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Vangelo di Matteo

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 12:20
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25/11/2008 11:51

L’ANNUNCIO DEL REGNO (Mt 3,1-7,2)
 
 SEZIONE NARRATIVA: l’inizio del ministero (3, 1-4,25)
 
·        La predicazione di Giovanni Battista (3, 1-12)
Tutti gli evangelisti parlano dell’attività del Battista come una preparazione a quella di Gesù. Ognuno di essi la presenta da un suo punto di vista, e i diversi aspetti di questa figura singolare ci offrono altrettanti elementi per ricostruire la sua straordinaria personalità. Matteo mette in rilievo il suo aspetto di predicatore che compie la sua missione secondo lo stile profetico. I profeti antichi si distinguevano sia per i loro vestiti rozzi che per l’austerità della loro vita (2 Re 1,8). Il Battista entra in scena come un predicatore penitenziale.
Matteo riassume la predicazione del Battista nel deserto di Giuda[9] con le stesse parole con le quali riassumerà più avanti, la predicazione di Gesù: “Convertitevi perché il Regno di Dio è vicino” (4,17). Come il ministero del Battista è introdotto con un riferimento a Is (40,3), così anche il ministero di Gesù (Is 4, 14-15). C’è dunque una continuità fra i due personaggi e le due predicazioni.
Il tema della conversione, predicato dal Battista, era un’esigenza continua anche tra i farisei: la differenza stava nel modo d’intenderla. La conversione “farisaica” comportava unicamente un “cambiamento di mente”; la conversione richiesta dal Battista e da Gesù è molto di più: richiede un cambiamento radicale, totale, nella relazione con Dio; e questa relazione con Dio comprende non solo l’interno, ma anche l’esterno, tutto quello che è visibile nella condotta umana (“far frutti degni di conversione” v. 8). La retta relazione con Dio si deve tradurre nella retta condotta di tutta la vita. La verità è illustrata con l’esempio dell’albero: se l’albero è buono, produce frutti buoni, frutti degni dell’albero stesso. Chi si converte a Dio è come una pianta del suo immenso campo, e i suoi frutti-opere devono essere buoni.
La radicalità delle esigenze del Battista urtava assai gli uomini pii del tempo: farisei e sadducei. Fra essi vi erano differenze radicali: i sadducei, per esempio, non credevano nella risurrezione. C’era però anche un denominatore comune: la situazione di privilegio di essere figli d’Abramo. A queste classi privilegiate Giovanni annunziava: davanti a Dio non esiste sicurezza basata su privilegi, Egli giudica in base alla condotta tenuta. Anzi, Dio può suscitare figli d’Abramo perfino dalle pietre: Dio, cioè, può compiere una nuova creazione, esattamente come creò il primo uomo dalla polvere.
Il motivo di queste esigenze è l’imminenza del regno dei cieli. Matteo, secondo lo stile dei Giudei, evita, per quanto gli è possibile, per un eccessivo rispetto, di pronunciare il nome di Dio, e ricorre ad altri termini come “il cielo”. Il regno dei cieli e il regno di Dio, di cui parlano Marco e Luca, sono un’unica realtà. Il regno era la più alta aspirazione e la più ardente speranza dell’AT e del giudaismo; era una realtà che apparteneva all’al di là e che Dio avrebbe concessa al momento opportuno. Sarebbe stato come un nuovo cielo e una nuova terra nella quale non vi sarebbero stati peccato, morte e dolore. Il Battista annunzia che tutto questo, che i giudei attendevano in un futuro incalcolabile, si realizzava nella persona di Gesù. Abbiamo qui la ragione ultima dell’esigenza della conversione. L’uomo deve rivolgersi a Dio, perché Dio si è rivolto verso gli uomini.
Matteo, a differenza di Luca e Marco, sviluppa maggiormente il motivo della contrapposizione, non tanto nella differenza tra i due battesimi (l’uno nell’acqua e l’altro nello Spirito e nel fuoco), quanto nel confronto tra le rispettive attese messianiche. Potremmo parlare di due concezioni messianiche a confronto. Nella predicazione di Giovanni Battista, (in Matteo), il Messia atteso è presentato soprattutto come giudice: “Nella sua mano ha il ventilabro… ma brucerà la pula”. La pula (l’involucro del seme) indica apparenza , leggerezza e senza sostanza.
