privato anche del secondo.

Inoltre, chi ha diritto di conferire il primo beneficio, dopo che il beneficiato ha ricevuto il secondo, può tranquillamente assegnarlo a chi crederà degno e se tarderà più di tre mesi ad assegnarlo, non solo secondo la prescrizione del concilio Lateranense (39), l'assegnazione del beneficio passa ad altri, ma egli sarà costretto a devolvere a beneficio della chiesa, cui appartiene quel beneficio, una parte dei suoi proventi pari a quanto ha ricavato da esso durante la vacanza.

Stabiliamo che la stessa prescrizione debba osservarsi anche per i personali, aggiungendo che nella stessa chiesa nessuno possa avere più dignità o personali, anche se non importino cura d'anime. Tuttavia, se si tratta di persone nobili o versate nelle lettere, degne di essere onorate con maggiori benefici, quando le circostanze lo richiedono, la sede apostolica potrà dispensare.

XXX

Circa l'idoneità per essere addetti alle chiese

assai grave e addirittura assurdo che i prelati delle chiese, potendo promuovere ai benefici ecclesiastici soggetti idonei, non abbiano ritegno ad assumere degli indegni, che non si raccomandano né per onestà di costumi, né per istruzione. In ciò essi seguono la voce della carne, non la ragione. Ora, nessuno, che sia sano di mente, ignora quanti danni ne derivino.

Volendo, quindi, rimediare a questo stato di cose, stabiliamo che, deposti gli indegni, siano nominate al loro posto persone adatte, che vogliano e possano prestare a Dio e alle chiese un grato servizio, e che si faccia ogni anno, su questo argomento, un esame diligente al concilio provinciale; chi, dopo un primo ed un secondo ammonimento fosse trovato colpevole, venga sospeso dallo stesso concilio dal conferire i benefici, e nel medesimo concilio sia eletta una persona prudente ed onesta, che nel conferimento dei benefici possa supplire chi è stato sospeso. Lo stesso si osservi per quanto riguarda i capitoli che avessero mancato su questo punto. Se poi fosse il metropolita a mancare, la sua trasgressione sia lasciata al giudizio del superiore, su denunzia del concilio.

Perché questo salutare provvedimento possa conseguire efficacemente il suo effetto, questa sentenza di sospensione non sia sciolta assolutamente da nessuno, fuorché dall'autorità del Romano pontefice o dal patriarca perché, anche in ciò, le quattro sedi patriarcali siano particolarmente onorate.

XXXI

I figli dei canonici non devono essere eletti dove prestano servizio i loro padri

Per far cessare la pessima corruzione invalsa nella maggior parte delle chiese, proibiamo con ogni fermezza che figli di canonici, specie se illegittimi, siano eletti canonici nelle chiese secolari, nelle quali servono i loro padri. E se si osasse fare il contrario, ciò sia nullo; chi, poi, presumesse di nominar canonici questi tali, sia sospeso dai suoi benefici.

XXXII

I patroni lascino al clero una quota conveniente

Bisogna estirpare un costume abusivo che ha preso piede in alcune regioni: chi ha diritto di patronato sulle chiese parrocchiali ed altre persone, rivendicando a sé, completamente, i proventi delle stesse chiese, lasciano ai sacerdoti addetti ad esse una quota cosi misera, che essi non possono mantenersi con sufficiente dignità. Infatti, come abbiamo potuto sapere con certezza i sacerdoti addetti alle parrocchie non hanno assegnata, per il loro sostentamento, se non la quarta parte del quarto, cioè, un sedicesimo delle decime. Avviene, di conseguenza, che in queste regioni non si trovi quasi un parroco che abbia una pur minima conoscenza delle lettere.

E poiché non si deve legar la bocca al bue che tritura (il fieno) (40), e chi serve all'altare deve vivere dell'altare (41), stabiliamo che, nonostante qualsiasi consuetudine in contrario del vescovo, del patrono o di qualsiasi altro, venga assegnata ai sacerdoti una quota ad essi sufficiente.

Chi ha una chiesa parrocchiale non deve soddisfare al suo servizio per mezzo di un vicario, ma personalmente, secondo che la cura della stessa chiesa richiede, a meno che la chiesa parrocchiale sia annessa ad una prebenda o ad una dignità. In questo caso permettiamo che colui che ha tale prebenda o dignità, essendo necessario che egli presti il suo servizio presso la chiesa maggiore, abbia nella stessa chiesa parrocchiale un vicario adatto e permanente, canonicamente eletto, il quale, come si è detto, abbia una quota conveniente dei proventi stessi della chiesa. Diversamente, il parroco deve considerarsi privato di essa, che può quindi essere liberamente assegnata ad altri, che voglia e possa adempiere quanto stabilito.

Proibiamo, poi, assolutamente che qualcuno, con frode delle rendite ecclesiastiche, possa dare ad altri una pensione sui redditi di una chiesa che debba provvedere ad un proprio sacerdote.

