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Vangelo di Matteo

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 12:20
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25/11/2008 12:19

RACCONTO DELLA PASSIONE (Mt 26, 1-27,66)
 
Gli studiosi della Bibbia sono generalmente d’accordo nell’affermare che questa parte della tradizione evangelica fu la prima in ordine di tempo ad acquistare una struttura fissa. Nessuna parte della vita di Gesù è redatta con uguale abbondanza di dettagli e con uguale concordanza delle fonti. Lo spazio assegnato al racconto della passione in Marco in rapporto al resto del suo vangelo è indice del ruolo importante che questa narrazione ebbe nella Chiesa apostolica; la sproporzione è notevole pure in Matteo, anche se minore. La predicazione primitiva di Gesù era incentrata sul racconto della morte e della risurrezione. Questo fu il grande atto salvifico di Dio e il punto culminante dell’azione salvifica nella storia della salvezza. Paolo disse che egli predicava Cristo e questi crocifisso (1 Cor 2,2).
Il racconto della passione in Matteo contiene alcuni ampliamenti suoi propri. Alcuni di questi sono leggendari, altri sono il frutto di un’interpretazione di testi di “compimento” delle Scritture dell’AT simile a quella notata frequentemente nei racconti dell’infanzia, e con meno frequenza in altre parti del vangelo.
Il racconto della passione non è un resoconto delle parole di Gesù, benché Gesù parli più frequentemente in Matteo che in Marco. Potrebbe sembrate strano a noi, ma in effetti i vangeli non contengono alcuna esposizione teologica della passione, né attraverso le parole di Gesù né utilizzando le parole degli altri. Ciò fu demandato all’insegnamento apostolico, il che risulta chiaramente dalle lettere di Paolo.
·        Il complotto delle autorità giudaiche (26, 1-5) 
I vangeli sinottici premettono al racconto vero e proprio della passione un’ampia introduzione che assolve a un compito molto importante: creare cioè la cornice in cui leggere la passione e offrire inoltre la chiave per comprenderla in profondità. Gli episodi che formano questa introduzione sono il complotto dell’autorità, l’unzione a Betania, il tradimento di Giuda, l’istituzione dell’Eucarestia, la predizione dell’abbandono dei discepoli. Questi episodi introduttivi sono percorsi da una specie di contrasto carico di significato: da una parte il complotto, il tradimento e l’abbandono di Pietro e dei discepoli, dall’altra la volontà di Gesù di donarsi per gli uomini.
Nel racconto del complotto Mt (26, 1-5) ampia Mc (14, 1-2) in misura notevole. Matteo aggancia immediatamente questo brano al discorso precedente (“Terminati tutti questi discorsi”). La predizione di Gesù (26,2), propria di Matteo, è un’introduzione solenne al racconto ed è controbilanciata dalla decisione delle autorità giudaiche: egli sa ciò che stanno tramando ed è padrone della situazione. I fautori del complotto sono Caifa, qui nominato solo da Mt, i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo[39] (Mc “i grandi sacerdoti e gli scribi”).
·        L’unzione di Betania (26, 6-16) 
Il racconto dell’unzione figura in tutti e quattro i vangeli. Lc lo colloca nel primo periodo del ministero di Gesù (7, 36-50), non fa il nome dell’ospitante e identifica la donna con una peccatrice. Gv lo situa prima della passione (12, 1-18), ma lo descrive come accaduto nella casa di Marta e Maria a Betania, e identifica la donna come Maria. Mt segue Mc, l’ospitante è Simone il lebbroso e la donna non è né nominata né identificata come una peccatrice.
Gesù gradisce il gesto, nello spirito in cui fu inteso, anche se egli era contrario al lusso (Mt nota che il profumo[40] era molto costoso), ed egli giustifica quest’atto di prodigalità con un’allusione alla sua morte e sepoltura imminenti, ed è per questo che l’accetta.
Frattanto si consuma il tradimento, soltanto Matteo precisa la somma che Giuda riceve (“trenta monete d’argento”[41]) per la consegna di Gesù.
