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Padre Raniero Cantalamessa (Riflessioni sull'Avvento 2007)

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 20:06
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“Beati voi che ora piangete!”

2006-12-15- I Predica di Avvento alla Casa Pontificia

Iniziamo, con questa meditazione, un ciclo di riflessione sulle beatitudini che, a Dio piacendo, proseguiremo nella prossima Quaresima. Le beatitudini hanno conosciuto, all’interno stesso del Nuovo Testamento, uno sviluppo e delle applicazioni diverse, a seconda della teologia del singolo evangelista o dei bisogni nuovi della comunità. Ad esse si applica quello che san Gregorio Magno dice di tutta la Scrittura, che cioè essa “cum legentibus crescit” [1] , cresce con coloro che la leggono, rivela sempre nuove implicazioni e più ricchi contenuti, a seconda delle istanze e delle domande nuove con cui la si legge.

Mantener fede a questo principio significa che anche oggi noi dobbiamo leggere le beatitudini alla luce delle situazioni nuove in cui ci troviamo a vivere, con la differenza, s’intende, che le interpretazioni degli evangelisti sono ispirate, e perciò normative per tutti e per sempre, mentre quelle di oggi non condividono tale prerogativa.

1. Un nuovo rapporto tra piacere e dolore

Tralasciando la beatitudine dei poveri che abbiamo meditato in un precedente Avvento, ci concentriamo sulla seconda beatitudine: “Beati gli afflitti perché saranno consolati” (Mt 5, 4). Nel vangelo di Luca, dove le beatitudini, in numero di quattro, sono sotto forma di discorso diretto e sono rafforzate da un guai, la stessa beatitudine suona così: “Beati voi che ora piangete, perché riderete”. “Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete” (Lc 6, 21.25).

Il messaggio più formidabile è racchiuso proprio nella struttura di questa beatitudine. Essa ci permette di cogliere la rivoluzione che il vangelo ha operato nei riguardi del problema di piacere e dolore. Il punto di partenza - comune sia al pensiero religioso che a quello profano -, è la constatazione che in questa vita piacere e dolore sono inseparabili; si susseguono l’un l’altro con la stessa regolarità con cui al sollevarsi di un’onda nel mare segue un avvallamento e un vuoto che risucchia il naufrago in mare.

L’uomo cerca disperatamente di staccare questi due fratelli siamesi, di isolare il piacere dal dolore. Ma invano. È lo stesso piacere disordinato che si ritorce contro di lui e si trasforma in sofferenza, o improvvisamente e tragicamente, o un po’ alla volta, in quanto è per sua natura transitorio e genera stanchezza e nausea. È una lezione che ci viene dalla cronaca quotidiana e che l’uomo ha espresso in mille modi nella sua arte e nella sua letteratura. “Un non so che d’amaro - ha scritto il poeta pagano Lucrezio - sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia già nel mezzo delle nostre delizie”[2].

La Bibbia ha una risposta da dare a questo che è il vero dramma dell’esistenza umana. C’è stata, fin dall’inizio, una scelta dell’uomo, resa possibile dalla sua libertà, che lo ha portato a orientare esclusivamente verso le cose visibili la capacità di gioia, di cui era stato dotato perché aspirasse a godere del Bene infinito che è Dio.

Al piacere, scelto contro la legge di Dio e simboleggiato da Adamo ed Eva che gustano del frutto proibito, Dio ha permesso che seguissero il dolore e la morte, più come rimedio che come punizione. Perché non avvenisse, cioè, che, seguendo a briglie sciolte il suo egoismo e il suo istinto, l’uomo si distruggesse del tutto e distruggesse ognuno il suo prossimo. Così al piacere vediamo ormai aderire, come la sua ombra, la sofferenza.

Cristo ha finalmente spezzato questa catena. Egli, “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce” (Ebrei 12, 2). Fece, insomma, il contrario di ciò che fece Adamo e che fa ogni uomo. “La morte del Signore – ha scritto san Massimo il Confessore –, a differenza di quella degli altri uomini, non era un debito pagato per il piacere, ma piuttosto qualcosa che era gettato contro il piacere stesso. E così, attraverso questa morte, cambiò il destino meritato dall’uomo”[3]. Risorgendo da morte, egli ha inaugurato un nuovo genere di piacere: quello che non precede il dolore, come sua causa, ma lo segue come suo frutto.

Tutto questo è meravigliosamente proclamato dalla nostra beatitudine che alla sequenza riso – pianto, oppone la sequenza pianto - riso. Non si tratta di una semplice inversione dei tempi. La differenza, infinita, sta nel fatto che nell’ordine proposto da Gesú è il piacere, non la sofferenza, ad avere l’ultima parola e, quel che più conta, un’ultima parola che dura in eterno.

2. “Dov’è il tuo Dio?”

Ma adesso cerchiamo di capire chi sono esattamente gli afflitti e i piangenti proclamati beati da Cristo. Gli esegeti escludono oggi, quasi unanimemente, che si tratti di afflitti solo in senso oggettivo o sociologico, gente che Gesú proclamerebbe beata per il solo fatto di soffrire e di piangere. L’elemento soggettivo, cioè il motivo del pianto, è determinante.

E qual è questo motivo? La via più sicura per scoprire quale pianto e quale afflizione sono proclamati beati da Cristo è di vedere perché si piange nella Bibbia e perché ha pianto Gesú. Scopriamo così che c’è un pianto di pentimento come quello di Pietro dopo il tradimento, un “piangere con chi piange” (Rom 12, 15) cioè di compassione per il dolore altrui, come pianse Gesú con la vedova di Nain e con le sorelle di Lazzaro; il pianto di esiliati che anelano alla patria, come quello degli ebrei sui fiumi di Babilonia…E tanti altri.

Io vorrei mettere in luce due dei motivi per cui si piange nella Bibbia e per cui ha pianto Gesú che mi sembrano particolarmente da meditare nel momento storico che stiamo vivendo.
Nel salmo 41 leggiamo:

“Le lacrime sono mio pane giorno e notte,
mentre mi dicono sempre: ‘Dov'è il tuo Dio?’...
Per l'insulto dei miei avversari
sono infrante le mie ossa;
essi dicono a me tutto il giorno: ‘Dov'è il tuo Dio?’”.
Mai questa tristezza del credente per il rifiuto spavaldo di Dio intorno a lui ha avuto tanta ragion d’essere come oggi. Dopo il periodo di relativo silenzio seguito alla fine dell’ateismo marxista, stiamo assistendo a un ritorno di fiamma di un ateismo militante e aggressivo, di marca in genere scientifica o scientistica. I titoli di alcuni libri recenti sono eloquenti: “Trattato di ateologia”, “L’illusione di Dio”, “La fine della fede”, “Creazione senza Dio”, “Un’etica senza Dio” [4]…

In uno di questi trattati si legge la seguente dichiarazione: “Le società umane hanno elaborato vari mezzi ordinari di conoscenza, generalmente condivisi, attraverso cui si può accertare qualcosa. Chi afferma l’esistenza di un essere non conoscibile con quegli strumenti, deve accollarsi l’onere della prova. Per questo mi pare legittimo sostenere che, fino a prova contraria, Dio non c’è” [5].

Con gli stessi argomenti si potrebbe dimostrare che neppure l’amore esiste, dal momento che non è accertabile con gli strumenti della scienza. Il fatto è che la prova dell’esistenza di Dio non si trova nei libri e nei laboratori di biologia, ma nella vita. Nella vita di Cristo prima di tutto, dei santi, e degli innumerevoli testimoni della fede. Si trova anche nella tanto disprezzata prova dei segni e dei miracoli che Gesú stesso dava come prova della sua verità e che Dio continua a dare ma che gli atei rigettano a priori, senza neppure darsi pena di esaminarla.

