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Vangelo di Matteo

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 12:20
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25/11/2008 11:56

Giustizia vera e falsa (6, 1-18)
Matteo continua a sviluppare il tema della giustizia del discepolo superiore alla giustizia degli scribi e farisei (5,20). Dopo aver criticato la giustizia degli scribi, l’evangelista critica ora la giustizia dei farisei.[13]
Matteo elenca le tre pratiche classiche dei farisei: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù non le rifiuta, ma vuole che siano compiute con spirito diverso. E’ proprio questo spirito che distingue il discepolo dal fariseo. Quali sono le caratteristiche più importanti di queste tre pratiche?
Anzitutto, è già significativo che vengono raggruppate insieme: il culto deve prolungarsi nella carità, e la penitenza deve essere un privarsi di qualcosa a beneficio di altri. In secondo luogo, è richiamata ripetutamente la necessità della retta intenzione. Bisogna cercare la ricompensa di Dio, non quella degli uomini: bisogna agire nel segreto, senza dare spettacolo.
La giustizia cristiana esige che le opere buone vengano compiute senza tenerne la contabilità. La vera giustizia esige che la destra non sappia ciò che fa la sinistra. Gesù in sostanza non rifiuta né l’elemosina né il digiuno né la preghiera, ma vuole che tutto ciò sia compiuto con spirito di gratuità.
La testimonianza non deve confondersi con la teatralità. I discepoli hanno la faccia normale e gioiosa, perché il distacco che la sequela esige non è un peso, ma una gioia: non è una perdita, ma il centuplo.
Quanto detto finora non è sufficiente a descrivere l’originalità cristiana. Matteo colloca in questa sezione il “Padre nostro”.
Luca riporta le parole di Gesù in un contesto in cui si vuole insegnare la preghiera a gente che non sa nulla di preghiera: scrive il suo vangelo per una comunità che proviene dal paganesimo. Matteo invece riporta il testo in una sezione che ha lo scopo di correggere le deviazioni dei credenti già abituati a pregare: egli scrive per una comunità che proviene dal giudaismo. Il problema di Matteo dunque non è se pregare ma come pregare. Nella preghiera non sono le parole che contano, neppure quando si tratta delle parole di Cristo. La preghiera è unicamente espressione di dipendenza, di povertà, e le parole non hanno mai un senso magico come invece pensano i pagani (6, 7-8).
“Padre”: è il nome con cui Gesù si rivolge costantemente a Dio, ed esprime la sua filiazione. Il discepolo ha il diritto di pregare come Cristo, in qualità di figlio. Sta in questo nuovo rapporto l’originalità cristiana, ma a differenza di Luca, Matteo non si accontenta di questo. Egli aggiunge al nome Padre l’aggettivo “nostro”, esplicitando in tal modo l’aspetto comunitario. E aggiunge “che sei nei cieli”, richiamando in tal modo la trascendenza e la signoria di Dio. La preoccupazione dell’evangelista è chiara: ricordare non solo la paternità di Dio, ma anche la sua trascendenza: Dio è vicino e lontano, come noi e diverso da noi, Padre e Signore. Ogni autentico rapporto religioso tiene conto di ambedue questi elementi.
“Sia santificato il tuo nome”: il verbo è al passivo, secondo l’uso ebraico ciò significa che il protagonista è Dio, non l’uomo. L’espressione “santificare il nome” deve essere intesa alla luce dell’AT, in particolare di Ez 36, 22-29. Non indica riconoscimento generico di Dio, né tanto meno una lode fatta di culto e di parole, ma un permettere a Dio di svelare, nella storia della salvezza e nella comunità, il suo volto (“Sia svelato il tuo nome, il tuo volto). In sostanza, il discepolo prega perché la comunità diventi un segno trasparente della presenza liberante di Dio.
“Venga il tuo regno”: per capire questa invocazione bisogna rifarsi a tutta la predicazione di Gesù, incentrata appunto sull’annuncio del Regno. Il Regno ha una presenza oggi, ma ha, nello stesso tempo, un compimento alla fine: questo è molto chiaro nella predicazione di Gesù e nell’attesa delle prime comunità. Ma l’uso del verbo aoristo (“venga”) sta a indicare che qui si ha di mira il suo stadio ultimo, escatologico (1 Cor 15,28). La venuta del Regno comprende la vittoria definitiva sul male, sulla divisione, sul disordine e sulla morte. Il discepolo chiede e aspetta tutto questo. Bisogna però ricordare che la preghiera implica contemporaneamente un’assunzione di responsabilità: il discepolo attende il Regno come un dono e insieme chiede il coraggio di costruirlo.