XXXIII

Non si ricevano le prestazioni stabilite senza effettuare le visite

Le prestazioni dovute ai vescovi, agli arcidiaconi e a; chiunque altro, anche ai legati e ai nunzi della sede apostolica, in occasione della visita (pastorale), non devono essere esigite senza un motivo evidente e necessario se non quando essi compiono personalmente la visita. Le cavalcature e il seguito siano regolati nella misura prescritta dal concilio Lateranense (42). Quando i legati o i nunzi della sede apostolica dovessero fermarsi necessariamente in un luogo, perché questo non sia troppo aggravato per causa loro, essi ricevano contributi moderati da altre chiese e persone che non siano state ancora sottoposte a queste prestazioni, e la loro entità non superi la durata del soggiorno. E quando una, da sé, non fosse sufficiente, si uniscano in due o anche in più.

Inoltre, i visitatori non cerchino il proprio utile, ma la gloria di Cristo (43) predicando, esortando, correggendo e riformando, in vista di frutti imperituri.

Chi, poi, avesse agito contro questa prescrizione, restituisca ciò che ha ricevuto, e altrettanto dia alla chiesa che ha così aggravato.

XXXIV

Non bisogna gravare i sudditi col pretesto di qualche prestazione

Poiché la maggior parte dei prelati per dare ad un legato o ad altri quanto stabilito per una missione o un servizio, esigono dai loro sudditi più di quanto essi in realtà pagano, e volgendo a loro profitto i loro danni considerano i propri soggetti come una preda più che come un aiuto, proibiamo che in seguito si continui a fare cosi. Chi osasse agire in tal modo restituisca quanto ha estorto, e sia costretto a dare altrettanto ai poveri.

XXXV

Si deve esporre la causa per cui uno si appella

Perché sia reso ai giudici l'onore dovuto e ai contendenti le pene e le spese stabiliamo che quando uno cita un avversario dinanzi ad un legittimo giudice, non può appellare, prima della sentenza, ad un giudice superiore senza un motivo ragionevole, ma cerchi di ottenere giustizia dinanzi al primo giudice senza che possa invocare di aver inviato un messaggio al giudice superiore, o anche di aver ottenuto da lui delle lettere, prima che queste siano state rimesse al giudice delegato.

Se poi egli crederà, per motivi ragionevoli, di appellarsi, esposte dinanzi allo stesso giudice le prove che motivano il suo appello (motivo sufficiente è quello che, se fosse approvato, dovrebbe esser ritenuto legittimo), il superiore sia messo a conoscenza dell'appello. Se riconoscerà che l'appello è infondato, rimetta la causa al giudice inferiore, e condanni l'appellante a pagare le spese all'altra parte, altrimenti proceda lui stesso, salva la riserva alla sede apostolica delle cause maggiori.

XXXVI

Il giudice può revocare una sentenza interlocutoria e comminatoria

Poiché col cessare della causa cessa anche l'effetto, stabiliamo che qualora un giudice, sia ordinario che delegato, avesse emesso una sentenza comminatoria o interlocutoria, la cui esecuzione pregiudicherebbe uno dei contendenti, e con saggia decisione avesse rinunziato ad eseguirla, proceda pure liberamente all'istruttoria della causa, nonostante ogni appello interposto contro tale sentenza comminatoria o interlocutoria - purché non sorga qualche motivo di legittima suspicione - perché il procedimento della causa non venga ritardato con frivoli pretesti.

XXXVII

Non si devono richiedere lettere Per più di due giornate di cammino e senza uno speciale mandato

Alcuni, abusando del favore della sede apostolica, cercano di ottenere le lettere che rinviino a giudici lontani, di modo che il convenuto, stanco delle noie e delle spese, o rinunzi alla lite, o sia costretto a trovare un accordo con chi gli ha intentato la causa.

Ma poiché la giustizia non deve aprire la via all'ingiustizia, che l'osservanza del diritto proibisce, stabiliamo che nessuno per oltre due giornate di cammino possa esser tratto in giudizio fuori della sua diocesi con lettere apostoliche, a meno che non siano state ottenute di comune accordo dalle parti, e con espresso riferimento a questa costituzione.

Vi sono altri che, con mercimonio di nuovo genere, affinché possano risuscitare liti ormai sopite, o causare nuove questioni, inventano delle cause per le quali chiedono lettere alla sede apostolica senza il mandato dei loro signori. Queste lettere, poi, le vendono al convenuto che teme le noie e le spese che possono derivargliene; o all'attore, perché possa infastidire l'avversario con pressioni indebite. Poiché le liti sono piuttosto da limitarsi che da ingrandirsi, con questo generale decreto stabiliamo che se qualcuno, in seguito, osasse chiedere lettere apostoliche su qualche questione senza uno speciale mandato, queste lettere non abbiano alcun valore, ed egli sia punito come falsario, a meno che non si tratti di quelle persone, dalle quali non si deve esigere, a norma del diritto, alcun mandato.