Motivo di tristezza del credente, come per il salmista, è l’impotenza che sperimenta di fronte alla sfida: “Dov’è il tuo Dio?” Con il suo misterioso tacere Dio chiama il credente a condividere la sua debolezza e sconfitta, promettendo solo a queste condizioni la vittoria. “La debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1, 25).

3. “Hanno portato via il mio Signore!”

Non meno doloroso è oggi, per il credente cristiano, il rifiuto sistematico del Cristo della fede, in nome di una ricerca storica obbiettiva che, in certe forme, si riduce alla cosa più soggettiva che si possa immaginare: “fotografie degli autori e dei loro ideali”, come nota il Santo Padre nelle pagine introduttive del suo prossimo libro su Gesú. Assistiamo a una gara a chi riesce a presentare un Cristo più a misura dell’uomo d’oggi, spogliandolo di ogni prerogativa trascendente. Alla domanda degli angeli: “Donna, perché piangi?”, Maria di Magdala il mattino di Pasqua rispose: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (Gv 20, 13). Un motivo di pianto che potremmo fare nostro.

È sempre esistita la tendenza a rivestire Cristo dei panni della propria epoca o della propria ideologia. In passato però, per quanto discutibili, erano cause serie e di grande respiro: il Cristo idealista, romantico, liberale, socialista, rivoluzionario…La nostra epoca, ossessionata dal sesso, non riesce a pensarlo che alle prese con problemi sentimentali. “Ancora una volta Gesú è stato modernizzato o, meglio, postmodernizzato” [6].

È bene conoscere da dove viene questa corrente recente che fa di Gesú di Nazareth il terreno di prova degli ideali postmoderni di relativismo e individualismo assoluti (il cosiddetto decostruzionismo) e che, direttamente o indirettamente, sta ispirando romanzi, film e spettacoli e influenza anche delle inchieste storiche su di lui. Si tratta di un movimento nato negli Stati Uniti negli ultimi decenni del secolo scorso, che ha nel “Jesus Seminar”, Seminario su Gesú, il suo punto di aggregazione più attivo.

Lo si è definito “neoliberalismo”, per il suo ritorno al Gesú della teologia liberale ottocentesca: un Gesú propagatore di idee morali, non più però di grande respiro, come nel liberalismo classico (paternità di Dio, valore infinito dell’anima umana), ma di una sapienza spicciola, di portata sociologica, più che teologica. Lo scopo di questi studiosi non è più semplicemente correggere, ma distruggere, come dicono loro, “quello sbaglio chiamato cristianesimo”.

Molto significativo il discorso programmatico fatto dal fondatore del movimento nel 1985:

“Stiamo per avventurarci in un’impresa di grande portata. Vogliamo semplicemente e vigorosamente metterci alla ricerca della voce di Gesú, di quello che egli disse veramente. In questo processo, porremo delle domande al limite della dissacrazione e perfino della bestemmia agli orecchi di molti nella nostra società. Di conseguenza il cammino che seguiremo potrebbe rivelarsi rischioso. Potrebbe nascere dell’ostilità, ma noi procederemo a dispetto dei pericoli perché il problema di Gesú è lì che ci sfida, come il Monte Everest sfida la cordata degli scalatori [7].
Gesú è liberato non più solo dai dogmi della Chiesa, ma anche dalle Scritture e dai vangeli. Quali fonti restano, a questo punto, per parlare di lui, che non sia la pura e semplice fantasia? Naturalmente, gli apocrifi e, in primo luogo, il Vangelo di Tommaso, datato addirittura, secondo essi, negli anni 30-60 dopo Cristo, prima di tutti i vangeli canonici e dello stesso Paolo; poi l’analisi sociologica delle condizioni di vita in Galilea al tempo di Cristo.

Quale immagine di Gesú se ne ricava? Cito alcune delle definizioni che sono state date, non tutte, naturalmente, condivise da tutti: “un eccentrico galileo”, “il proverbiale festaiolo”, un “saggio vagabondo o sovversivo”, il “maestro di una sapienza aforistica”, “un contadino giudeo imbevuto di filosofia cinica” [8].

Resta da spiegare il mistero come mai un essere così innocuo sia finito sulla croce e abbia potuto diventare “l’uomo che ha cambiato il mondo”. La cosa per cui c’è veramente più da piangere non è che si scrivano queste cose (bisogna pure inventare qualcosa di nuovo se si vuole continuare a scrivere libri); è che, una volta pubblicati, questi libri si vendano a centinaia di migliaia, se non milioni, di copie.

L’incapacità della ricerca storico-filologica di raccordare il Gesú della realtà con il Gesú delle fonti evangeliche e della Chiesa dipende, a mio parere, dal fatto che essa ignora la dinamica dei fenomeni spirituali e soprannaturali. Sarebbe come voler ascoltare un suono con gli occhi o vedere un colore con gli orecchi.

Lo studio e l’esperienza dei fenomeni spirituali e mistici mostra come tutto uno sviluppo posteriore, nella vita della persona stessa o del movimento nato da essa, può essere contenuto in un evento, a volte in un attimo (quando si tratta di un incontro con il divino), di cui solo in seguito, dai frutti, si rivelano le potenzialità nascoste. I sociologi vanno vicino a questa verità con il concetto dello statu nascenti [9].

Il bambino o l’uomo adulto si presenta in modo molto diverso dall’embrione che gli ha dato origine, eppure tutto era contenuto e programmato in esso. Allo stesso modo il regno è all’inizio “il più piccolo di tutti i semi”, ma è destinato a crescere e diventare un albero grande (Mt 13,32).

La nascita del movimento francescano si presta per un confronto, naturalmente su un piano qualitativamente diverso. Le fonti francescane presentano divergenze e contraddizioni quasi su ogni punto della vita del Poverello: sulla visione e la parola del crocifisso di S. Damiano, sull’episodio delle Stimmate…. Di nessuna parola del santo, eccetto le poche scritte di suo pugno, si è sicuri che siano uscite dalla sua bocca. I Fioretti sembrano tutta una idealizzazione della storia.

Eppure tutto quello che è sbocciato intorno e dopo Francesco - il movimento francescano con i suoi riflessi nella spiritualità, nell’arte, nella letteratura - dipende da lui; non è che una manifestazione – e anche impoverita – delle energie spirituali messe in moto dalla sua persona e dalla sua vita; meglio, da quello che Dio aveva fatto nella sua vita.

Molti, perfino tra gli studiosi credenti, danno per scontato che il Gesú reale sia stato, e abbia preteso di essere, molto meno di quello che è scritto di lui nei vangeli, che non si sia attribuito questo e quest’altro titolo. La verità è che egli è immensamente più, non meno, di quello che è scritto di lui! Chi è il Figlio, lo sa solo il Padre e lo sanno, in piccola parte, anche coloro ai quali il Padre lo voglia rivelare, in genere non i dotti e gli scienziati, a meno che anch’essi si facciano piccoli…

Paolo diceva di provare nel cuore “un grande dolore e una sofferenza continua” per il rifiuto di Cristo da parte dei suoi connazionali (Rom 9, 1s.); come non provare lo stesso dolore per il rifiuto di lui da parte di tanti nostri contemporanei, nei paesi di antica fede cristiana? Per un motivo simile - per non aver riconosciuto in lui il proprio amico e salvatore - Gesú pianse su Gerusalemme…

Per fortuna sembra proprio che si stia chiudendo ormai un ciclo e si stia voltando pagina nelle ricerche su Gesù. In un’opera, in tre volumi di un migliaio di pagine ciascuno, intitolata “Gli albori del cristianesimo” (“Christianity in the Making”) destinata a fare epoca come altri suoi studi precedenti, uno dei massimi studiosi viventi del Nuovo Testamento, James Dunn, dopo una serrata analisi dei risultati degli ultimi tre secoli di ricerche, giunge alla conclusione che non c’è stata mai alcuna cesura tra il Gesú predicante e il Gesú predicato e, quindi, tra il Gesú della storia e quello della fede. La fede non è nata dopo la Pasqua, ma con i primi incontri dei discepoli con il Nazareno. Essi sono divenuti discepoli proprio perché hanno creduto in lui, per quanto all’inizio si trattasse di una fede fragile e ancora ignara delle sue implicazioni.

