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Vangelo di Matteo

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 12:20
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25/11/2008 12:14

 
GIUDEA E GERUSALEMME (Mt 19, 1-25,46)
 
 SEZIONE NARRATIVA: viaggio a Gerusalemme (19, 1-23,39)
 
Dopo il discorso ecclesiastico si apre una nuova sezione narrativa, il cui tema principale è ancora la via della croce, difatti vi si trovano diversi richiami alla sequela e c’è una terza predizione della passione. Ma la sezione intende dare anche una risposta a un interrogativo: come si vive la croce nelle particolari situazioni della vita?
·        Matrimonio, divorzio e celibato (19, 1-12)
I farisei non chiedono se sia lecito o no sciogliere un matrimonio, per loro, infatti, la possibilità del divorzio è scontata. La loro domanda insidiosa (“per metterlo alla prova”) verte sulla possibilità di sciogliere il matrimonio “per qualsiasi motivo”. Per capire la domanda bisogna rifarsi alle discussioni teologiche e giuridiche dell’epoca: secondo l’opinione dottrinale che faceva capo a rabbi Hillel, era lecito il divorzio per qualsiasi motivo. Invece l’opinione più rigorosa che faceva capo a rabbi Shammai, esigeva per il divorzio determinate mancanze morali, quali per esempio l’adulterio. Ma, come si è detto, ai farisei non interessa tanto l’opinione di Gesù, quanto il costringerlo (“tentarlo”) a pronunziarsi per l’una o per l’altra opinione, in modo poi da poterlo accusare – in base alla risposta – di rigorismo o lassismo.
Gesù – come sempre nelle dispute in cui viene coinvolto – alla sterile e complicata casistica teologica oppone la riscoperta della genuina volontà di Dio, che orienta chiaramente in direzione dell’indissolubilità. La legge del divorzio è una concessione alla “la durezza del cuore”, una deviazione dall’istituzione originaria. Gesù, quindi, formula la legge dopo averle ridato il suo valore originale.
L’inciso del v. 9 (“eccetto in caso di concubinato”) ha sempre suscitato delle perplessità, ma quello che è certo è che l’eccezione che permette il divorzio in caso di concubinato, non è contemplata nella risposta di Gesù che conferma l’indissolubilità del matrimonio: “Quello che Dio ha congiunto l’uomo non lo separi”. (v. 6). Se Gesù ammettesse l’eccezione del concubinato sceglierebbe la corrente della scuola di Smammai, ma questo contrasta con tutto il contesto delle argomentazioni che porta Gesù sull’indissolubilità del matrimonio: “Il Creatore da principio li creò maschio e femmina…”.
Neanche i discepoli comprendono perché il divorzio debba essere permesso solo in casi eccezionali. La loro semplicistica conclusione fu che il celibato è preferibile a un matrimonio indissolubile.
Gesù conclude questa questione con un detto finale: “Chi vuol capire capisca”. Il matrimonio (e non solo il celibato) è qualcosa da “capire”, è risposta a una vocazione, ha il suo rischio (la sua indissolubilità) ed esige la capacità di penetrare nella logica della fede. Il matrimonio come ogni realtà è al servizio del Regno (unica preoccupazione dell’uomo), per cui uno può anche rinunciare al matrimonio. Il matrimonio, non è l’unica strada possibile dell’amore (c’è anche il celibato) e non è neanche la configurazione definitiva dell’amore (ma solo una sua espressione: il definitivo è il Regno). Relativizzando il matrimonio (il valore assoluto è solo Dio), Gesù non lo svuota e neppure lo diminuisce, ma lo colloca semplicemente al giusto posto.
·        Il giovane ricco (19, 16-30)
Questo brano contiene numerosi detti di Gesù sulla ricchezza. Matteo ritocca la formulazione di Marco (“Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”, Mc 10, 17-31), trasformandola leggermente: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Così l’aggettivo “buono” non è più rivolto a Gesù, ma alle cose da fare, e il giovane formula la domanda in termini di “opere buone” da fare. Gesù sembra invece voler attirare l’attenzione sul rapporto globale con Dio e con il prossimo, ma la sua insistenza è sul prossimo e lo si deduce da due osservazioni: la prima è che Gesù non elenca tutti i comandamenti, ma solo alcuni e questi si riferiscono al prossimo. La seconda  è che Gesù aggiunge un comandamento che non c’è nel decalogo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Il giovane (l’espressione di Mc, invece, “un tale” lasciano pensare a un uomo maturo più che a un giovane) sembra che vada alla ricerca di qualcosa di speciale, di una indicazione nuova e Gesù richiamandosi sia al suo insegnamento (6,19-21.24-34) sia alla pratica della Chiesa primitiva (At 2,44) invita il giovane a rinunciare alle ricchezze.