XXXVIII

Gli atti vanno scritti perché possano servire come prova

Poiché contro l'asserzione falsa di un giudice malvagio un litigante innocente non può, qualche volta, provare di aver veramente negato una cosa - poiché la negazione per sé non può esser considerata, per la natura stessa delle cose, una prova diretta - affinché la falsità non porti pregiudizio alla verità, o l'iniquità prevalga sull'equità, disponiamo che tanto nel giudizio ordinario, quanto in quello straordinario, il giudice si serva sempre, se lo può, di una persona pubblica, o di due persone adatte le quali scrivano fedelmente tutti gli atti del giudizio, e cioè: le citazioni, le dilazioni, le rinunzie e le accettazioni, le domande e le risposte, gli interrogatori, le confessioni, le deposizioni dei testimoni, le presentazioni di documenti, le interlocuzioni, gli appelli, le rinunzie, le conclusioni e tutto ciò che occorre dover scrivere nel dovuto ordine. Si indichino, inoltre, i luoghi, i tempi, le persone; e dopo aver scritto cosi ogni cosa, sia comunicata alle parti, ma gli originali rimangano presso gli scrittori, cosicché, se dovesse sorgere intorno al procedimento del giudice qualche contestazione, con questi atti possa esser dimostrata la verità. Si usi, poi, questa precauzione, di affidare, cioè, (la causa) a giudici talmente onesti e discreti, che la giustizia degli in- nocenti non sia lesa da (giudici) imprudenti e parziali.

I giudici che trascurassero di osservare questa disposizione, se per la loro negligenza dovesse sorgere qualche difficoltà, siano puniti dal giudice superiore con pena adeguata, e la loro procedura non sia ammessa, se non in quanto risulti da legittimi documenti.

XXXIX

Bisogna restituire anche quei beni che il possessore non ha personalmente sottratto

Avviene spesso che qualcuno venga spogliato ingiusta- mente e che questo bene passi dallo spogliatore ad un altro, così che la restituzione non può avvenire mediante un'azione contro il possessore, e perduto il possesso, per la difficoltà di provarlo, si perde anche il diritto di proprietà.

Quindi, nonostante il rigore della legge civile, stabiliamo che se qualcuno viene scientemente in possesso di tale cosa, succede nella colpa a chi ha spogliato - non c'è molta differenza, infatti, specie per il pericolo dell'anima, fra il possedere ingiustamente e l'impossessarsi di ciò che è di altri - contro un tale possessore si venga in soccorso di colui che è stato spogliato con la restituzione.

XL

Del possesso legittimo

Avviene, qualche volta, che, per la contumacia della parte avversa si conceda all'attore il possesso di un bene perché lo conservi. Questo attore, però, per la resistenza del detentore, o per inganno, non riesce ad avere entro un anno quanto deve custodire; o, dopo averlo avuto, lo perde. In tal modo, secondo molti, trascorso un anno, questi non diventa legittimo possessore e il reo trae vantaggio dalla sua scaltra malizia. Perché, dunque, non avvenga che chi è contumace non si trovi in migliore condizione di chi è ossequiente alla legge, stabiliamo conforme all'equità canonica che, nel caso predetto, l'attore venga ad esser possessore legittimo anche dopo un anno.

Inoltre, proibiamo, in genere, che nelle questioni spirituali si rimetta la decisione ad un laico: non è bene, infatti, che un laico debba risolvere tali problemi.

XLI

In ogni prescrizione la buona fede deve essere ininterrotta

Poiché ciò che non è secondo la fede è peccato (44), con giudizio sinodale definiamo che nessuna prescrizione, sia canonica che civile, abbia valore senza la buona fede dovendosi generalmente derogare a qualsiasi costituzione e consuetudine che non possa essere osservata senza peccato mortale. E’ necessario quindi, che chi invoca la prescrizione in nessun momento abbia la consapevolezza di possedere una cosa d'altri.


XLII

Della giustizia secolare

Come noi vogliamo che i laici non usurpino i diritti dei chierici, così dobbiamo impedire che questi si approprino dei diritti dei laici.

Proibiamo, quindi, assolutamente a tutti i chierici di estendere, col pretesto della libertà ecclesiastica, la loro giurisdizione a scapito della giustizia secolare. Ciascuno si accontenti delle norme scritte e delle consuetudini finora approvate, in modo che sia reso a Cesare ciò che è di Cesare, e sia reso a Dio, con giusta attribuzione, quello che è di Dio (45).

XLIII

Nessun chierico presti fedeltà ad un laico, senza sufficiente motivo

I laici cercano di usurpare troppo frequentemente il diritto divino, quando costringono gli ecclesiastici a prestare loro giuramento di fedeltà, anche se questi non hanno ricevuto da parte loro alcun bene temporale.

Ma poiché secondo l'apostolo un servo sta in piedi o cade secondo il Signore (46), proibiamo, con l'autorità del sacro concilio, che tali chierici siano costretti a prestare giuramento a persone secolari.



continua

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