Il contrasto tra Cristo della fede e Gesú della storia è il risultato di una “fuga dalla storia”, prima ancora che di una “fuga dalla fede”, dovute, l’una e l’altra, al fatto di aver proiettato su Gesú interessi e ideali del momento. Sì liberava, sì, Gesú dei panni della dommatica ecclesiastica, ma per mettergli addosso vestiti di moda che cambiavano a ogni stagione. L’immenso sforzo di ricerca profuso intorno alla persona di Cristo non è stato tuttavia vano perché è proprio grazie ad esso che ora, esplorate tutte le soluzioni alternative, siamo in grado di giungere criticamente a questa conclusione [10].

4. “Piangano i sacerdoti, ministri del Signore”

C’è anche un secondo pianto nella Bibbia sul quale dobbiamo riflettere. Ce ne parlano i profeti. Ezechiele riferisce la visione che ebbe un giorno. La voce potente di Dio grida a un misterioso personaggio “vestito di lino e con una borsa da scriba in mano”: “Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono” (Ez 9, 4).

Questa visione ha avuto risonanze profonde nel seguito della rivelazione e della Chiesa. Quel segno, il tau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico, per la sua forma di croce, diviene nell’Apocalisse il “sigillo del Dio vivente” impresso sulla fronte dei salvati (Ap 7, 2 s.).

La Chiesa ha “pianto e sospirato” in tempi recenti per gli abomini commessi nel suo seno da alcuni dei suoi stessi ministri e pastori. Ha pagato un prezzo altissimo per questo. È corsa ai ripari, si è data regole ferree per impedire che gli abusi si ripetano. È venuto il momento, dopo l’emergenza, di fare la cosa più importante di tutte: piangere davanti a Dio, affliggersi come si affligge Dio; per l’offesa fatta al corpo di Cristo e lo scandalo recato “ai più piccoli dei suoi fratelli”, più che per il danno e il disonore arrecato a noi.

È la condizione perché da tutto questo male possa davvero venire del bene e si operi una riconciliazione del popolo con Dio e con i propri sacerdoti.

“Suonate la tromba in Sion,
proclamate un digiuno,
convocate un'adunanza solenne...
Tra il vestibolo e l'altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al vituperio
e alla derisione delle genti” (Gl 2, 15-17).

Queste parole del profeta Gioele contengono un appello per noi. Non si potrebbe fare lo stesso anche oggi: indire un giorno di digiuno e di penitenza, a livello locale e nazionale, dove il problema è stato più forte, per esprimere pubblicamente pentimento davanti a Dio e solidarietà con le vittime, operare insomma una riconciliazione degli animi e riprendere un cammino di Chiesa, rinnovati nel cuore e nella memoria?

Mi danno il coraggio di dire questo le parole pronunciate dal Santo Padre all’episcopato di una nazione cattolica in una recente visita ad limina: ”Le ferite causate da simili atti sono profonde, ed è urgente il compito di ristabilire la confidenza e la fiducia quando queste sono state lese…In tal modo la Chiesa si rafforzerà e sarà sempre più capace di dare testimonianza della forza redentrice della Croce di Cristo” [11].

Ma non dobbiamo lasciare senza una parola di speranza anche gli sventurati fratelli che sono stati la causa del male. Sul caso di incesto avvenuto nella comunità di Corinto l’Apostolo sentenziò: “Questo individuo sia dato in balìa di satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore” (1 Cor 5,5). (Oggi diremmo: sia consegnato alla giustizia umana, perché la sua anima ottenga la salvezza). La salvezza del peccatore, non il suo castigo, stava a cuore all’Apostolo.

Un giorno che predicavo al clero di una diocesi che aveva molto sofferto per questa ragione, mi colpì un pensiero. Questi nostri fratelli sono stati spogliati di tutto, ministero, onore, libertà, e Dio solo sa con quanta effettiva responsabilità morale, nei singoli casi; sono diventati gli ultimi, i reietti…Se in questa situazione, toccati dalla grazia, si affliggono per il male causato, uniscono il loro pianto a quello della Chiesa, la beatitudine degli afflitti e di coloro che piangono diventa di colpo la loro beatitudine. Potrebbero essere vicini a Cristo che è l’amico degli ultimi, più di tanti altri, me compreso, ricchi della propria rispettabilità e forse portati, come i farisei, a giudicare chi sbaglia.

C’è una cosa però che questi fratelli dovrebbero assolutamente evitare di fare e che qualcuno, purtroppo, sta cercando invece di fare: approfittare del clamore per trarre vantaggi anche dalla propria colpa, rilasciando interviste, scrivendo memoriali, nel tentativo di far ricadere la colpa sui superiori e sulla comunità ecclesiale. Questo rivelerebbe una durezza di cuore davvero pericolosa.

5. Le lacrime più belle

Termino accennando a un diverso tipo di lacrime. Si può piangere di dolore, ma anche di commozione e di gioia. Le lacrime più belle sono quelle che ci riempiono gli occhi quando, illuminati dallo Spirito Santo, “gustiamo e vediamo quanto è buono il Signore” (Sal 34, 9).

Quando si è in questo stato di grazia ci si stupisce che il mondo e noi stessi non cadiamo in ginocchio e non piangiamo tutto il tempo di stupore e di commozione. Lacrime di questo tipo dovevano scendere dagli occhi di Agostino quando scriveva nelle Confessioni: “Quanto ci hai amato, o Padre buono, che non hai risparmiato il tuo unico Figlio, ma lo hai dato per tutti noi. Quanto ci hai amato!” [12].

Lacrime come queste versò Pascal la notte che ebbe la rivelazione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe che si rivela per le vie del vangelo e su un foglietto di carta (trovato cucito all’interno della giacca dopo la sua morte) scrisse: “Gioia, gioia, lacrime di gioia!”. Io penso che anche le lacrime con cui la peccatrice bagnò i piedi di Gesú non erano lacrime solo di pentimento, ma anche di gratitudine e di gioia.

Se in cielo si può piangere, è di questo pianto che è pieno il paradiso. A Istambul, l’antica Costantinopoli, dove il Santo Padre si è recato giorni fa, visse intorno all’anno mille san Simeone il Nuovo Teologo, il santo delle lacrime. Egli è l’esempio più fulgido nella storia della spiritualità cristiana delle lacrime di pentimento che si trasformano in lacrime di stupore e di silenzio. “Piangevo –racconta in una sua opera – ed ero in una gioia inesprimibile” [13]. Parafrasando la beatitudine degli afflitti, egli dice: “Beati coloro che sempre piangono amaramente i loro peccati, perché li afferrerà la luce e trasformerà le lacrime amare in dolci” [14]

Che Dio ci conceda di gustare, una volta lmeno nella vita, queste lacrime di commozione e di gioia.




1. Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, 20,1 (CC 143 A, p. 1003).
2. Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
Massimo il Confessore, Capitoli vari, IV cent. 39; in Filocalia, II, Torino 1983, p. 249.
3. Rispettivamente di Michel Onfray, di Richard Dawkins, Sam Harris, Telmo Pievani, Eugenio Lecaldano.
4. Carlo Augusto Viano, Laici in ginocchio, Laterza, Bari.
5. J. D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I,1, Brescia, Paideia 2006, p. 81.
6. Robert Funk, Discorso inaugurale del Marzo 1985, a Berkeley in California.
7. Cfr. J. D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I, 1, Brescia 2006, pp. 75-82.
8. Cf. F. Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti, Milano 1981.
9. Cfr. Dunn, Christianity in the Making, Grand Rapids, Michigan 2003.
10. Sono usciti in italiano i primi due volumi del primo tomo con il titolo Gli albori del cristianesimo, I, La memoria di Gesú, vol. 1: Fede e Gesú storico; I, 2: La missione di Gesú, Paideia, Brescia 2006.
11. Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della conferenza episcopale di Irlanda, sabato 28 ottobre 2006.
12. Agostino, Confessioni, X, 43.
13. Simeone, il Nuovo Teologo, Ringraziamenti, 2 (SCh 113, p. 350).
14. Simeone, il Nuovo Teologo, Trattati etici, 10 (SCh 129, p. 318).
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25/11/2008 20:01

Beati gli operatori di pace perchè saranno chiamati figli di Dio
2006-12-22- II Predica di Avvento alla Casa Pontificia


1. Il messaggio per la giornata mondiale della pace

Le beatitudini non sono disposte secondo una successione logica. Eccetto la prima che da il tono a tutte le altre, esse si possono considerare ognuna separatamente, senza che il loro senso sia minimamente compromesso. Il messaggio del papa per la giornata mondiale della pace mi ha spinto a rimandare ad altra occasione la riflessione sulla terza beatitudine, quella dei miti, per dedicare questo incontro alla beatitudine degli operatori di pace. È bene infatti che il messaggio della pace, destinato a tutto il mondo, sia anzitutto accolto, meditato e porti frutti qui tra noi, al centro della Chiesa.

Quello di quest’anno è un messaggio per la pace a tutto campo; spazia dall’ambito personale a quelli più vasti della politica, dell’economia, dell’ecologia, degli organismi internazionali. Ambiti diversi, ma unificati dal fatto di avere tutti come oggetto primario la persona umana, da cui il titolo del messaggio “La persona umana, cuore della pace”.

C’è nel messaggio un’affermazione fondamentale che è come la chiave di lettura di tutto; dice:

“La pace è insieme un dono e un compito. Se è vero che la pace tra gli individui ed i popoli — la capacità di vivere gli uni accanto agli altri tessendo rapporti di giustizia e di solidarietà — rappresenta un impegno che non conosce sosta, è anche vero, lo è anzi di più, che la pace è dono di Dio. La pace è, infatti, una caratteristica dell'agire divino, che si manifesta sia nella creazione di un universo ordinato e armonioso come anche nella redenzione dell'umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del peccato. Creazione e redenzione offrono dunque la chiave di lettura che introduce alla comprensione del senso della nostra esistenza sulla terra” [1].
Queste parole aiutano a capire la beatitudine degli operatori di pace, e questa, a sua volta, getta una luce singolare su queste parole. L’imminenza del Natale da un tono particolare, liturgico, alla nostra meditazione. Nella notte di Natale ascolteremo le parole dell’inno angelico: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore”, il cui senso non è: sia pace, ma è pace; non un augurio, ma una notizia. “Il Natale del Signore, diceva san Leone Magno- è il natale della pace”: Natalis Domini natalis est pacis [2]. Mediteremo sulla pace come dono e compito.

2. Chi sono gli operatori di pace

La settima beatitudine suona: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”. Insieme con quella dei misericordiosi, questa è l’unica beatitudine che non dice tanto come bisogna ”essere” (poveri, afflitti, miti, puri di cuore), quanto cosa si deve “fare”. Il termine eirenopoioi significa coloro che lavorano per la pace, che “fanno pace”. Non tanto, però, nel senso che si riconciliano con i propri nemici, quanto nel senso che aiutano i nemici a riconciliarsi. “Si tratta di persone che amano molto la pace, tanto da non temere di compromettere la propria pace personale intervenendo nei conflitti al fine di procurare la pace tra quanti sono divisi” [3].

Operatori di pace non è dunque sinonimo di pacifici, cioè di persone tranquille e calme che evitano il più possibile i contrasti (questi sono proclamati beati da un’altra beatitudine, quella dei miti); non è sinonimo neppure di pacifisti, se per pacifisti si intendono quelli che si schierano contro la guerra (più spesso, contro uno dei contendenti in guerra!), senza fare nulla per riconciliare tra loro i contendenti. Il termine più giusto è pacificatori.

Al tempo del Nuovo Testamento pacificatori erano detti i sovrani, soprattutto l’imperatore romano. Augusto metteva in cima alle proprie imprese quella di aver stabilito nel mondo la pace, mediante le sue vittorie militari (parta victoriis pax) e a Roma fece erigere la famosa Ara pacis, l’altare della pace.

Qualcuno ha pensato che la beatitudine evangelica intenda opporsi a questa pretesa, dicendo chi sono i veri operatori della pace e in che modo essa viene promossa: mediante vittorie, sì, ma vittorie su se stessi, non sui nemici, non distruggendo il nemico, ma distruggendo l’inimicizia, come fece Gesù sulla croce (Ef 2, 16).

Oggi prevale però l’opinione che la beatitudine vada letta tenendo conto della Bibbia e delle fonti giudaiche, in cui aiutare persone in discordia a riconciliarsi e a vivere in pace è visto come una delle principali opere di misericordia. Sulla bocca di Cristo la beatitudine degli operatori di pace discende dal comandamento nuovo dell’amore fraterno, è una modalità in cui si esprime l’amore del prossimo.

In tal senso si direbbe che questa è per eccellenza la beatitudine della Chiesa di Roma e del suo vescovo. Uno dei servizi più preziosi resi alla cristianità dal papato è stato sempre quello di promuovere la pace tra le diverse chiese e, in certe epoche, anche tra i principi cristiani. La prima lettera apostolica di un papa, quella di san Clemente I, scritta intorno al 96 (prima ancora, forse, del Quarto Vangelo), fu scritta per riportare la pace nella Chiesa di Corinto dilaniata da discordie. È un servizio che non si può rendere senza un qualche potere reale di giurisdizione. Per rendersi conto della sua preziosità basta guardare le difficoltà che sorgono là dove esso è assente.

La storia della Chiesa è ricca di episodi in cui chiese locali, vescovi o abati, in lite tra di loro o con il proprio gregge, sono ricorsi al papa come arbitro di pace. Anche oggi, sono sicuro, questo è uno dei servizi più frequenti, anche se dei meno conosciuti, resi alla Chiesa universale. Anche la diplomazia vaticana e i nunzi apostolici trovano la loro giustificazione nell’essere strumenti a servizio della pace.