·        L’istituzione dell’Eucarestia (26, 17-35)
Per quattro volte Gesù parla dl tradimento, ma il centro della scena rappresentato dalle parole che Cristo pronunzia sul pane azzimo e sulla coppa di vino che facevano parte del rituale della cena ebraica. La Pasqua è la più solenne festa ebraica e viene celebrata con un preciso rituale che rievoca le meraviglie compiute da Dio nella liberazione dalla schiavitù egiziana (Esodo 12). La sua celebrazione si protrae dal 14 al 21 del mese di Nisan (marzo-aprile), in essa si consumava l’agnello, precedentemente sgozzato nel tempio. La Pasqua è anche detta “festa degli Azzimi”, perché è permesso mangiare solo pane senza lievito (in greco azjmos).
Perciò, come gli israeliti dovevano ricordare il significato di quel pasto singolare circondato di solennità, così Gesù spiega il senso della nuova cena pasquale, nella quale si distinguono i punti seguenti:
a)                Gesù rende partecipi del suo destino i suoi discepoli: “Io vi dico: non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò con voi, nuovo, nel regno di mio Padre” (v. 29).
b)               Il sangue di Gesù è sparso in remissione dei peccati. Solo Matteo sottolinea questo  carattere sacrificale della cena pasquale. Il sacrificio era dono della vita per un’altra vita: così si afferma il potere sostitutivo del sacrificio di Gesù, come anche il suo valore espiatorio ( Cristo muore in croce al posto nostro e il suo sacrificio in croce era diretto a ottenere la liberazione e la purificazione delle nostre colpe).
c)                La cena inaugura la nuova alleanza. Per questo è detta “sangue dell’alleanza”. Quello che si attendeva per il futuro: un nuovo ordine di cose nel quale Dio mettesse la sua legge nel cuore e perdonasse i peccati, è giunto con questa cena pasquale.
d)               L’ultimo punto è messo più chiaramente in evidenza con la contrapposizione intenzionale fra l’antica (Es 24,8; Zc 9,11) e la nuova alleanza. Le due alleanze furono sigillate col sangue. La prima col sangue di animali, la nuova col sangue di Gesù. Cristo in persona è la nuova alleanza, come era stato annunziato del servo di Jahwè (Is 42,6; 49, 7-8). Egli è dunque il servo di Jahwè. Il sangue è sparso per molti[42]. E’ un semitismo che equivale a tutti.
L’espressione “il mio corpo” e “il mio sangue”, nel linguaggio del tempo, era sinonimo di “io stesso”. La vita di Gesù messo a morte può essere assimilata attraverso l’assunzione del pane e del calice.
·        Al Getsemani (26, 36-46) 
Questo episodio è di grande importanza per capire la passione che segue. Mentre la Trasfigurazione (17, 1-9) rivelava, in anticipo, la gloria del Figlio dell’uomo pur incamminato verso la croce, qui viene rivelata la profonda umanità del Cristo, la sua “debolezza”. Il racconto ci manifesta anche la reazione intima di Gesù di fronte agli avvenimenti dolorosi che incombono: è la passione interiore del Maestro. I racconti che seguono (processo, condanna, insulti, crocifissione) sono la superficie della passione, i fatti, la cronaca. Qui, invece, viene svelata la reazione intima di Gesù, nei racconti, che cosa gli uomini fecero a Gesù, nel Getsemani come egli reagì nel proprio animo. Infine c’è un terzo aspetto, non più cristologico come i primi due, ma ecclesiale: riflette la lezione di vita che la comunità cristiana ricava dalla meditazione del Getsèmani. Come il Cristo, mediante la preghiera al Padre, superò vittoriosamente il momento decisivo della prova, così il discepolo deve fare altrettanto.
Questi aspetti sono tipici di Matteo, ma comuni anche a Mc (14, 32-42). Due sono le caratteristiche di Mt: ha sostituito qualche vocabolo migliorando la struttura delle frasi; l’altra caratteristica è che Mt presenta Gesù meno disorientato di come appare in Mc. Attenua il turbamento di Gesù, lo presenta addolorato e triste, ma non pervaso da “paura e disorientamento” come in Mc.