Quante volte anche noi pensiamo di essere giusti davanti a Dio solo perché stiamo da tanto tempo in Chiesa o facciamo parte di qualche gruppo ecclesiale. Il Signore, invece, vuole da noi: opere di penitenza, conversione quotidiana, umiltà davanti a Dio. Tutte le opere buone compiute senza umiltà e senza amore, somigliano al battesimo di acqua amministrato da Giovanni: era certamente una cosa buona, ma non produceva la grazia. Bisogna farsi battezzare da Cristo, perché il vero battesimo è cambiare ogni giorno la propria mente e il proprio cuore.
·        Il Battesimo di Gesù (3, 13-17)
Il battesimo nel Giordano da parte di Giovanni è un evento significativo nella vita di Gesù. E’ il primo atto pubblico che egli compie da quando avverte la voce dello Spirito che lo chiama ad annunziare la buona novella ai poveri, a predicare a quanti attendevano l’anno di grazia del Signore. Forse è anche la prima volta che si allontana dal suo villaggio, dalla Galilea e arriva fino alle foci del Giordano. Lo scopo era far visita o conoscenza con un predicatore di penitenza che faceva tanto parlare di sé in tutta la regione. Matteo lo dice espressamente. “compare da Giovanni” (3,5). Marco “venne da Giovanni”. Tutto fa pensare che Gesù aveva fatto tanta strada per ascoltare il profeta del deserto.
Gesù aveva ascoltato la parola dei profeti nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16). Era diverso però riascoltarla direttamente da un profeta vivente. Si dovrebbe pensare che anche Gesù è in ricerca della volontà di Dio o almeno di un approfondimento, di una chiarificazione della sua chiamata profetica. Infatti poco dopo l’evangelista ricorda il suo ritiro nel deserto, i quaranta giorni di digiuno e preghiera, il confronto-scontro con il diavolo, sempre per determinare la linea da percorrere nell’adempimento del suo mandato nel piano di Dio. Si può perciò ipotizzare che anche questa visita al predicatore del deserto, e forse agli altri asceti che sembra popolassero la zona (vedi i monaci di Qumràn), sia stata motivata dal desiderio o necessità di trovare una conferma alla “spinta” che sentiva nel suo animo a lasciare il lavoro di carpentiere e dedicarsi all’annunzio della parola di Dio.
Il soggiorno nel Giordano non fu un’esperienza inutile. Gesù non sceglierà né la strada di Giovanni, un predicatore chiuso nel suo recinto, tutto proteso a intimorire o a spaventare la gente, né quella dei vicini Esseni, pure essi ben separati dal popolo; ma si metterà in cammino per le contrade della Galilea, insegnando, predicando e guarendo gli infermi che ricorrevano a lui. Sono i quattro verbi con cui Matteo caratterizza la sua attività missionaria (4,23). Gesù non starà ad aspettare la gente ma si muoverà incontro ad essa non per terrorizzarla, ma per liberarla dalle proprie afflizioni e soprattutto dalla paura di Dio, che non era tanto un giudice quanto un “padre” (Mt 6,9).
L’esperienza di Gesù nel Giordano, il confronto con Giovanni, ha creato qualche difficoltà ai predicatori cristiani delle origini, in particolare alla comunità di Matteo che si è sentita in dovere di correre ai ripari inserendo nel racconto tradizionale di Mc 1,9 un dialogo tra Gesù e Giovanni (3, 14-15) che ridimensiona la portata del battesimo di Gesù. La notizia “per essere battezzato” poteva far sembrare che Gesù si fosse trovato subordinato a Giovanni, come se fosse al di sotto di lui, e ciò non era ammissibile. Era vero il contrario. Era Giovanni che avrebbe dovuto inginocchiarsi davanti all’ “ospite” venuto dalla Galilea e ricevere la remissione dei peccati.
L’evangelista, quindi, sente il bisogno di spiegare ai suoi lettori che questo non significa che Gesù fosse un peccatore o, comunque, inferiore a Giovanni. Ma ciò è avvenuto perché “si adempisse ogni giustizia”. In Matteo la parola giustizia indica il piano divino della salvezza, e il verbo compiere contiene un riferimento alle Scritture. Possiamo dire allora che Gesù si sottopose al battesimo perché ciò rientrava nel piano di Dio manifestato nelle Scritture.
