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Vangelo di Matteo

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 12:20
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25/11/2008 12:15

La purificazione del tempio (21, 10-17)
Una delle cose che maggiormente impressionarono i contemporanei di Gesù fu la sua autorità con cui parlava e insegnava. I dottori della legge, quando insegnavano, cercavano il fondamento al loro insegnamento nella legge o nella tradizione. Gesù parlava e insegnava senza bisogno di tutto ciò. La sua parola aveva l’autorità in se stessa: “Avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico…” (c. 5).
La stessa autorità espressa nelle sue parole si manifesta nella sua condotta.
Il gesto di Gesù, più che un segno di purificazione, vuole essere un vero e proprio superamento del tempio[29] (cuore del giudaismo) e del suo culto. Gesù giustifica il suo gesto con una citazione dell’AT risultante dalla fusione di Is 56,7 e Ger 7,11. Mt omette deliberatamente la frase di Mc 11,17 “per tutte le genti”. Il culto del vero Dio deve essere proclamato attraverso Gesù il Messia e non attraverso il tempio di Gerusalemme.
Il gesto di Gesù è un gesto messianico ed equivale alla sua dichiarazione di supremazia nei confronti della legge (v. 5, 17-42; 12, 1-14; 12, 22-37). Egli manifesta anche la sua autorità non solo sulla legge, ma anche sul tempio, la seconda grande istituzione del giudaismo di quel tempo. Ciò porta a un interrogativo sulla sua autorità (21, 23-27). Mediante gesti di questo tipo Gesù mostra che egli non riconosce nessuna delle autorità esistenti nel giudaismo, perché egli possiede un’autorità superiore e chiara.
·        La maledizione del fico (21, 18-22)
Questo episodio è così difficile da capire che in Lc viene omesso, in Mc la pianta è trovata seccata quando il gruppo le passa accanto il giorno dopo e in Mt il fico secca all’istante alle parole di Gesù. A quanto pare Mc ha trasformato un detto profetico[30]in un miracolo al rallentatore mentre Mt in un miracolo istantaneo. La lezione tratta dall’episodio, però, è identica in Mt e in Mc, malgrado le variazioni matteane. Il detto è simbolico, non è la sterilità del fico che Gesù condanna ma la religiosità (tutta foglie) del giudaismo che è arrivato alla sua crisi finale, e si è reso sterile. 
·        L’autorità di Gesù (21, 23-27)
La domanda dei gran sacerdoti e degli anziani (Mc aggiunge “scribi”) sull’autorità di Gesù dovrebbe essere più propriamente collocata subito dopo la purificazione del tempio, inserita invece qui, essa si riferisce a tutte le parole e le azioni di Gesù. La risposta di Gesù è un contro-interrogativo sul mandato di Giovanni Battista: se essi accettano il mandato divino del Battista, si auto-condannano, perché non lo hanno creduto, se invece lo negano rischiano di scatenare lo sdegno della gente. Ecco allora la loro risposta: “Non lo sappiamo”: si sono dichiarati incapaci di raggiungere una decisione riguardante la figura più in vista del loro tempo davanti a Gesù stesso. Questa dichiarazione di incompetenza, dispensa Gesù da qualsiasi obbligo di sottomettersi al loro giudizio. Così il rifiuto di Gesù di rispondere all’interrogativo sul suo mandato è una tacita negazione dell’autorità dei suoi interroganti. Se sono dei capi religiosi, maestri della legge e rappresentanti del culto, dovrebbero essere in grado di discernere i veri, dai falsi profeti.
Questa è la prima delle cinque controversie che ebbero luogo nei giorni che precedettero la passione.
·        La parabola dei due figli (21, 28-32)
Questa parabola che si trova soltanto in Mt, è la prima delle tre parabole che hanno lo stesso tema di base: l’accoglienza e il rifiuto del Regno. Il primo fratello incarna gli osservanti farisei, che sono ubbidienti a parole ma non nei fatti, il secondo, invece, incarna i peccatori che si convertono ascoltando il monito della parola di Dio. Da una parte, quindi, i capi giudaici, dall’altra le classi disprezzate dei pubblicani e delle prostitute. Questi ultimi seguono la via che Giovanni[31] indica per essere giusti: il pentimento; i giudei, invece, professano ma non compiono, osservano la legge non le opere della fede. La vita secondo la legge va completata con il pentimento proclamato da Giovanni e da Gesù, come condizione necessaria per entrare nel Regno.
Nella sua forma attuale la parabola riflette indubbiamente la fede dei pagani contrapposta alla miscredenza dei giudei. Anche oggi, a volte, i peccatori si mostrano più disponibili dei praticanti.
·        La parabola dei vignaioli perfidi (21, 33-46)
Diversi tratti di questa seconda parabola rispecchiano la situazione palestinese. Quando si pianta una vigna, viene eretto un muricciolo a sua protezione, vi si scava una buca per la pigiatura, e se la vigna è vasta, vi si erige una torre di guardia per tenere lontani i ladri. Ma più importanti di questi tratti sono i riferimenti veterotestamentari della parabola. L’immagine della vigna era già stata utilizzata da Osea (10,10) e poi ampiamente ripresa da Isaia, Geremia, Ezechiele e dal Salmo 80.