3. La pace come dono

Ma Dio stesso, non un uomo, è il vero e supremo “operatore di pace”. Proprio per questo quelli che si adoperano per la pace sono chiamati “figli di Dio”: perché somigliano a lui, imitano lui, fanno quello che fa lui. Il messaggio pontificio dice che la pace è caratteristica dell’agire divino nella creazione e nella redenzione, cioè sia nell’agire di Dio che in quello di Cristo.
La Scrittura parla della ”pace di Dio” (Fil 4,7) e più spesso ancora del “Dio della pace” (Rom 15,32). Pace non indica solo ciò che Dio fa o dà, ma anche ciò che Dio è. Pace è ciò che regna in Dio. Quasi tutte le religioni fiorite intorno alla Bibbia conoscono mondi divini in guerra al loro interno. I miti cosmogonici babilonesi e greci parlano di divinità che si fanno guerra tra loro. Nella stessa gnosi eretica cristiana, non c’è unità e pace tra gli Eoni celesti, e l’esistenza del mondo materiale sarebbe proprio il frutto di un incidente e di una disarmonia occorsi nel mondo superiore.

Su questo sfondo religioso si può meglio cogliere la novità e l’alterità assoluta della dottrina della Trinità come perfetta unità d’amore nella pluralità delle persone. In un suo inno, la Chiesa chiama la Trinità “oceano di pace”, e non è solo una frase poetica. Ciò che più colpisce contemplando l’icona della Trinità di Rublev (riprodotta in questa cappella nella parete di fronte, sopra la Vergine in trono) è il senso di sovrumana pace che emana da essa. Il pittore è riuscito a tradurre in un immagine il motto di san Sergio di Radonez, per il cui monastero fu dipinta l’icona: “Contemplando la Santissima Trinità, vincere l’odiosa discordia di questo mondo”.

Chi ha meglio celebrato questa Pace divina che viene da oltre la storia, è stato lo Pseudo-Dionigi Areopagita. Pace è per lui uno dei “nomi di Dio”, allo stesso titolo che “amore” [4]. Anche di Cristo è detto che “è” lui stesso la nostra pace (Ef 2, 14-17). Quando dice: “Vi do la mia pace”, egli ci trasmette quello che è.

C’è un nesso inscindibile tra la pace dono dall’alto e lo Spirito Santo; non per nulla essi sono rappresentati dallo stesso simbolo della colomba. La sera di Pasqua Gesú diede ai discepoli, quasi d’un sol fiato, la pace e lo Spirito Santo: “Pace a voi!...Detto questo alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 21-22). La pace, dice Paolo, è un “frutto dello Spirito” (Gal 5,22).

Si capisce allora cosa significa essere operatore di pace. Non si tratta di inventare o creare la pace, ma di trasmetterla, di lasciar passare la pace di Dio e la pace di Cristo “che supera ogni intelligenza”. “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesú Cristo” (Rom 1, 7): questa la pace che l’Apostolo trasmette ai cristiani di Roma.

Noi non dobbiamo né possiamo essere sorgenti, ma solo canali della pace. Lo esprime alla perfezione la preghiera attribuita a Francesco d’Assisi: “Signore, fa di me uno strumento della tua pace”. In inglese traducono giustamente: Fa’ di me un canale della tua pace, “make me a channel of your peace”.

Ma cos’è la pace di cui parliamo? È divenuta classica la definizione datane da sant’Agostino: “La pace è la tranquillità dell’ordine” [5]. Basandosi su di essa san Tommaso dice che nell’uomo esistono tre tipi di ordine: con se stesso, con Dio, e con il prossimo, ed esistono, di conseguenza, tre forme di pace: la pace interiore, con la quale l’uomo è in pace con se stesso; la pace per cui l’uomo sta in pace con Dio, assoggettandosi pienamente alle sue disposizioni, e la pace relativa al prossimo, per cui si vive in pace con tutti” [6].

Nella Bibbia, però, shalom, pace, dice più che la semplice tranquillità dell’ordine. Indica anche benessere, riposo, sicurezza, successo, gloria. A volte designa, addirittura, la totalità dei beni messianici ed è sinonimo di salvezza e di bene: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunci che annuncia la pace, messaggero di bene che annuncia la salvezza” (Is 52,7). La nuova alleanza è chiamata una “alleanza di pace” (Ez 37, 26), il vangelo “vangelo della pace” (Ef 6, 15), come se nella parola pace si riassumesse tutto il contenuto dell’alleanza e del vangelo.

Nell’Antico Testamento, pace viene spesso accostata a giustizia (Sal 85,11: “Giustizia e pace si baceranno”) e nel Nuovo Testamento a grazia. Quando san Paolo scrive: “Giustificati per mezzo della fede, noi siamo in pace con Dio” (Rom 5,1), è chiaro che “in pace con Dio” ha lo stesso significato pregnante che “in grazia di Dio”.

4. La pace come compito

Il messaggio del papa dice, però, che la pace, oltre che dono, è anche compito. Ed è della pace come compito che ci parla in primo luogo la beatitudine degli operatori di pace.

La condizione per poter essere canali di pace è rimanere uniti alla sua sorgente che è la volontà di Dio: “En la sua voluntade è nostra pace”, fa dire Dante a un’anima del Purgatorio. Il segreto della pace interiore, è l’abbandono totale e sempre rinnovato alla volontà di Dio. Aiuta a conservare o ritrovare questa pace del cuore ripetere spesso a se stessi con santa Teresa d’Avila: “Niente ti turbi, niente ti spaventi. Tutto passa, Dio solo resta. La pazienza tutto vince. Nulla manca a chi ha Dio. Dio solo basta”.

La parenesi apostolica è ricca di indicazioni pratiche su ciò che favorisce o che ostacola la pace. Uno dei passi più noti è quello della Lettera di Giacomo: “Dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace” (Gc 3, 16-18).

Da questo ambito personalissimo deve partire ogni sforzo di costruire la pace. La pace è come la scia di un bel vascello che va allargandosi all’infinito, ma comincia con una punta, e la punta è, in questo caso, il cuore dell’uomo. Uno dei messaggi di Giovanni Paolo II per la giornata della pace, quello del 1984, portava come titolo: “La pace nasce da un cuore nuovo”.

Ma non è su questo ambito personale che vorrei dilungarmi. Oggi si apre davanti agli operatori di pace un campo di lavoro nuovo, difficile e urgente: promuovere la pace tra le religioni e con la religione, cioè sia delle religioni tra di loro, sia dei credenti delle varie religioni con il mondo laico non credente. Il messaggio del papa dedica un paragrafo alle difficoltà che si incontrano in questo campo. Dice:

“Per quanto riguarda poi la libera espressione della propria fede, un altro preoccupante sintomo di mancanza di pace nel mondo è rappresentato dalle difficoltà che tanto i cristiani quanto i seguaci di altre religioni incontrano spesso nel professare pubblicamente e liberamente le proprie convinzioni religiose... Vi sono regimi che impongono a tutti un'unica religione, mentre regimi indifferenti alimentano non una persecuzione violenta, ma un sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose. In ogni caso, non viene rispettato un diritto umano fondamentale, con gravi ripercussioni sulla convivenza pacifica. Ciò non può che promuovere una mentalità e una cultura negative per la pace” (n. 3).

Di questo dileggio culturale, o almeno tentativo di emarginazione, delle credenze religiose stiamo avendo un esempio proprio in questi giorni, con la campagna messa in atto in vari paesi e città d’Europa contro i simboli religiosi del Natale. Si adduce spesso come motivo la volontà di non offendere le persone di altre religioni che sono tra noi, specie i musulmani. Ma è un pretesto, una scusa. In realtà è un certo mondo laicista che non vuole questi simboli, non i musulmani. Essi non hanno nulla contro il Natale cristiano che anzi onorano.

Siamo giunti all’assurdo che molti musulmani celebrano la nascita di Gesú e arrivano a dire che “non è musulmano chi non crede nella nascita miracolosa di Gesú” [7], mentre altri che si dicono cristiani vogliono fare del Natale una festa invernale, popolata solo di renne e di orsacchiotti.