·        L’arresto di Gesù (26, 47-56) 
L’evangelista Marco racconta i fatti nella loro cruda realtà, senza commento. Matteo segue lo schema di Marco, punto per punto, però lo interpreta e lo commenta, mediante parole poste in bocca a Gesù. Con una parola, Gesù mette in risalto il tradimento di Giuda: “Amico per questo sei qui?” (26,50). E’ forse un’allusione al Salmo 55, la preghiera di un uomo tradito dagli amici  più cari che solo confida nell’amicizia di Dio: “Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato, se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente, ci legava una dolce amicizia, insieme camminavamo gioiosi verso la casa del Signore”.
Gesù parla al discepolo che ha sfoderato la spada (26, 52-54) rimproverandolo e spiegandogli la via che il Messia deve percorrere in obbedienza alle Scritture. Gesù rifiuta la tentazione zelota che invitava alla violenza: quella di Gesù è la via della croce non della forza. E se Gesù si lascia arrestare è solo per libera decisione, non per impotenza, ma per obbedire al piano divino di salvezza. Gesù vive fino in fondo la debolezza dell’amore perché è in esso si svela la forza di Dio.
La sezione che va dalla cena all’arresto va letta come un unico blocco, ma con due tematiche che si intrecciano continuamente: il tradimento da una parte e il dono di Gesù dall’altra.
·        Gesù davanti al Sinedrio (26, 57-75)
I Vangeli non hanno l’intenzione di riferirci tutti i fatti, né l’ordine esatto in cui si sono svolti. Hanno scelto quei fatti che, alla luce della Risurrezione e dello Spirito, furono compresi come più importanti. E nel raccontarli hanno scelto non un ordine cronologico ma kerigmatico (un annuncio), atto a condurre alla fede. Così non è facile ordinare gli eventi del Getsemani, dell’arresto, del processo giudaico e romano, e metterli in sintonia con la giurisprudenza giudaica del tempo. E neppure è molto facile concordare fra loro i quattro racconti evangelici. E’ necessario distinguere la sostanza dei fatti e il modo con cui sono stati raccontati: i Vangeli sono un intreccio di storia e di fede, di racconto e di interpretazione teologica. Non è corretto, constatando la presenza di un’interpretazione teologica, negarne la sostanziale storicità: sono fatti interpretati ma fatti.
Appena arrestato, Gesù è condotto nel palazzo di Caifa, sommo sacerdote, presso il quale si erano già radunati alcuni membri del Sinedrio, non tutti, ma certo i più influenti (26,57). Non si tratta di un vero e proprio processo, ma piuttosto di un’istruttoria preliminare e informale. Il diritto giudaico proibiva i dibattiti processuali durante la notte. Il vero processo si tenne al mattino, come anche Mt ha cura di ricordare (“Venuta la mattina, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani tennero consiglio contro Gesù per farlo morire”: 27,1).
Il racconto si sviluppa in due scene strettamente e intenzionalmente congiunte: nella prima il protagonista è Caifa e nella seconda è Pietro. Al centro sta la scena, breve e drammatica di Gesù deriso e oltraggiato. La scena di Pietro è introdotta sin dall’inizio: “Pietro lo seguiva da lontano fino al cortile del Sommo sacerdote, poi vi entrò e si sedette con le guardie per vedere come andava a finire” (26,58). In tal modo il tradimento di Pietro fa da cornice al processo di Gesù.
L’evangelista Matteo segue in tutto il racconto di Marco, eccetto piccole modifiche: precisa che il Sommo Sacerdote era Caifa  che Pietro entrò nel cortile e si fermò a scaldarsi “per vedere come sarebbero andate a finire le cose”. Mt ci dice anche, brutalmente, che il Sinedrio cercava una “falsa testimonianza”. Per Mt il processo fu una caricatura, un consapevole oltraggio alla verità. A riguardo, infine, della solenne proclamazione di Gesù, l’evangelista aggiunge: “D’ora innanzi vedrete il figlio dell’uomo”. Per Mt la gloria di Gesù e il suo giudizio non sono rimandati a un lontano futuro.