La parabola, però, sembra soprattutto riferirsi al famoso canto della vigna di Isaia (5, 1-7). Il profeta descrive la monotona storia del suo popolo: da una parte l’amore di Dio e dall’altra il continuo tradimento del popolo. E’ una storia – conclude il profeta – che non può continuare all’infinito: la pazienza di Dio ha un limite e ci sarà un giudizio. Dio si aspettava uva pregiata ed invece ebbe uva scadente. A questo punto non resta che il castigo: la vigna cadrà in rovina, non sarà più coltivata e vi cresceranno pruni e rovi.
Fin qui il canto di Isaia. Nella parabola evangelica vengono precisati due punti:
- il castigo non consiste semplicemente in una generica disobbedienza del popolo di Dio, ma nel fatto che questo popolo ha tolto di mezzo i suoi profeti e – alla fine – addirittura uccide il Messia. E’ un duro giudizio su Israele ed è un perenne avvertimento per gli stessi cristiani.
- Il secondo punto consiste nel fatto che il Regno sarà tolto ai capi d’Israele e sarà dato ai pagani, sarà tolto ai vicini e passerà ai lontani. Anche questo è un duro giudizio su Israele e un perenne monito ai cristiani. Dio è fedele al suo popolo, ma non al punto che il suo disegno di salvezza venga interrotto. Se i cristiani rifiutano, le sue esigenze di verità e giustizia troveranno altrove il modo di esprimersi.
·        La parabola della festa nuziale (22, 1-14)
La discordanza tra Mt e Lc in questa parabola è talmente grande, che siamo portati a concludere che Mt ha ampiamente rielaborato il racconto. Invece di una cena Mt ha una festa di nozze reali; in aggiunta alle scuse addotte dagli invitati in Lc, Matteo inserisce la variante dell’uccisione dei messaggeri e nella guerra che ne segue (“Il re mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”). Questo particolare rappresenta con tutta probabilità la distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani nel 70 d.C.
Anche questa terza parabola si muove nella stessa direzione della precedente. Due sono le scene che la compongono:
- la prima rappresenta un banchetto nuziale per il figlio del re (richiamo trasparente alla venuta di Cristo). Ricordiamo che già nell’AT l’alleanza con Dio era raffigurata da immagini nuziali, e Isaia (25,6) presentava sotto il simbolo di un banchetto l’ éra messianica perfetta. La risposta all’invito divino a partecipare al banchetto è dura e negativa, al punto che ci si accanisce perfino sui servi che comunicano l’invito, cioè i profeti (come già era accaduto nella parabola precedente dei vignaioli). Il re, in risposta, dà alle fiamme la loro città.
- nella seconda scena il re procede a nuovi inviti: tutti, buoni e cattivi, sono convocati alle nozze, è ormai l’apertura a tutti i popoli. Tuttavia, anche per costoro vale la necessità di un’adesione autentica e totale (rappresentata dal simbolo del mutamento di veste), cioè della propria realtà interiore, secondo il valore biblico di questa immagine: le opere della giustizia devono accompagnare la fede (cfr 3,8; 5,20; 7,21ss; 13,47ss; 21,28ss). L’essere entrati nella sala non è ancora una garanzia: occorre essere in ordine, convertiti, vigilanti. La veste nuziale significa tutto questo.
·        Il tributo a Cesare (22, 15-22)
Questa è la seconda (la prima riguardava l’autorità di Gesù, v. 21 23-27) delle cinque narrazioni di controversie presenti in questa sezione. Il racconto è preso da Mc (12, 13-17) con leggere modifiche; Lc (20, 20-26) lo ha maggiormente alterato.
Farisei ed erodiani[32] sottopongono a Gesù una questione scottante, ma la loro intenzione è ipocrita, essi, infatti, non cercano una risposta, ma vogliono semplicemente mettere in imbarazzo Gesù. Il tranello è chiaro: rispondendo negativamente, Gesù avrebbe suscitato la reazione delle autorità romane; rispondendo positivamente, avrebbe perso la simpatia della folla. La risposta di Gesù è completamente inattesa, e coglie di sorpresa i suoi interlocutori. Egli rigetta sia la posizione degli erodiani che quella dei zeloti. La moneta che reca l’immagine di Cesare indica l’orizzonte economico-politico che ha una sua autonomia. Tuttavia questa autonomia deve sempre confrontarsi con l’orizzonte dell’uomo che dipende direttamente da Dio come sua immagine e che, quindi, è tutelato dal Signore stesso nella sua dignità superiore alle leggi economiche. Lo Stato non può erigersi a valore assoluto: ogni potere politico – romano o no – non può arrogarsi diritti che competono soltanto a Dio. Lo Stato non può assorbire tutto il cuore dell’uomo, né sostituirsi alla sua coscienza.