Nel Corano c’è una Sura dedicata alla nascita di Gesú che vale la pena di conoscere, anche per favorire il dialogo e l’amicizia tra le religioni. Dice:

“Gli angeli dissero: O Maria, Iddio ti dà la lieta novella di un Verbo da Lui. Il suo nome sarà Gesú (‘Isà) figlio di Maria. Sarà illustre in questo mondo e nell’altro…Parlerà agli uomini dalla culla e da uomo maturo, e sarà dei Santi. Disse Maria: ‘Signore mio, come potrò avere un figlio, quando nessun uomo mi ha toccata?’ Rispose: ‘Proprio così: Iddio crea ciò che Egli vuole, e quando ha deciso una cosa, le dice soltanto “sii”, ed essa è’” [8].
Nella puntata del programma sul vangelo domenicale “A sua immagine” che va in onda su Rai Uno domani sera, ho chiesto a un fratello musulmano di leggere questo passo e lo ha fatto con grande gioia, lieto di contribuire a chiarire un equivoco che danneggia, diceva, gli stessi credenti islamici, con il pretesto di favorire la loro causa.

Il motivo che permette un dialogo serio tra le religioni- fondato non solo sulle ragioni di opportunità che conosciamo bene, ma su un solido fondamento teologico - è che “abbiamo tutti un unico Dio”, come ricordava il Santo Padre in occasione della sua visita alla moschea Blu di Istanbul. È la verità da cui anche san Paolo partì nel suo discorso all’areopago di Atene (cf. At 17, 28).

Abbiamo, soggettivamente, idee diverse su di Lui. Per noi cristiani Dio è “il Padre del Signore nostro Gesú Cristo” che non si conosce pienamente se non “per mezzo suo”, ma oggettivamente sappiamo bene che di Dio non ce ne può essere che uno. C’è “un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4, 6).

Fondamento teologico del dialogo è anche la nostra fede nello Spirito Santo. Come Spirito della redenzione e Spirito della grazia, egli è il vincolo della pace tra i battezzati delle diverse confessioni cristiane; come Spirito della creazione, Spiritus creator, egli è un vincolo di pace tra i credenti di tutte le religioni e anzi tra tutti gli uomini di buona volontà. “Ogni verità, da chiunque venga detta -ha scritto san Tommaso d’Aquino-, viene dallo Spirito Santo” [9].

Come però questo Spirito creatore tendeva a Cristo nei profeti dell’Antico Testamento (1 Pt 1,11), così crediamo che, in modo noto solo a Dio, tende ora a Cristo e al suo mistero pasquale nella sua azione fuori della Chiesa. Come il Figlio non fa nulla senza il Padre, così lo Spirito Santo non fa nulla senza il Figlio.

Tutto il recente viaggio del Santo Padre in Turchia è stato un operare per la pace religiosa, ricco di frutti come tutte le cose nate nel segno della croce: pace tra la Chiesa cristiana d’oriente e quella d’occidente, pace tra cristianesimo e Islam. “Questa visita ci aiuterà a trovare insieme i modi e le strade della pace per il bene dell’umanità”, è stato il commento del Santo Padre in occasione della preghiera silenziosa nella moschea Blu.

5. Una pace senza religioni?

L’occidente secolarizzato auspica, a dir vero, un diverso tipo di pace religiosa, quello che risulta dalla scomparsa di ogni religione.

Immagina che non esiste paradiso, / è facile se provi./ Nessun inferno sotto di noi, / nient’altro che il cielo su di noi.
Immagina tutta la gente / vivere per l’oggi, / immagina non ci sono patrie. /Non è difficile, vedrai. / Nulla per cui uccidere o morire / e nessuna religione più.
Immagina tutta la gente / vivere la vita in pace. / Ti sembro un sognatore? /Non sono il solo. / Spero che un giorno ti unirai a noi / e il mondo sarà una cosa sola [10].
Questa canzone, scritta da uno dei grandi idoli della musica leggera moderna, su una melodia suadente, è diventata una specie di manifesto secolare del pacifismo. Se esso si dovesse realizzare, quello qui auspicato sarebbe il mondo più povero e più squallido che si possa immaginare; un mondo piatto, in cui sono abolite tutte le differenze, dove la gente è destinata a sbranarsi, non a vivere in pace, perché come ha messo in luce René Girard, là dove tutti vogliono le stesse cose, il “desiderio mimetico” si scatena e con esso la rivalità e la guerra.

Noi credenti non possiamo però lasciarci andare a risentimenti e polemiche neanche contro il mondo secolarizzato. Accanto al dialogo e la pace tra le religioni, si pone già un altro traguardo agli operatori di pace: quello della pace tra i credenti e i non credenti, tra le persone religiose e il mondo secolare, indifferente o ostile alla religione.

Sarà questo un altro banco di prova: dare ragione, anche con fermezza, della speranza che è in noi, ma farlo - come esorta la Lettera di Pietro e come ce ne da l’esempio il suo attuale successore - “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 2, 15-16). Rispetto non significa in questo caso “rispetto umano”, un tener nascosto Gesú per non suscitare reazioni. È rispetto di una interiorità che è nota solo a Dio e che nessuno può violare o costringere a cambiare. Non è un mettere tra parentesi Gesú, ma un mostrare Gesú e il vangelo con la vita. Ci auguriamo soltanto che un uguale rispetto sia mostrato dagli altri nei confronti dei cristiani, ciò che finora, purtroppo, è spesso mancato.

Terminiamo, tornando con il pensiero al Natale. Un antico responsorio del mattutino di Natale diceva: Hodie nobis de caelo pax vera descendit. Hodie per totum mundum melliflui facti sunt caeli: “Oggi è scesa per noi dal cielo la pace vera. Oggi i cieli stillano miele sul mondo”.

Come ricambiare il dono infinito che il Padre fa al mondo, dando per esso il suo Figlio Unigenito? Se c’è una gaffe da non fare a Natale è quella di riciclare un regalo offrendolo, per errore, alla persona stessa da cui si è ricevuto. Ebbene, con Dio non possiamo che fare tutto il tempo questa gaffe! L’unico ringraziamento possibile è l’Eucaristia: rioffrirgli Gesú suo Figlio, divenuto nostro fratello.

E a Gesú che dono faremo? Un testo della liturgia orientale di Natale dice: "Cosa possiamo offrirti, o Cristo, per esserti fatto uomo sulla terra? Ogni creatura ti reca il segno della sua riconoscenza: gli angeli i loro canti, i cieli la loro stella, la terra una grotta, il deserto un presepio. Ma noi ti offriamo una Madre vergine!" [11]

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle: grazie per il benevolo ascolto e Buon Natale!

1. Benedetto XVI, La persona umana, cuore della pace”. Messaggio per la giornata mondiale della pace 2007.
2. S. Leone Magno, Trattati 26 (CC 138, linea130)
3. J. Dupont, Le beatitudini, III, p.1001.
4. Pseudo Dionigi Areopagita, Nomi divini, XI, 1 s (PG 3, 948 s).
5. S. Agostino, La città di Dio, XIX, 13 (CC 48, p. 679).
6. Cf. S. Tommaso d’Aquino, Commento al vangelo di Giovanni, XIV, lez.VII, n.1962.
7. Magdi Allan, “Noi musulmani diciamo sì al presepe”, “Il Corriere della sera” 18 Dicembre 2006, p. 18.
8. Corano, Sura III, trad. di M.M. Moreno, Torino, UTET, 1971, p. 65.
9. S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-IIae q. 109, a. 1 ad 1; Ambrosiaster, Sulla prima lettera ai Corinti, 12, 3 (CSEL 81, p.132).
10. John Lennon, "Imagine there’s no heaven / it’s easy if you try. / No hell below us / above us only sky.Imagine all the people / living for today./ Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do. / Nothing to kill or die for / and no religion too. /Imagine all the people / living for today./ Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do./ Nothing to kill or die for /and no religion too...Imagine all the people / living life in peace. / You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one./ I hope someday you’ll join us / and the world will live as one”.
11. Idiomelon ai Grandi Vespri di Natale.