Ma la diversità tra Gesù e Giovanni emerge dalla concezione diversa di messianismo. Il Messia che viene a farsi battezzare sconcerta Giovanni, che si aspettava un Messia giudice e un battesimo di fuoco. Invece si vede venire incontro un uomo confuso nella folla, non giudice, ma un servo solidale col momento penitenziale del suo popolo. Tutto ciò è confermato anche dalla voce celeste: “Questo è il mio Figlio diletto”, che richiama il passo di Is 42,1. L’uso di questa formula del profeta identifica Gesù con il Servo del Signore. La visione definisce il carattere della messianicità di Gesù; egli non è il Messia regale, conquistatore, ma il Servo sofferente. Così Giovanni e Gesù rappresentano due concezioni messianiche diverse.
·        La tentazione di Gesù (4, 1-11)
La breve informazione di Marco sul digiuno di 40 giorni nel deserto e sulla tentazione è ampliata da Matteo (e Luca) in una triplice tentazione.
La presenza della tentazione, e precisamente di una tentazione messianica, nel quadro dell’esistenza di Gesù è storicamente credibile. La tentazione messianica si armonizza con tre dati sicuri del Vangelo:
il netto rifiuto da parte di Gesù nei confronti di ogni richiesta di “segni” che non fossero altro che prodigi e dimostrazione di sé,
il costante conflitto con Satana nel quale Gesù si trovò impegnato per la sua missione redentrice,
la volontà di purificare in tutti i modi le speranze messianiche dei discepoli.
La tentazione che Gesù ha incontrato, non solo nel deserto ma in tutta la sua esistenza, era concentrata su una continua lotta tra la strada messianica indicata dalla parola di Dio (cioè la via della croce) e le sollecitazioni provenienti dalle attese messianiche dell’epoca. Le sollecitazioni messianiche erano sostanzialmente tre:
ú         quella della rivoluzione e del potere (messianico zelota)
ú         quella del messianismo restauratore (sia politico che religioso)
ú         quella del messianismo convincente (accompagnato da segni spettacolari).
Gesù rifiutò energicamente tutti e tre questi suggerimenti, rinunciando a utilizzare la strada del potere, del prestigio, dei miracoli a ogni costo.
La risposta di Gesù a ognuna delle tre richieste è tratta dal Deuteronomio (8,3; 6,16.13), ed evoca con molta chiarezza le tentazioni d’Israele nel deserto: la tentazione di concepire la speranza in termini di benessere e di far coincidere la salvezza messianica con un progetto terrestre. Matteo è molto interessato a questo confronto tra Gesù e Israele. Egli vuole mostrare che Gesù è il compimento dell’intera storia d’Israele, ne subì le medesime tentazioni, ma a differenza di Israele le superò. Gesù, quindi, è il vero Israele.
Il racconto anche se fa riferimento alle tentazioni di Israele nel deserto, tuttavia non le riproduce nella loro forma, ma in forme che ricalcano le attese messianiche del tempo di Gesù e, ancora più fortemente, degli anni 60-70 (allorché Matteo scrive il suo Vangelo).[10]
La forma letteraria delle tentazioni riecheggia i dibattiti tra gli scribi, nei quali ciascuna parte ricorreva a citazioni scritturistiche. Il dibattito tra Gesù e Satana si svolge in tre riprese, in ciascuna delle quali i due avversari si appellano alle Scritture. Questa forma letteraria può benissimo essere un ricordo della situazione di Gesù e delle sue polemiche. Si vuol dire che c’è modo e modo di riferirsi alle Scritture. Questo riflette anche le diatribe bibliche tra cristiani ed ebrei: si riferivano alle medesime Scritture, ma arrivavano a conclusioni opposte (come Gesù e satana). Non basta leggere le Scritture, bisogna leggerle bene. Il vangelo di Matteo ci fa ulteriormente riflettere su questo punto: il discepolo di Cristo, a differenza del fariseo, legge le Scritture in modo da scoprire la logica divina che le guida, non rimanendo invece prigioniero della lettera che finisce col distorcere lo stesso disegno di Dio.
