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Vangelo di Matteo

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 12:20
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25/11/2008 12:13

DISCORSO: il discorso ecclesiastico (18, 1- 35)
 
Questo discorso è attinto quasi interamente a Marco, con alcune aggiunte prese dalla fonte “Q”[23], il resto del discorso è proprio di Matteo. Difatti dietro il succedersi dei discorsi e dei temi (trattati non secondo una struttura logica e coerente), si intravede la struttura del vangelo di Marco, che racconta la vicenda di Gesù che iniziando dal battesimo, continua col ministero in Galilea e poi in Giudea, fino alla sua passione e morte. Secondo questa struttura il discorso del capitolo 18 si trova nel contesto degli annunci della passione. La collocazione è significativa: questo discorso ecclesiastico[24], che tratta dei rapporti tra i vari membri della comunità, va letto nella prospettiva della sequela, intesa come un cammino verso la croce. Possiamo dire che questo capitolo 18 intende rispondere a una domanda: come deve costituirsi una comunità che intende porsi alla sequela di Cristo Crocifisso?
·        La grandezza del Regno (18, 1-5)
La comunità discute intorno al più grande: “Chi è il più grande nel regno dei cieli?”. L’interrogativo mostra una profonda incomprensione del discorso della croce che Cristo va facendo.
Marco colloca questo interrogativo nel contesto di una disputa tra i discepoli, Matteo invece omette questo dettaglio poco lusinghiero e ci descrive i discepoli che pongono direttamente a Gesù l’interrogativo concernente la preminenza. Luca è ancora più radicale e pone la questione del più grande nel contesto dell’ultima cena (22, 24-27), là dove Gesù svela con più chiarezza la sua via di servizio.
Come risposta a questo interrogativo dei discepoli, Gesù chiama a sé un bambino, lo pone in mezzo ai discepoli e dice: “Dovete diventare come questo bambino”. In che senso il discepolo deve assomigliare al bambino? Probabilmente il contesto originario dell’invito di Gesù ai discepoli, si trova nella scena dei bambini che gli corrono dietro (Mt 19, 13-15; Mc 10, 13-16; Lc 18, 15-17). Gesù è sorpreso nel vedere l’abbandono e la fiducia dei bambini: lo accettano senza paure e senza calcoli e senza troppi perché. Gli adulti, al contrario, sono perennemente esitanti, complicati, in continua ricerca di alibi e giustificazioni. Per entrare nel regno bisogna essere bambini: disponibili, fiduciosi e semplici, occorre abbandonarsi a Cristo con la semplicità del fanciullo.
La seconda parola di  Gesù (“Il più grande che si fa piccolo”), introduce una nuova prospettiva: qui piccolo non è più il simbolo di colui che è privo di grandezza, o di colui che non conta. Ma piccolo è chi è povero, trascurato tenuto in nessun conto. Il primo posto nella comunità è per costoro, perché Gesù si identifica con essi: “Chi accoglie un bambino accoglie me”.
Il discorso prosegue sviluppando ancora il tema del piccolo e introducendo un nuovo motivo: lo scandalo (18, 6-9). Nel linguaggio biblico lo scandalo si colloca sul piano della fede e non tanto sul piano della morale. Scandalo è tutto ciò che disorienta la fede. Gesù condanna coloro che scandalizzano i “piccoli” che credono in lui. Piccoli non sono più i bambini di cui abbiamo parlato prima, ma i fedeli semplici, incapaci di sopportare le novità e le arditezza dei “maturi”: la loro fede è fragile, forse immatura, scandalizzabile: anche costoro rientrano nel numero dei piccoli che hanno diritto al primo posto nella comunità. La comunità deve creare un ambiente che faciliti loro la crescita nella fede: non deve costituire un inciampo, che costringe i più deboli a soccombere. E’ questo il senso dell’altra affermazione di Gesù: “Guardatevi dal disprezzare anche uno solo di questi piccoli”. Forse la traduzione migliore non è “disprezzare”, ma trascurare. La comunità non può agire come se questi piccoli non esistessero, non può fare riforme senza tener conto delle ripercussioni sulla fede dei piccoli. Purtroppo invece la comunità (già quella di Matteo) è spesso tentata di fare il contrario: tanto, essi non contano, non hanno peso, l’avvenire è in altre mani. Ma non è così nella valutazione di Dio: “I loro angeli vedono sempre la faccia del Padre”. Possiamo concludere questo brano con una prima indicazione di vita comportamentale all’interno della comunità: la comunità cristiana è fondata sul servizio, sull’accoglienza e sul rispetto della fede degli altri.
·        La pecora smarrita  (18, 10-14)
La parabola ci è stata trasmessa sia da Luca che da Matteo. Gli evangelisti non furono semplici collezionisti del materiale che avevano trovato nella tradizione: furono veri autori. Lavorarono personalmente il materiale ricevuto, lo strutturarono e lo applicarono alle circostanze concrete dei destinatari per i quali scrivevano.