“Sia fatta la tua volontà”: questa invocazione non fa che interiorizzare le prime due, sottolineando maggiormente il loro aspetto morale. Si tenga presente che per “volontà di Dio” non si intende semplicemente il complesso dei comandamenti, ma piuttosto il “disegno di salvezza” che deve realizzarsi nella storia. E’ importante la precisazione “come in cielo così in terra”, cioè bisogna anticipare qui in terra la vita del nuovo mondo.
“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La richiesta del pane è la più umile, ma sta al centro, e questo ne indica l’importanza. Il pane è nostro, è frutto del nostro lavoro, eppure è anche nel contempo dono di Dio. C’è un senso di comunione: si prega per il pane comune. E c’è, soprattutto, un senso di sobrietà: si chiede per oggi il pane sufficiente, nulla più.
“Rimetti a noi i nostri debiti”. Il Regno  è anzitutto l’avvento della misericordia. Il termine debito non è il più indicato per spiegare il peccato, dal momento che - come traspare dalla parabola del figlio prodigo -  il peccato è soprattutto un tradimento dell’amore di Dio, un sottrarsi alla presenza del Padre, una sfiducia nei suoi confronti. Potrebbe sembrare, a prima vista, che il nostro perdono fraterno condizioni il perdono di Dio. In realtà è il contrario. Si legga la parabola di Mt 18, 23-35: il contrasto fra i due quadri della parabola intende mostrare quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo perdonato.
“Non ci indurre in tentazione”. Il pensiero corre spontaneamente alle piccole e svariate tentazioni quotidiane. Però la tentazione del discepolo non è tutta lì: è più profonda. E’ simile alla tentazione di Cristo (4, 1-11): è la sfiducia e lo scoraggiamento di fronte a un Dio che appare troppe volte imprevedibile. La vita del Cristo fu un continuo confronto con Satana. Il discepolo chiede di far propria la vittoria del Maestro. Anziché tradurre “liberaci dal male” è forse meglio tradurre “liberaci dal maligno”.
La preghiera si apre con il Padre e termina con il maligno, l’avversario. L’uomo è conteso, sollecitato da una parte e dall’altra. Nessun pessimismo però, il discepolo sa che Cristo ha già vinto Satana.
Nella sezione precedente (in polemica con gli scribi) Matteo aveva messo in luce la carità. Ora (in polemica con i farisei) mette in luce una sua concreta manifestazione: il perdono.
·        Detti (6, 19-34)
L’ultima parte del discorso della montagna (6,19-7,29) non è costruita come le due parti precedenti, in contrapposizione alla giustizia di scribi e alle pratiche dei farisei. Qui si limita a radunare, senza un ordine preciso, alcune parole del Signore importanti per la vita cristiana. Non c’è un ordine preciso, però ci sono alcune insistenze, e queste danno unità alla pericope.
Matteo sembra concentrarsi su un interrogativo: come deve comportarsi il discepolo nei confronti dei beni del mondo? La risposta di Gesù è  quanto mai lucida e attuale: il discepolo non deve cadere nella tentazione dell’affanno, dell’ansia, come se tutto dipendesse da sé stesso: “Non vi affannate per la vostra vita”. Al discepolo è richiesta la fiducia nell’amore del Padre. Questo non sottrae all’impegno, ma lo rende più sereno. L’ansia è l’atteggiamento dei pagani (“di tutto ciò si preoccupano i pagani”). Lavorare, ma non affannosamente: il cristiano è un uomo libero dall’angoscia del domani. Per essere veramente sereno il discepolo deve sapere che i beni del Regno sono al primo posto (“cercate anzitutto il Regno e la sua giustizia”). Ciò significa, ad esempio, che il benessere che andiamo cercando e nel quale poniamo fiducia deve essere “un benessere globale”: deve comprendere tutte le dimensioni dell’uomo e la ragione ultima del nostro vero benessere è Dio e il suo amore.
Dunque, Matteo non invita solo alla serenità, ma anche a orientarsi diversamente nella vita: non più certi beni al primo posto, ma altri. Finché certi beni (i nostri idoli) rappresentano i valori supremi, l’ansia è inevitabile. Il mondo inganna e seduce: ci convince che solo nel possesso c’è sicurezza e gioia. E così ci rende schiavi, disposti a servirlo, e ci spoglia della nostra vera umanità, e ci ruba lo spazio della libertà. Sta in questa stoltezza l’origine dell’ansia, nella convinzione cioè che questi beni, siano gli unici importanti e che l’uomo trovi la sicurezza nell’accumulare sempre di più per se stesso.