Questa posizione di Gesù contribuì ad orientare le prime comunità cristiane al rifiuto di posizioni anarchiche (Rm 13,7; 1 Pt 2, 13-14) e alla denuncia del potere divinizzato (Ap 18, 1-3).
·        Matrimonio e risurrezione (22, 23-33)
I sadducei[33]negavano la risurrezione dei morti perché la legge scritta non ne parlava, anzi citando Gen 3,19: “Sei polvere e in polvere ritornerai” facevano anche dell’ironia[34] (Mt 22,28). I farisei al contrario concepivano la risurrezione in termini materiali, citando testi biblici molto famosi, come ad esempio Ez 37,8: “Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva…) e Gb 10,11.
 Gesù risolve il caso affermando che il matrimonio non perdura anche dopo la morte. Il concetto qui è in relazione con quello espresso da Paolo in 1 Cor 15, 35-50 dove viene affermata la risurrezione, ma viene pure asserita una trasformazione del corpo: “Né la carne né il sangue possono ereditare il regno”. L’esempio degli angeli si riferisce a una vita in cui il sesso non ha alcuna parte. L’espressione “essere come angeli del cielo” non vuole indicare, però, l’assenza dell’elemento corporeo, altrimenti si negherebbe la risurrezione e si affermerebbe la sola immortalità dell’anima di tipo platonico.
Oltre a questa spiegazione, che possiamo definire “teologica”, Gesù ne dà un’altra di tipo “esegetica”. I sadducei negavano la risurrezione perché la legge non ne parlava. La replica di Gesù, invece, che cita Es 3,6 è basata proprio sulla legge scritta. I patriarchi erano già morti da molto tempo quando Dio parlò a Mosè, e tuttavia, Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Ciò non sarebbe possibile se essi avessero cessato di esistere, devono pertanto vivere in qualche modo diverso dalla vita del corpo terrestre. I sadducei non furono in grado di replicare a Gesù, né potevano spiegare questo testo, perché secondo la loro dottrina non esisteva alcuna relazione tra Dio e i morti.
·        Il comandamento principale (22, 34-40)
E’ la quarta narrazione di una controversia. Nelle scuole teologiche del tempo si poneva la questione del primato dei vari precetti religiosi, i rabbini, infatti, contavano nella legge 613 comandamenti, dei quali 248 erano precetti positivi e 365 erano proibizioni. Questi comandamenti erano suddivisi in “lievi” e “gravi” secondo l’importanza della materia. Questo tipo di domanda era normale nelle discussioni rabbiniche.
La risposta di Gesù è racchiusa in due citazioni della legge (Dt 6,5 e Lv 19,18) che formano il fondamento della nuova morale del vangelo.
Il testo di Dt 6,5 forma una parte dello Shema, cioè la professione di fede del popolo ebraico: “Ascolta Israele… amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore…”.
La novità dell’affermazione di Gesù non consiste nell’aver citato questo comandamento, qualsiasi rabbino avrebbe giudicato ciò una risposta eccellente. La novità consiste, invece, nell’aver collocato Lv 19,18: “…Amerai il prossimo tuo come te stesso” sullo stesso livello di Dt 6,5: “Amerai Dio con tutto il tuo cuore”.
Nella letteratura giudaica non esiste alcun parallelo a questa formulazione di Gesù, che presenta, cioè,  i due comandamenti come se fossero in realtà uno solo. E solo Matteo aggiunge che da questi due comandamenti “dipende” tutta la legge e i profeti: vale a dire l’intera rivelazione dell’AT. Le opere buone hanno valore in quanto opere di amore di Dio e del prossimo.
·        Il figlio di David (22, 41-46)
Questa è la quinta e ultima narrazione di una controversia. Fino a questo punto Gesù ha risposto a delle domande, ora è egli stesso che propone ai farisei una questione di esegesi (“Di chi è figlio il Messia?”) alla quale non sanno rispondere. Secondo l’interpretazione comune (Il Salmo messianico 110), il Messia è figlio di Davide, ma Gesù osserva, come mai in quel Salmo Davide lo chiama “Signore”? Alcuni commentatori propendono per l’origine trascendente di Cristo, che attua in pienezza il detto di quel Salmo perché, pur essendo discendente di Davide secondo la carne, lo supera nella sua dignità di Figlio di Dio, divenendo così suo Signore. Ma, il punto centrale della narrazione sta nel fatto che i farisei non furono in grado di risolvere un elementare problema esegetico. Gesù dimostra in tal modo che essi non sono maestri competenti di religione, persino la loro decantata abilità di interpreti va in frantumi. Non possono, pertanto, erigersi a giudici dell’identità del Messia se non sono neppure in grado di interpretare un testo messianico. Non ha senso qualsiasi loro presa di posizione nei confronti di Gesù, accettato o meno come Messia, perché essi non sanno comprendere le Scritture nelle quali il Messia è rivelato.
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