Infine, il racconto di Matteo ha una dimensione ecclesiale oltre che cristologia. Basta ricordare in proposito come si sono formati i Vangeli. Se il racconto della tentazione ebbe un posto in tutta la tradizione sinottica è perché esso serviva non solo a chiarire le idee su Gesù e sul suo messianismo (del resto chiaro a tutti dopo la crocifissione), ma perché serviva a chiarire le idee sulla Chiesa e sul suo compito. Nella tentazione del Cristo la Chiesa ritrova le proprie tentazioni.
·        Il primo annuncio nella Galilea (4, 12-17)
Siamo all’inizio del Vangelo di Matteo. Dopo l’introduzione costituita dal “Vangelo dell’infanzia”, la missione di Gesù – preparata dalla predicazione del Battista (3, 1-12), dal battesimo al Giordano (3, 13-17) e dalle tentazioni nel deserto (4, 1-11) – ha finalmente inizio.
Matteo collega esplicitamente il ministero pubblico di Gesù con il Battista, anzi Gesù inizia la sua missione proprio quando Giovanni interrompe la sua predicazione: “Avendo saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesà si ritirò nella Galilea”.
 Gesù inizia la sua missione in continuità ideale con il Battista: “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”.
 L’annotazione dell’evangelista “avendo saputo che Giovanni era stato arrestato” va oltre il semplice significato cronologico. E’ già una prefigurazione della sorte che attende lo stesso Gesù: come tutti i profeti e come Giovanni Battista, anch’egli subirà il martirio.
Secondo la tradizione, il luogo in cui Giovanni battezzava non era lontano dalla foce del Giordano nel Mar Morto, e Gesù subito dopo il battesimo si sarebbe ritirato a pregare sul “Monte della Quarantena” a ovest di Gerico, ai margini del deserto di Giuda.
In quale luogo Gesù comincia la predicazione? Abbiamo già detto che Gesù da Nazaret era sceso nella Giudea per farsi battezzare da Giovenni nel fiume Giordano. Dalla Giudea, dopo i quaranta giorni di preghiera nel deserto, “saputo dell’arresto di Giovanni”, Gesù si sposta in Galilea, non più a Nazaret (la sua città) ma a Cafarnao, sulla riva settentrionale del lago di Tiberiade.
Queste annotazioni (“si ritirò nella Galilea e venne ad abitare a Cafarnao”) non obbediscono a un semplice desiderio di precisazione geografica, ma riporta un fatto che senza dubbio costituì per le attese religiose del tempo una sorpresa, se non uno scandalo. Difatti era logico aspettarsi che l’annuncio messianico partisse dal cuore del giudaismo, cioè da Gerusalemme, e invece partì da una regione periferica, generalmente disprezzata e ritenuta contaminata dal paganesimo (“Galilea dei Gentili"). Tanto è vero che Matteo sente il bisogno di spiegare questa scelta di Gesù, citando per esteso un passo del profeta Isaia (8,23-9,1)[11] e per Matteo il compimento di un’antica profezia è il segno rivelatore del messianismo di Gesù: un messianismo universale che rompe con decisione ogni forma di particolarismo.
L’annuncio di Gesù (4,17) è riassunto da Matteo in una formula identica a quella del Battista, ed è di estrema sintesi: “Convertitevi perché il del Regno di Dio è vicino”.
Questo aspetto programmatico di Gesù sottintende  il programma della Chiesa. Gesù afferma due cose che sono esattamente le due azioni fondamentali della sua missione: annunciare il Vangelo e chiamare dei discepoli. E la seconda è subordinata alla prima: i discepoli vengono scelti e preparati dal Signore perché dopo di lui il Vangelo sia annunciato a tutti gli uomini.
Questo annuncio (“Convertitevi, perché…”) è la parola che tutti gli uomini hanno diritto di ascoltare, perché è la verità che si aspettano nel profondo del loro cuore, anche quando credono di non credere, anche quando bestemmiano il suo nome. Perché questo Dio (regno) “vicino” dice un’attenzione paterna, una presenza piena di premura verso l’uomo.
“E’ vicino” vuol dire che lo puoi toccare con mano, sperimentare: è Gesù il regno, in lui Dio si fa vicino agli uomini per sanarli dai loro mali, per introdurli nella verità.