Tempo fa, nel reparto di oncologia pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma morirono a distanza di pochi giorni due bambini, Vincenzino e Mohamed, un italiano di religione cattolica e un iracheno di religione islamica. Una scrittrice di favole per bambini, Lauretta, che da anni fa volontariato in quel reparto, scrisse in quell’occasione una favola. La riporto in appendice alla mia predica per l’attinenza con uno dei temi trattati e per la sua incantevole bellezza.

IL NOME DI DIO

— Sei pronto, Vincenzino?— chiese con voce dolcissima l’Angelo che era entrato in quel momento nella stanza del bimbo, all’ospedale
— Sì! — rispose il bambino e aggiunse: Andiamo da Dio, vero?
L’angelo assentì col capo. Vincenzino mise fiducioso la sua manina in quella dell’angelo. Insieme lasciarono l’ospedale, la città addormentata sotto una coltre di stelle, la terra verdazzurra e si inoltrarono lungo le vie del cielo, scintillanti di luce. Il bimbo saltellava al fianco dell’angelo, quando, all’improvviso, si sentì chiamare:
— Vincenzino, dove vai? Aspettami!
Si voltò indietro e vide venire verso di lui il suo amichetto Mohamed, compagno di tanti giochi, là in ospedale. Anche Mohamed era affiancato da un angelo che indossava una veste candida, stretta in vita da una fascia d’oro.
Sapendo che Mohamed era venuto da lontano per curarsi e che era in ospedale solo con il papà, Vincenzino domandò:
— L’hai detto al tuo papà?
— No, l’ho lasciato inginocchiato sul tappeto della preghiera. M’è sembrato il momento migliore, per partire. Sono sicuro che Allah saprà consolarlo, dettargli le risposte giuste in fondo al cuore.
— Allah? — domandò Vincenzino con stupore — E chi è Allah?
Mohamed scoppiò in una risata. Quella risata argentina che lo contraddistingueva e che gli faceva brillare i grandi occhi scuri.
— Allah è Dio!
— No, Dio si chiama Trinità — ribatté Vincenzino — Ne sono sicuro perché me l’ha detto mio padre.
— Anch’io sono sicuro che si chiama Allah, me l’ha detto mio padre — disse Mohamed.
Poiché l’autorità di un papà non si mette in discussione, i due bambini dovettero concludere:
— Ma allora il tuo Dio non è uguale al mio!
— Questo vuol dire che gli angeli non ci stanno portando dalla stessa parte! — realizzò in un istante Vincenzino e aggiunse: Io non voglio vedere la Trinità, senza di te!
— Neppure io voglio vedere Allah, senza di te!
Per fortuna, gli angeli stavano conversando amichevolmente tra di loro. Un’occhiata d’intesa passò tra i due bambini che fecero dietrofront e si nascosero in mezzo a un banco di nuvole.
— Adesso dobbiamo cercare un posto dove stare insieme — disse Mohamed.
Mano nella mano, il piccolo musulmano e il piccolo cattolico si incamminarono su una strada lastricata di turchesi.
Cammina cammina arrivarono in vista di una città le cui porte erano di zaffiro e di smeraldo, le mura di pietre preziose e le torri di oro purissimo.
— Quella è la casa di Dio! — esclamò Vincenzino. Del mio Dio — precisò poi.
— No, quella è la casa del mio Dio — disse convinto Mohamed.
— Ma se è come quella del racconto della Bibbia che mi leggeva la nonna a casa, la sera! — disse Vincenzino, quasi piagnucolando.
— Non è possibile, guarda: ci sono due giardini con frutta, palme e melegrane. E anche due fonti zampillanti: è tutto proprio com’è decritto nel libro del Corano.
— Scommetti che è la casa del mio Dio? — disse Vincenzino.
— Scommetti che è la casa del mio Dio? — disse Mohamed.
Così dicendo, i due bambini corsero verso l’ ingresso principale davanti al quale stavano due Angeli, in candide vesti.
— Abita qui la Trinità? — domandò Vincenzino.
— Sì — rispose uno dei due angeli, sorridendo.
Per nulla convinto, Mohamed domandò:
— Abita qui Allah?
— Sì — rispose l’altro angelo, con un identico sorriso.
— Andiamo a vedere di persona — disse Mohamed, che era un tipo pratico. Forse il tuo Dio e il mio Dio abitano nella stessa casa.
Con grandissimo stupore, Vincenzino e Mohamed dovettero constatare che c’era un solo Dio, seduto sul suo trono sfavillante di luce.
— Tu sei Trinità? — domandò il piccolo cattolico.
— Sì, lo sono.
— Tu sei Allah? — domandò il piccolo musulmano.
— Sì, lo sono.
— Ma allora hai due nomi! — constatarono i bambini, stupefatti.
— Non solo due, ne ho molti di più! — disse Dio, divertito — Mi chiamano persino Caso, Natura, ma sono sempre io!
— Senti — disse Mohamed, il tipo pratico — non si potrebbe chiamarti con un nome solo, visto che tu sei solo Uno? Così, tanto per non fare confusione.
— Chiamatemi Amore — disse Dio, stringendosi al petto il piccolo cattolico e il piccolo musulmano.
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25/11/2008 20:03

Gesù di Nazareth, uno dei profeti?
2007-12-07- Avvento 2007 alla Casa Pontificia





1. La “terza ricerca”
“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli” (Eb 1, 1-3).

Questo attacco della lettera agli Ebrei costituisce una sintesi grandiosa di tutta la storia della salvezza. Questa risulta costituita dalla successione di due tempi: il tempo in cui Dio parlava per mezzo dei profeti e il tempo in cui Dio parla per mezzo del Figlio; il tempo in cui parlava “per interposta persona” e il tempo in cui parla “di persona”. Il Figlio infatti è “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”, cioè, come si dirà più tardi, della stessa sostanza del Padre.

C’è continuità e salto di qualità insieme. È lo stesso Dio che parla, la stessa rivelazione; la novità è che adesso il Rivelatore si fa rivelazione, rivelazione e rivelatore coincidono. La formula di introduzione degli oracoli ne è la migliore dimostrazione: non più “Dice il Signore”, ma “Io vi dico”.

Alla luce di questa potente parola di Dio che è Ebrei 1, 1-3, cerchiamo, in questa predicazione di Avvento, di operare un discernimento delle opinioni che oggi circolano su Gesú, fuori e dentro la Chiesa, in modo da potere, a Natale, unire senza riserve la nostra voce a quella della liturgia che proclama la sua fede nel Figlio di Dio venuto in questo mondo. Siamo continuamente ricondotti al dialogo di Cesarea di Filippi: per me Gesú è “uno dei profeti”, o è il “Figlio del Dio vivente”? (cf. Mt 16,14-16).

Nel campo degli studi storici su Gesú, quella che si sta vivendo è la cosiddetta “terza ricerca”. Si chiama così per distinguerla sia dalla “vecchia ricerca” storica di ispirazione razionalistica e liberale che dominò dalla fine del secolo XVIII a tutto il secolo XIX, sia dalla cosiddetta “nuova ricerca storica” che iniziò verso la metà del secolo scorso, in reazione alla tesi di Bultmann che aveva proclamato il Gesú storico irraggiungibile e oltre tutto irrilevante per la fede cristiana.