E’ una stoltezza che rende ciechi (6,22-23): l’ansia di possedere disorienta e appesantisce il cuore, e soprattutto delude. Matteo parla di beni che vengono distrutti dalle tarme e dalla ruggine, e che i ladri rubano. E alla luce di tutto questo possiamo ora comprendere tutta la profonda verità dell’affermazione: “Non potete servire a due padroni: a Dio e al denaro”. L’attaccamento al denaro è idolatria: l’uomo, cioè, non sentendosi sicuro all’ombra della promessa di Dio, pone la propria sicurezza nel denaro, illudendosi poi di avere la fede perché offre al Signore le briciole delle proprie ingiuste ricchezze. Ma questo peccato di idolatria non è soltanto contro Dio, ma ancor prima è contro l’uomo: è affanno, divisione e schiavitù.
Le parole di Gesù non si limitano a invitare alla serenità, e neppure si accontentano di disincantare l’uomo, liberandolo dal fascino illusorio del possesso, ma indicano la vera via della liberazione: “Ammassate tesori in cielo, dove né tignola né ruggine distruggono e dove i ladri non rubano”. L’importante è capire che i tesori nel cielo, non sono i “meriti”, ma la carità. E’ appunto questo di cui ci parla Matteo: “Tutto quello che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.
·        Detti non concatenati (7, 1-27)
Iniziando il Discorso della Montagna, dicevamo che Matteo, di fronte agli scribi e farisei e di fronte al giudaismo che andava delineando la propria ortodossia, si pone un interrogativo: qual è l’originalità cristiana? Il discorso ci ha già offerto molteplici spunti, tutti importanti come risposta all’interrogativo. Ma non dimentichiamo che c’è un filo conduttore, costante, la regola d’oro, che è la carità: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa infatti è la Legge e i profeti” (7,12). Quest’affermazione che riassume tutta l’ultima parte del discorso, era già presente, in termini ancor più radicali all’inizio: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (5,44). L’amore è l’unica cosa che non delude, è profonda saggezza: come la saggezza dell’uomo che costruisce la casa sulla roccia. L’amore è l’originalità cristiana.
Il discorso prosegue servendosi di cinque paragoni, uno più interessante dell’altro: la pagliuzza e la trave, le perle ai porci, il pesce e la serpe, la porta stretta, l’albero e i frutti.
Sono paragoni staccati, radunati qui tutti insieme dall’evangelista, perché, in un modo o nell’altro, illustrano il tema del comportamento del vero discepolo.
C’è il pericolo, quando giudichi qualcuno, di usare due misure: una per te e una per l’altro: vedi la pagliuzza di chi ti sta davanti e non vedi la trave che sta nel tuo occhio (7, 1-5). Si può essere nei confronti degli altri più rigidi, più puntigliosi, più impazienti di Dio stesso. La rigidità nel giudicare si può evitare se si ha l’accortezza di iniziare la critica da se stessi: questa è la condizione indispensabile per vedere con chiarezza e per valutare con equità, le cose che ci circondano. Le parole di Gesù lo dicono apertamente: “Togli prima la trave dal tuo occhio e poi vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. E’ nella conoscenza dei propri limiti e delle proprie debolezze che si trova la giusta misura (cioè la tolleranza, la pazienza) per una critica evangelica.
Il secondo paragone (7,6) è molto vivace, ma non è di facile comprensione. Il paragone sembra incompiuto. La sua forma originale potrebbe essere stata questa: “Non date ciò che è sacro ai cani, perché non vi sbranino; né gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino coi loro piedi”. Qualunque sia il valore originale del detto (un altro proverbio popolare?), in Mt esso si riferisce, molto probabilmente, all’insegnamento del vangelo. In questa ipotesi i cani e i porci non possono essere se non coloro che in Mt sono i più ostili al vangelo: gli scribi e i farisei. Il detto è duro, ma più per noi che per coloro che lo hanno ascoltato coi loro stessi orecchi.