Matteo omette il particolare che di Mc (“Gesù lo fissò e lo amò”), ma aggiunge l’espressione: “Se vuoi essere perfetto”. Riferendo il termine “perfetto”, Matteo non vuole indicare una via speciale riservata a vocazioni particolari, ma parla semplicemente dell’ideale cristiano, della giustizia del discepolo che deve essere superiore a quella del fariseo e dello scriba. L’uomo non è invitato a seguire i “consigli evangelici”, ma a diventare un discepolo di Gesù, e l’invito, in questa occasione, è rifiutato.
·        La parabola degli operai nella vigna (20, 1-16)
Questa parabola appare solo in Matteo che interrompendo improvvisamente il filo di Mc 10, aggiunge questa parabola degli operai chiamati a lavorare a tutte le ore. Non è un’interruzione fatta a caso: la parabola, infatti, suggerisce al discepolo preoccupato della sua ricompensa (“Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne otterremo?”: 19,27) di non porre la questione in termini fiscali: dare e ricevere. Il regno di Dio ha altre leggi, che adesso vedremo.
Matteo dà alla parabola una sua interpretazione come appare dall’affermazione che apre e chiude la parabola stessa: “I primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi”. Il Regno rovescia le posizioni capovolgendo tutte le gerarchie di valori che l’uomo si è costruito. Dio ha un modo diverso, ha una giustizia diversa: per esempio preferisce i poveri ai ricchi, i peccatori ai farisei. Esattamente come Gesù che predica il regno alle folle senza nome, agli ammalati, ai poveri, ai pubblici peccatori. Ma questa lettura di Matteo (nata alla luce del solito problema: perché Dio ha trasferito il Regno ai pagani?) pur non essendo estranea interamente alla parabola, non raggiunge però il suo punto centrale. L’evangelista, infatti, fa leva su un particolare secondario: il padrone incominciò dagli ultimi anziché dai primi.
Il centro della parabola, invece, sta nella lamentela dei primi operai e la vera ragione della loro protesta non è perché sono stati pagati per ultimi, ma perché sono stati pagati con lo stesso salario degli ultimi. E’ questa la novità sconvolgente del vangelo: la proclamazione della misericordia e della grazia di Dio, che dona il suo regno ai pagani, ai peccatori, lo dona anche a chi, secondo noi, non lo meriterebbe.
Gli operai della prima ora non si lamentano per un danno subìto (hanno infatti pattuito un denaro e lo hanno ricevuto), ma piuttosto per un vantaggio accordato agli altri. Non pretendono ricevere di più, ma sono invidiosi che gli altri siano stati trattati come loro. Vogliono difendere una differenza, è questo che li irrita: la mancanza di distinzione. Il torto che credono di subire non consiste nel ricevere una paga insufficiente, ma nel vedere che il padrone è buono con gli altri: è l’invidia del giusto di fronte a un Dio che perdona i peccatori.
Letta così, la parabola non vuole anzitutto insegnarci come Dio si comporta, ma piuttosto come i giusti devono comportarsi di fronte alla misericordia di Dio e concretamente di fronte all’agire di Gesù, che va con i pubblicani e peccatori, e di fronte a un Regno che si apre ai pagani. “Il problema non è quello dei diritti e dei doveri di un padrone, ma quello della solidarietà che dovrebbe unire gli operai fra di loro” (J. Dupont), i fortunati con gli sfortunati, i giusti con i peccatori. I giusti non devono provare invidia, ma godere di fronte a un Padrone che perdona i fratelli peccatori.
Abbiamo in tal modo raggiunto il cuore della parabola, cioè la situazione storica, concreta della predicazione di Gesù, in altre parole, l’ambiente in cui è nata la parabola. Gesù, infatti, con questa parabola intende giustificare, di fronte ai farisei zelanti, il suo comportamento, la sua familiarità e la sua preferenza nei confronti dei peccatori. Egli non fa differenze fra giusti e peccatori, e di questo i giusti si sentono offesi: Gesù non sembra riconoscere la loro situazione privilegiata di fronte a Dio.
Oltre la situazione storica, abbiamo raggiunto la pretesa più profonda di Gesù, quella di essere il rivelatore della misericordia del Padre, quella di segnare con la propria venuta l’arrivo di un’ora eccezionale di grazia.