Fin dall’inizio, dunque, ci viene detto che il processo è condotto in modo insincero: non è soltanto un’annotazione storica, ma un avvertimento. I capi dei sacerdoti e gli anziani cercavano una falsa testimonianza, un capo d’accusa che giustificasse la legalità dell’arresto. Naturalmente avevano motivi per condannarlo, ma non erano motivi legali: la costante opposizione ai loro privilegi, la simpatia della folla, la lucidità dei suoi giudizi. Queste sono le vere ragioni della condanna, ma sono ragioni da nascondere dietro pretesti più nobili.
L’unico capo d’accusa che riescono a trovare è una parola di Gesù sulla distruzione del tempio, accusa che verrà ripresa con ironia dai passanti sotto la croce (27,40).
Di fronte alle accuse Gesù tace. Il particolare allude al Servo di Jahwè, di cui parla Isaia 53,7: “Maltrattato egli accettò l’umiliazione e non aprì la sua bocca, come un agnello condotto al macello”.
Il Sommo Sacerdote chiede a Gesù, sotto solenne giuramento, di manifestare con chiarezza la sua identità. Questa volta Gesù esce dal silenzio, accetta la definizione di Caifa, si riconosce in essa, ma insieme la supera: per definire il Cristo si deve passare dal piano semplicemente messianico al piano divino. In questa risposta sulla sua messianicità, Cristo ricorre a due passi biblici: il primo è il Salmo 110,1 (testo regale-messianico), il secondo, desunto dal profeta Daniele (7,13), è più forte perché presenta un aspetto divino che, applicato a un uomo, risulta blasfemo. E’ per questo che Caifa incrimina Gesù per bestemmia (e il testo sembra lasciar trasparire la sua gioia di aver finalmente trovato un consistente capo d’accusa) e si strappa le vesti: Gesù di Nazaret si fa uguale a Dio, si arroga dei compiti che sono propri di Dio.
In questo modo si conclude un’istruttoria che, anziché rivelare la colpevolezza di Gesù, mette in luce la sua piena dignità.
·        Gesù davanti a Pilato (27, 1-32) 
 Matteo non racconta il processo romano subito dopo il processo giudaico. Inserisce fra i due un’ampia parentesi (l’impiccagione di Giuda 27, 3-10). Il posto scelto per la collocazione di questo episodio non ha alcun fondamento cronologico, ma serve per illuminare sia la pericope precedente (processo giudaico) sia quella seguente (processo romano). Matteo vuole mostrare che il processo fu ingiusto, un tradimento e Giuda lo riconosce per primo: “Ho tradito il sangue innocente” (v. 4), e lo riconoscono anche i sacerdoti: “Non è lecito mettere queste monete nella cassa del tempio perché sono prezzo di sangue” (v. 6). Ma rilevare che il processo di Gesù fu un tradimento non basta. Non è ancora una lettura in profondità, Matteo aggiunge che questo ingiusto processo fa parte del piano di Dio e compie le Scritture (vv. 9-10): è questa la lettura profonda dell’episodio. In definitiva non è Israele che giudica Gesù, ma è Gesù che giudica Israele: il tradimento ricade su chi lo compie (vv. 5 e 25).
Il racconto del processo di Gesù di fronte a Pilato sviluppa il tema della regalità di Gesù: il titolo “re dei giudei” appare all’inizio del racconto (27,11) e alla fine (27,29). L’evangelista non perde occasione per sottolineare che Gesù è innocente. La moglie di Pilato lo chiama “uomo giusto” (27,19), e Pilato stesso ne riconosce pubblicamente l’innocenza (27,24). Gesù è condannato innocente dal suo popolo e dall’atteggiamento contraddittorio di Pilato, il quale apre il processo con una chiara intenzione di obiettività e si sforza di sottrarre il Cristo alla condanna. Ma appena è posto in causa personalmente (“Vedendo che a nulla giovava ma che, al contrario, ne nasceva un tumulto” v. 24), la sua obiettività viene meno: c’è una ragione di Stato che prevale sulla verità e la giustizia. Pilato non è in alcun modo disposto a perdere se stesso.