Il terzo paragone (7, 7-11) – il pane e la pietra; il pesce e la serpe – illustra l’efficacia della preghiera. La deliberata ripetizione della triplice formula: chiedete-riceverete; cercate-troverete; bussate-vi sarà aperto, ha lo scopo di assicurare i discepoli che la preghiera viene esaudita. La certezza dell’esaudimento è illustrata da due esempi casalinghi di vita familiare: il padre dà ai figli ciò che essi chiedono e certamente non darà loro nulla di nocivo in risposta alle loro richieste. I genitori, anche se cattivi, si prendono cura dei loro figli, il Padre che è  nei cieli non è cattivo, e si può star certi che si comporterà da padre.
Il detto sulla porta stretta (7, 13-14), in Luca è dato come risposta alla domanda se sono poche quelli che si salvano. In Matteo non c’è la domanda. Se tanti o pochi quelli che si salvano, è un segreto di Dio, e in ogni caso non è questo il punto. Dicendo che la porta è “stretta” Gesù vuole ricordarci che la strada della vita è faticosa e dolorosa: più avanti si capirà che è la via della croce.
Quello dell’albero e dei suoi frutti (7, 15-20) è un paragone suggestivo. Luca (6, 43-45) non contiene l’avvertimento contro i falsi profeti. Può darsi che il detto si riferisca ai profeti zelati che incitavano alla ribellione contro Roma nel periodo precedente alla guerra giudaica del 66-70 d.C. In ogni caso l’aggiunta di Matteo sembra riflettere l’esperienza della Chiesa: la vera prova dei discepoli è la loro vita.
Avviandosi alla conclusione del discorso, Matteo sviluppa una contrapposizione a diversi livelli. C’è chi parla continuamente di Dio (“Signore, Signore”), ma poi dimentica di fare la sua volontà. C’è chi si illude di lavorare per il Signore (“Abbiamo profetato… abbiamo scacciato…”) ma poi si scoprirà, nel giorno del rendiconto, di essergli sconosciuto (“Non vi ho mai conosciuto”).
Con queste parole Gesù denuncia una dissociazione nella vita dell’uomo: da una parte c’è l’uomo che ascolta, riflette, discute, programma; dall’altra, l’uomo che dimentica di agire, di applicare i programmi. C’è il rischio di una preghiera (“Signore, Signore”) che non si traduce in vita e in impegno (“la volontà di Dio”). C’è il rischio di un ascolto della Parola che non diventa mai qualcosa di operante e di pratico. La radice di questa dissociazione è il tentativo di salvare l’obbedienza a Dio e di sottrarsi, nel contempo, all’esigenza di conversione che essa comporta. Non sentendosi sicuro all’ombra della parola di Dio, l’uomo continua a cercare la propria sicurezza in se stesso e nella realtà del mondo. A Dio la preghiera e la meditazione, ai nostri interessi il resto della vita. E’ un tentativo goffo per servire  due padroni. E’ dalla vita quotidiana che si deduce se abbiamo o no un solo padrone, è dalla vita quotidiana che si comprende quale sia davvero il nostro Signore. L’intero discorso si conclude col paragone delle due case (7, 24-27). La roccia che dà stabilità è Jahwè, la parola di Dio, la fede, il Messia. Il discepolo deve appoggiarsi a Cristo (la roccia), l’unico capace di rendere incrollabile la fede del discepolo, di sottrarla alla fragilità. Il progetto cristiano non può contare sulle nostre forze, ma unicamente sull’amore di Dio. E’ nella forza di Dio che l’uomo trova la sua consistenza. Non c’è vera fede senza impegno morale. La preghiera e l’azione, l’ascolto e la pratica sono ugualmente importanti.
L’evangelista termina il discorso osservando che le folle restavano stupite di fronte alle parole di Gesù, (7, 28-29) perché egli insegnava con autorità, e non come gli scribi. L’autorità degli scribi era basata sulla tradizione: lo scriba era preoccupato di ripetere fedelmente l’insegnamento tradizionale e di mostrare che il suo stesso commento scaturiva dalla tradizione ed era in armonia con essa. Gesù, invece, non insegnava come uno scriba ma come un profeta: Gesù ha un mandato dal Padre di insegnare, un mandato che gli scribi non hanno. Egli manifesta chiaramente questo mandato, e la gente ne è stupita. Il discorso della Montagna non è un codice completo di etica cristiana. Ci sono, infatti, nel Nuovo Testamento numerose direttive di morale cristiana che non si trovano in questo  discorso. In effetti non esiste alcun brano del NT che contenga un codice completo e sistematico di condotta. La rivoluzione morale cristiana consiste in un ri-orientamento dei valori.
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