·        Il terzo annuncio della Passione (20, 17-28)
Il terzo annuncio della passione è molto più particolareggiato dei primi due: è un vero  e proprio riassunto del racconto della passione, di cui elenca tutte le sequenze e i personaggi. Subito dopo (ed è certamente un contrasto voluto) viene riportata la domanda dei figli di Zebedeo, una domanda che mostra con chiarezza come il discorso sulla croce non sia stato recepito. La replica di Gesù è chiara: i discepoli non devono preoccuparsi “di sedere alla sua destra o alla sua sinistra”, ma di bere il suo “calice”, di condividere il suo “battesimo”. La vera preoccupazione del discepolo deve essere quella di seguirlo, non altro. Ma lo sguardo di Gesù abbraccia tutto il gruppo dei discepoli, ai quali indica come comportarsi se vogliono veramente seguirlo. E’ probabile che l’evangelista intenda qui rivolgersi soprattutto a coloro che occupano nella comunità posti di autorità. La posizione del gruppo dirigente della Chiesa è opposta (“fra voi però non è così”) alla posizione dei governanti delle nazioni[25]. Il potere assoluto non deve essere esercitato dai capi della sua Chiesa. Se i capi vogliono sapere in che modo debbono usare la loro autorità devono tener presente che nella Chiesa le posizioni sociali sono capovolte: i capi della Chiesa devono essere schiavi[26]: questa è nella Chiesa la posizione appropriata per chi vuol essere il primo tra i discepoli. Gesù aggiunge che questa è la sua stessa posizione egli è diventato lo schiavo di tutti, e il servizio che gli fu imposto è il supremo sacrificio della vita. Il riscatto[27], il prezzo pagato, significa che Gesù descrive se stesso ridotto al livello di uno strumento con il quale gli altri raggiungono un loro scopo. Il valore della sua vita non è determinato dall’affermazione di sé, né dall’auto-esaltazione sia pure in senso legittimo, ma semplicemente in termini del suo valore per gli altri. Ciò delinea la figura dello schiavo che non poteva avere fini suoi personali da realizzare.
·        La guarigione di due ciechi (20, 29-34)
Questa guarigione, che avviene poco prima dell’ingresso in Gerusalemme, è l’ultimo miracolo di Gesù. Matteo ha abbreviato Mc (10, 46-52), con l’omissione del nome del cieco e dei dettagli pittoreschi, ma ha alcune varianti interessanti: parla per esempio di due uomini invece che di uno solo, aggiunge la menzione della compassione di Gesù e del suo toccare gli occhi.
Il racconto illustra il crescendo del riconoscimento messianico man mano che Gesù si avvicina a Gerusalemme. Persino i ciechi sanno chi sia Gesù e gli rivolgono il titolo messianico di “Figlio di David”.[28] Una volta guariti, i ciechi seguono Gesù: si uniscono cioè alla folla che si era radunata per accompagnare Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme. Gesù è pronto per entrare in Gerusalemme acclamato come il Messia perché egli dimostrerà fra poco in quale modo il Messia compirà il suo atto salvifico.
·        L’ingresso in Gerusalemme  (21, 1-9)
L’entrata di Gesù in Gerusalemme è presentata da Matteo con una grande precisione geografica. Egli viene dalla Galilea attraverso la Perea ed entra dalla porta orientale. Così evita di passare attraverso la Samaria. La strada che sale da Gerico a Gerusalemme, prima di giungere al monte degli Ulivi, devia a sinistra e passa per Betfage e poi per Betania.
Questo episodio è la continuazione di quello precedente, Mt colloca questi due episodi (i due ciechi e l’ingresso a Gerusalemme) in una sola giornata, la descrizione della quale termina in 21,17: “E, lasciatili, uscì fuori dalla città, verso Betania, e là trascorse la notte”. L’ingresso di Gesù assomiglia a una scena regale, e i molteplici riferimenti veterotestamentari (2 Re 9,13; Zac 9,9) ne mostrano il senso profondo: è il Messia che entra nella sua città, cosa che la folla sembra aver capito: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea” (21,11). I mantelli distesi sulle strade erano un’imitazione dei tappeti rossi coi quali si usavano onorare i re dell’antichità. Anche i rami avevano lo scopo di rendere più soffice la strada. E’ un fatto curioso che nessuno dei tre sinottici menzioni le palme (si parla di rami di alberi) che sono poi diventate tradizionali nella commemorazione liturgica della processione; esse sono menzionate in Gv 12,13. Questo Messia, però, è diverso, per molti aspetti inatteso, e dimostrerà la sua messianicità in modo del tutto nuovo e sconvolgente, il suo regno, il suo dominio, la sua regalità saranno completamente diverse da quelle che il popolo si aspettava.
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