Nella scelta tra Gesù e Barabba, Mt precisa che il rifiuto è corale (v. 20). E’ tutto il popolo che condanna il Messia, non solo i capi.
I giudei avevano consegnato Gesù a Pilato, ora Pilato lo consegna ai soldati per la crocifissione. Ma prima del viaggio al Calvario, l’evangelista racconta una seconda scena di oltraggio (vv. 27-31), parallela alla scena precedente che faceva seguito al processo giudaico: là si derideva Gesù profeta, qui Gesù re. E’ una scena importante, in  un certo senso al centro di tutta la sezione, e riunisce i due temi maggiori che l’evangelista va svolgendo, cioè la rivelazione della regalità di Gesù e il suo rifiuto da parte del mondo.
La scena degli oltraggi non esprime soltanto fino a che punto Gesù fu rifiutato e fino a che punto egli si umiliò. Intende dimostrare fino a che punto la regalità di Dio, che è  apparsa in Gesù, è diversa dagli schemi comuni: è diversa al punto da sembrare una burla. Ma questa diversità Gesù l’aveva fatta intendere in precedenza (20, 25-28): “Voi sapete che i capi delle nazioni… dominano; tra voi però non deve essere così… chi vuol diventare grande tra voi si faccia servo…”. C’è dunque una radicale differenza fra la regalità del mondo e quella di Cristo: quella del mondo si manifesta nella potenza, nella imposizione, nella salvezza di sé; la regalità di Cristo si manifesta nel servizio, nell’amore, nel rifiuto della potenza. Ecco perché il mondo rifiuta la regalità di Cristo, non la comprende, addirittura la considera una regalità da burla. Ed ecco perché gli stessi discepoli sono spesso tentati di modificare la regalità di Gesù, di farla somigliante a quella del mondo, nel tentativo di renderla più convincente ed efficace.
·        La Crocifissione e la morte di Gesù (27, 33-61) 
Matteo, riproduce tutte le sequenze del racconto di Marco, e perciò, il senso fondamentale della sua narrazione è il medesimo. Tuttavia, come è sua abitudine, rilegge e annota. Si può dire che nessuna sequenza sia priva di qualche annotazione.
A convincerci che il racconto di Matteo è simile a quello di Marco basta uno sguardo d’insieme: Gesù è nel più totale abbandono, è insultato dai passanti, i quali rilanciano contro di lui l’accusa dei falsi testimoni al processo. Lo insultano gli scribi i farisei e gli anziani, e nella loro voce e in quella dei passanti, risuona la medesima voce di Satana che già ha parlato nel deserto (4, 1-11): “Se sei figlio di Dio…”.
Il viaggio verso il calvario è detto brevemente con una frase di passaggio. Anche Matteo riporta l’episodio del Cireneo, ma ne tralascia i tratti non essenziali: che l’uomo di Cirene era padre di Alessandro e Rufo, e che stava tornando dai campi. Conserva, però, il verbo più importante (“lo costrinsero”), che pone l’episodio nella giusta prospettiva, impedendo di vedere nel Cireneo una qualsiasi figura di discepolo.
L’episodio del Cireneo non è ricordato da Mc e Mt per suggerire come il discepolo debba “portare la croce dietro a Gesù”. L’episodio, piuttosto, mette in luce la prostrazione di Gesù, sfinito al punto da indurre i soldati a costringere un passante a portare la croce al suo posto.
Una volta giunti al Calvario, qualcuno offre a Gesù vino mescolato con “fiele”. Marco parlava di “mirra”, Matteo di fiele: un piccolo cambiamento che rende più esplicito il riferimento al Salmo 69,22: “Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto”. Gesù “lo assaggiò, ma non ne volle bere”. Perché questo particolare? Si trattava di una bevanda, una sorta di narcotico,, che veniva pietosamente offerta ai condannati per attenuare la loro sofferenza. E’ dunque un gesto di pietà e Gesù lo gradisce: “lo assaggiò”. Tuttavia egli vuole offrirsi al Padre e agli uomini in piena lucidità, e perciò non lo beve.