L’annuncio di Gesù, accompagnato da gesti che lo confermano appieno, suscita negli uditori, come vedremo più avanti, due atteggiamenti contrastanti: l’ accoglienza e il rifiuto, conversione ma anche negazione. La missione di Gesù provoca salvezza ma anche indurisce i cuori: la verità di Dio non vuole imporsi alla coscienza dell’uomo, e proprio questo genera anche, quel rifiuto ostile che culminerà nel progetto di eliminare Gesù sulla Croce.
·        La vocazione dei primi discepoli (4, 18-22)
Sulle rive del “mare di Galilea” (il lago) Gesù incontra e chiama i primi discepoli. Sono una coppia di fratelli, tutti pescatori (Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni) intenti al loro lavoro. L’appello di Dio raggiunge gli uomini nel loro ambiente ordinario, nel loro posto di lavoro. Nessuna cornice “sacra” per la chiamata dei primi discepoli, ma lo scenario del lago e lo sfondo della dura vita quotidiana.
Nel racconto emergono due tratti: la condivisione (il discepolo è chiamato a condividere la via del Maestro: “Seguimi”) e il distacco ( drastico e immediato: “e subito lasciarono le reti”). Nessun indugio per il discepolo di Gesù e nessun rito di addio, ma “subito”.
Ma i tratti essenziali – che già definiscono compiutamente la figura del discepolo (il resto del Vangelo non farà altro che precisarla) – sono quattro.
Primo: la centralità di Gesù. Sua è l’iniziativa (vide, disse loro, li chiamò): non è l’uomo che si proclama autonomamente discepolo, ma è Gesù che trasforma l’uomo in un discepolo. E ancora: il discepolo non è chiamato a impossessarsi di una dottrina, ma a solidarizzare con una persona (“seguitemi”). Al primo posto l’attaccamento alla persona di Gesù, tanto è vero che il discepolo evangelico non intraprende un tirocinio per divenire a sua volta un maestro: egli rimane sempre un discepolo, perché uno solo è il Maestro.
Secondo: la sequela di Gesù esige un profondo distacco. La chiamata di Pietro e Andrea e la chiamata di Giacomo e Giovanni sono costruite secondo la medesima struttura e sostanzialmente secondo lo stesso vocabolario. C’è però una differenza non trascurabile: nel primo racconto si dice che lasciarono “le reti” e nel secondo che lasciarono “la barca e il padre”. C’è dunque un crescendo: dal mestiere alla famiglia. Il mestiere rappresenta la sicurezza e l’identità sociale. Il padre rappresenta le proprie radici.
Terzo: la sequela è un cammino. A partire dall’appello di Gesù, essa si esprime con due movimenti (lasciare e seguire) che indicano uno spostamento del centro della vita. L’appello di Gesù non colloca il discepolo in un luogo, ma lo pone in  cammino.
Quarto: la sequela è missione. Due sono le coordinate del discepolo: la comunione con Cristo (“seguitemi”) e la corsa verso il mondo (“vi farò pescatori di uomini”). La seconda nasce dalla prima. Gesù non colloca i suoi discepoli in uno spazio separato dagli altri, ma li incammina sulle strade degli uomini. Più avanti si comprenderà che la via del discepolo è la croce.
·        Sintesi dell’attività di Gesù in Galilea (4, 23-25)
L’ultima sezione sintetizza l’attività di Gesù e ne indica l’efficacia: l’accorrere delle folle e l’aumento del numero dei seguaci.
Nel v. 23, una serie di quattro verbi offre un quadro vivace e dinamico. Gesù percorreva (perièghen) la Galilea: è lui che si mette alla ricerca degli uomini per portare loro la salvezza. Insegnava (didaskòn) nelle sinagoghe: la sua parola parte dalla radice della Torà e dei profeti. Annunciava (kerussòn) il vangelo del regno: è il contenuto centrale del messaggio di Gesù. Guariva (therapeuon) tutti i mali: l’annuncio del vangelo è inscindibile dai gesti di liberazione dal male compiuti da Gesù. Come risultato di questa attività Gesù divenne noto “per tutta la Siria”. Della provincia romana della Siria facevano parte la Galilea, la Decapoli (era un complesso di dieci città a est del Giordano, amministrate dal governatore della Siria), Gerusalemme, la Giudea e Perea (a est del Giordano). La regione di Tiro e Sidone (Mc 3,8; Lc 6,17) non è menzionata, molto probabilmente perché Matteo pensava che questa regione fosse già inclusa nella sua enumerazione (vedi 15,21).
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