Vediamo in concreto le differenze tra Luca e Matteo.
L’intenzione della parabola, nel pensiero di Luca (15), è di giustificare la condotta di Gesù, che era accusato da scribi e farisei di frequentare “cattive compagnie”. Le tre parabole della misericordia: pecorella smarrita, dramma perduta e figlio prodigo, costituiscono la risposta del Maestro. In tutte il denominatore comune è la gioia del Padre nell’incontro. La conversione di un peccatore provoca molta gioia nel cielo. L’accento principale della parabola, quindi, secondo la redazione di Luca, cade sulla gioia che la conversione del peccatore procura al cuore di Dio.
In Matteo, invece, l’accento dell’insegnamento si è spostato e il centro si scopre facilmente perché lo stesso evangelista ce lo suggerisce: “Il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” (v. 14). I “piccoli” non sono i peccatori in generale (come in Luca), ma i credenti, i discepoli. Di questi si interessa la parabola. Essi pure possono andare fuori strada (per tre volte, nei vv. 12 e 13, compare la parola “smarrite” che si può tradurre “andare fuori strada”). Matteo applica la parabola ai discepoli sedotti, ingannati, che si sono allontanati da Cristo.
Riferendosi ai dirigenti della Chiesa, l’evangelista intende insegnar loro come comportarsi di fronte a quelli che sono caduti o si trovano in pericolo di cadere. Devono imitare la condotta e l’atteggiamento di Dio che “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva”; non vuole che si perda nulla di quanto gli appartiene.
·        Correzione fraterna (18, 15-22)
Questo brano mostra uno dei modi in cui i membri della Chiesa devono andare alla ricerca della pecora smarrita. Il dovere della correzione fraterna non è limitato alle offese di carattere personale: qualsiasi membro della comunità dovrebbe tentare di “guadagnare” il fratello che ha peccato. Ciò va fatto privatamente così che il fratello non sia umiliato. Se questo dialogo personale è infruttuoso, dovrà ripetersi alla presenza di alcuni testimoni, i quali devono dare maggior peso alla correzione per il solo fatto di parteciparvi. Se anche questo avvertimento solenne fallirà, occorrerà demandare il processo alla “chiesa” (nel contesto significa la comunità ecclesiale locale). Se il peccatore non accetta il verdetto della Chiesa, dovrà essere escluso dalla comunità. Le parole di scomunica sono stranamente in dissonanza con il tono generale dei vangeli, nei quali Gesù viene chiamato l’amico dei peccatori e dei pubblicani. Lo scopo della scomunica è sempre quello di aiutare il fratello e prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza ravvedersi. E’ l’unico scopo possibile e come potrebbe essere diversamente per una Chiesa che vuole imitare il pastore che va in cerca della pecora smarrita? Potremmo anche dire che lo scopo è di creare ai peccatori un disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno (cfr. la parabole del prodigo in Lc 15).
La prima parte del discorso (18, 1-14) ci ha mostrato con chiarezza che nella comunità cristiana sono spesso presenti le rivalità, gli scandali e i peccati. Come comportarsi di fronte a tutto questo? L’atteggiamento fondamentale da assumere è il perdono (18, 21-22), un perdono senza limiti (settanta volte sette) che assomiglia al perdono di Dio.
·        La parabole del servitore spietato (18, 23-25)
Questa parabola, propria di Matteo, è uno dei brani più severi dei vangeli. Sottolinea il dovere del perdona adducendo un altro motivo: il perdono concesso dall’uomo all’altro uomo è una condizione del perdono concesso da Dio all’uomo (v. 6,15: “Se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”). Il perdono di Dio, quindi, è il motivo e la misura del perdono fraterno. Dobbiamo perdonare agli altri perché sarebbe inconcepibile tenere per sé un dono immenso gratuitamente ricevuto. Dobbiamo perdonare senza misura, perché Dio ci ha già fatti oggetto di un perdono senza misura: è dal senso della gratuità del dono di Dio che nasce il perdono. Il contrasto fra i due quadri della parabola, infatti, non ha come scopo principale quello di far risaltare la diversità di comportamento nelle due diverse situazioni, intende piuttosto far rilevare quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo oggetto del perdono divino. Il servo è condannato perché tiene il dono per sé e non permette che il suo perdono diventi gioia e perdono anche per i fratelli. Bisogna invece imitare il comportamento di Dio (Mt 5, 43-48).
Possiamo concludere il discorso ecclesiastico con una seconda indicazione di vita comportamentale della comunità cristiana: all’esterno essa deve continuamente andare alla ricerca degli smarriti e all’interno deve alimentarsi continuamente col perdono reciproco.
Tavola sinottica
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