In Marco la crocifissione era descritta con un solo verbo: “E lo crocifissero”. A Matteo basta addirittura un semplice participio passato: “Dopo averlo crocifisso”. Matteo vuole che lo sguardo sia, non per la crocifissione che non descrive, ma tutto per il Crocifisso, dove lui scorge il compimento della profezia del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”.
La ragione della condanna è espressa con particolare solennità: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”. Marco diceva più semplicemente “Il re dei Giudei”.
Per descrivere gli insulti, Matteo, come già Marco, utilizza tre verbi diversi, in parte sinonimi: “bestemmiare” (27,39), che indica oltraggio verso qualcosa di sacro; “prendersi beffa di lui” (27,41) e il terzo utilizzato dai ladroni “lo oltraggiavano” (27,44). Tutti coloro che lo negano, riconoscono che Gesù ha preteso una filiazione divina. I sacerdoti, dunque, senza volerlo, manifestano la profonda verità di Gesù.
Gesù è in croce fra due malfattori crocifissi come lui (27,38). Nella sua vita fu schernito e accusato di essere “amico dei pubblicani e peccatori” (11,19), e ora muore in loro compagnia. Matteo commenta la morte di Gesù ricorrendo ai medesimi passi veterotestamentari di Marco: i Salmi 68 e 22 e Isaia 53.
Il grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (27,46) è stato interpretato da molti come un grido di disperazione, ma non è così, a escluderlo basta ricordare che l’intero racconto della passione ha sullo sfondo la figura del giusto sofferente, che è figura dell’uomo abbandonato, non del disperato. Non c’è dubbio che il grido di Gesù sia stato una preghiera: una preghiera gridata, ma sempre una preghiera. Ma a differenza di molte preghiere veterotestamentarie, egli non invoca da Dio vendetta, né giustizia, ma la sua compagnia. Il grido di Gesù sulla croce è rivolto solo a Dio e a Lui non chiede aiuto ma presenza. La preghiera di Gesù è la domanda del perché della sofferenza innocente, della verità sconfitta, dell’amore inutile. La domanda di Gesù è la domanda dell’uomo, condividendo questa radicale domanda dell’uomo, il Figlio di Dio ha mostrato tutta la sua solidarietà con l’uomo.
Come nel vangelo di Marco, anche nel racconto di Matteo Gesù muore con un alto grido: “Ma Gesù, avendo di nuovo gridato con voce forte, emise lo spirito” (27,50).
Per dire la morte, Marco ha usato il verbo “spirare”, Matteo invece usa un’espressione più sottile: “emise (o consegnò) lo spirito”. Lo spirito è il soffio della vita che viene da Dio (Gen 2,27) e il verbo “afiemi” significa “emettere” e “consegnare”. Ovviamente anche la formula di Matteo dice semplicemente il morire, ma lo dice religiosamente. L’uomo riconsegna a Dio il soffio ricevuto da lui in dono.
Nel suo racconto della crocifissione Matteo ci ha già offerto due chiavi di lettura: la disposizione delle scene e i riferimenti alle Scritture. Al termine della narrazione ce ne offre una terza, forse più importante: nel cuore stesso dello scandalo si fa strada la vittoria. La luce scaturisce subito dopo che le tenebre divennero più fitte. Due segni testimoniano che la morte di Gesù è salvezza: il velo del tempio che si lacera[43], e il riconoscimento della sua filiazione divina da parte dei soldati pagani.
Il segno della rottura del velo del tempio non è modificato rispetto a Marco, se non per il fatto che qui si trova strettamente congiunto al terremoto, che scuote la terra e spacca le rocce, e alla risurrezione dei morti. In tal modo la fine del tempio è davvero giunta ma si apre una prospettiva nuova.
Molto modificato il secondo segno che Matteo riprende da Marco: la confessione del centurione (27,54). Non solo il centurione, ma l’intero corpo di guardia (“e quelli con lui”) riconoscono il Figlio di Dio nel Crocifisso. In Marco il segno che ha svelato al centurione l’identità di Gesù è stata la sua stessa morte. “Vedendolo morire in quel modo”. In Matteo, invece, sono i segni che hanno seguito la morte: “alla vista del terremoto e di quanto accadeva”. In Marco è stata la “debolezza” di Gesù a svelare la “potenza” di Dio. In Matteo il rapporto è rovesciato: è la potenza di Dio che ha svelato il senso della debolezza della croce. Ma il significato alla fine è lo stesso. La debolezza della croce nasconde il grande evento della salvezza.
Il terremoto[44] e la risurrezione sono nella letteratura profetica e apocalittica due segni classici che indicano l’avvento di un mondo nuovo. La croce è il grande evento che tutto rinnova e capovolge: questo è il messaggio che Matteo – ricorrendo a immagini bibliche che i suoi lettori erano in grado di decifrare -  vuole comunicarci. Non soltanto crolla la barriera sacra (“il velo del tempio”) che separava i vicini a Dio dai lontani, ma nasce una nuova umanità (le tombe che si aprono e i morti che risorgono). Tutto dice che la croce è l’istante in cui crolla il mondo vecchio per far posto a un mondo nuovo. Le reminiscenze bibliche sono diverse, ma può bastarci la grande visione di Ez 37, 11-14: “Aprirò i vostri sepolcri… E riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai sepolcri”. Questo è proprio ciò che avviene ai piedi della croce: si aprono i sepolcri, risorgono i morti e il Signore è riconosciuto. La differenza è che il Signore, che qui è riconosciuto, è Gesù, il Crocifisso. La croce è il momento della nascita del nuovo mondo, l’istante in cui il mondo nuovo si affaccia. E la risurrezione non è solo quella di Gesù, ma anche la nostra. In quella di Gesù è racchiusa la risurrezione finale, nella quale sono coinvolti gli uomini e il mondo.
Il corpo di Cristo viene deposto nella tomba di un discepolo benestante, Giuseppe d’Arimatea. Testimoni della sepoltura sono non solo Giuseppe d’Arimatea e le donne, ma anche il presidio dei soldati, posti a custodia della tomba su richiesta giudaica. La “Parasceve” è il giorno che precede o “prepara” il sabato. Con l’accenno alle guardie al sepolcro, fatto dal solo Matteo, l’evangelista vuole sottolineare la validità indiscutibile della risurrezione.
Nell’episodio delle guardie presso la tomba di Gesù (26, 62-66), Matteo rivela un chiaro intento polemico. Egli scrive in un ambiente in cui circolava la diceria del furto del cadavere (“I suoi discepoli sono venuti di notte e lo hanno trafugato mentre noi dormivamo”: 28,13): una diceria, nota Matteo, “diffusa tra i giudei sino ad oggi” (v. 15).
Questo intento polemico fa da cornice all’intera pericope. Lo troviamo all’inizio (27, 62-66): “Ordina che il sepolcro sia tenuto al sicuro, perché i suoi discepoli non vengano a rubare il corpo e dicano: è risorto”. Ed è ribadito alla fine: le guardie sono invitate a sostenere l’idea del trafugamento.
Ma in realtà le guardie – poste al sepolcro per sventare il trafugamento del cadavere – sono costrette a farsi testimoni della risurrezione: “Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono e caddero come morte” (28,4). Sono proprio loro che corrono ad annunciare ai sacerdoti l’accaduto (v. 11). E solo perché comprate (“Diedero ai soldati una forte somma”) sostengono la versione del trafugamento.
Con questo Matteo mette in luce la realtà della risurrezione e insieme mostra come il rifiuto di Gesù – da parte delle autorità giudaiche – continua: un rifiuto lucido, in mala fede e che non disdegna la calunnia e la corruzione.
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