In che cosa la “terza ricerca” si differenza dalle precedenti? Anzitutto nella convinzione che del Gesú della storia possiamo sapere, grazie alle fonti, molto di più di quanto in passato si ammetteva. Ma soprattutto la terza ricerca si differenzia nei criteri per raggiungere la verità storica su Gesú. Se prima si pensava che il criterio fondamentale di accertamento della autenticità di un fatto o di un detto di Gesú fosse il suo essere in contrasto con quanto si faceva o si pensava nel mondo giudaico a lui contemporaneo, ora esso viene visto, al contrario, nella compatibilità di un dato evangelico con il giudaismo del tempo. Se prima il marchio di autenticità di un detto o di un fatto era la sua novità e “inesplicabilità” rispetto all’ambiente, ora è, al contrario, la sua spiegabilità alla luce delle nostre conoscenze del giudaismo e della situazione sociale della Galilea del tempo.

Alcuni vantaggi di questo nuovo approccio sono evidenti. Viene ritrovata la continuità della rivelazione. Gesú si colloca all’interno del mondo ebraico, nella linea dei profeti biblici. Si sorride perfino all’idea che ci fu un tempo in cui si credeva di poter spiegare tutto del cristianesimo con il ricorso a influssi ellenistici.

Il guaio è che si è spinto tanto oltre questa conquista da trasformarla in una perdita. In molti rappresentanti di questa terza ricerca, Gesú finisce per dissolversi completamente nel mondo giudaico, senza più distinguersi se non in qualche dettaglio e per qualche interpretazione particolare della Torah. Uno si riduce a uno dei profeti ebraici, o come si ama dire, dei “carismatici itineranti”. Significativo il titolo di un saggio famoso, quello di J.D. Crossmann: “Il Gesú storico. La vita di un contadino giudeo del Mediterraneo”.

Senza giungere a questi eccessi, anche l’autore più noto, e per certi versi iniziatore della terza ricerca, E. P. Sanders, è su questa linea[1]. Ritrovata la continuità, si è persa la novità. Non si capisce più perché Gesú abbia sentito il bisogno di dire un giorno: “Beato chi non si scandalizza di me” (Mt 11, 6). La divulgazione, anche tra noi in Italia, ha fatto il resto, diffondendo l’immagine di un Gesú ebreo tra ebrei, che non ha fatto quasi nulla di nuovo, ma di cui si continua a dire (non si sa come) che “ha cambiato il mondo”.

Si continua a rimproverare alle generazioni di studiosi del passato di essersi costruita ogni volta un’immagine di Gesú secondo la moda o i gusti del momento e non ci si accorge di continuare nella stessa linea. Questa insistenza sul Gesú ebreo tra ebrei, infatti, dipende, almeno in parte, dal desiderio di riparare i torti storici commessi contro questo popolo e di favorire il dialogo tra ebrei e cristiani. Uno scopo ottimo, perseguito, vedremo subito, con un mezzo (per il modo con cui è usato) sbagliato. Si tratta infatti di una tendenza solo apparentemente filo-ebraica. In realtà si finisce per addossare al mondo giudaico una responsabilità in più: quella di non aver riconosciuto uno di loro, uno la cui dottrina era perfettamente compatibile con quanto esso stesso credeva.

2. Il rabbino Neusner e Benedetto XVI

Chi ha messo in luce l’illusorietà di questo approccio ai fini di un serio dialogo tra ebraismo e cristianesimo è stato proprio un ebreo, il rabbino americano Jacob Neusner. Chi ha letto il libro di papa Benedetto XVI su Gesú di Nazaret, sa già molto sul pensiero di questo rabbino con il quale egli dialoga in uno dei capitoli più appassionanti del libro. Io rievoco la cosa per sommi capi.

Il notissimo studioso ebraico Neusner ha scritto un libro intitolato “Un rabbino parla con Gesú”[2]. In esso immagina di essere un contemporaneo di Cristo che un giorno si accoda alla folla che lo segue e ascolta il discorso della montagna. Egli spiega perché, nonostante sia affascinato dalla dottrina e dalla persona del Galileo, alla fine capisce, a malincuore, di non potersi fare suo discepolo e decide di rimanere discepolo di Mosè e seguace della Torah.

Tutti i motivi della sua decisione alla fine si riducono a uno solo: per accettare ciò che quest’uomo dice, bisogna riconoscergli la stessa autorità di Dio. Egli non si limita a “compiere”, ma sostituisce la Torah. Toccante lo scambio di idee che il rabbino, reduce dall’incontro con Gesú, ha con il suo maestro nella sinagoga:

Maestro: “Ha tralasciato qualcosa [della Torah] il tuo Gesú?
Rabbino Neusner: “Nulla”.
Maestro: “Allora ha aggiunto qualcosa?”
Rabbino Neusner: “Sì, se stesso”.

Interessante coincidenza: è l’identica risposta che sant’Ireneo dava nel II secolo a coloro che si domandavano che cosa Cristo avesse recato di nuovo venendo nel mondo”. “Ha portato, scriveva, ogni novità, portando se stesso”: “omnem novitatem attulit semetipsum afferens “ [3].

Neusner ha messo in luce l’impossibilità di fare di Gesú un “normale” giudeo del suo tempo, o uno che si distacca da esso solo in punti di secondaria importanza. Ha avuto anche un altro grandissimo merito, quello di mostrare l’inanità di ogni tentativo di separare il Gesù della storia dal Cristo della fede. Fa vedere come la critica può togliere dal Gesù della storia tutti i titoli: negare che si sia (o che gli abbiano) attribuito, da vivo, il titolo di Messia, di Signore, di Figlio di Dio. Dopo che gli si è tolto tutto quello che si vuole, quello che resta nei vangeli è più che sufficiente a dimostrare che non si riteneva un semplice uomo. Come basta un frammento di capello, una goccia di sudore o di sangue a ricostruire il DNA completo di una persona, così basta un detto, preso quasi a caso, del vangelo a dimostrare la coscienza che Gesù aveva di agire con la stessa autorità di Dio.

Neusner, da buon ebreo, sa cosa significa dire: “Il Figlio dell’uomo è padrone anche del sabato”, perché il sabato è la “istituzione” divina per eccellenza. Egli sa cosa implica dire: “Se vuoi essere perfetto vieni e seguimi”: vuol dire sostituire all’antico paradigma di santità che consiste nell’imitazione di Dio (“Siate santi perché io, il vostro Dio, sono santo”) il nuovo paradigma che consiste nell’imitazione di Cristo. Sa che solo Dio può sospendere l’applicazione del IV comandamento come fa Gesú quando chiede a uno di rinunciare a seppellire suo padre. Commentando questi detti di Gesú, Neusner esclama: “E’ il Cristo della fede che parla qui”[4].

Nel suo libro il papa risponde a lungo e, almeno per un credente, in modo convincente e illuminante, alla difficoltà del rabbino Neusner. La sua risposta mi fa pensare a quella che Gesú stesso diede ai messi inviati da Giovanni Battista a chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” Gesú, in altre parole, non ha solo rivendicato per sé un’autorità divina, ma ha anche dato segni e garanzie a sua riprova: i miracoli, il suo stesso insegnamento (che non si esaurisce nel discorso della montagna), il compimento delle profezie, soprattutto quella pronunciata da Mosè di un profeta simile e superiore a lui; poi la sua morte, la sua risurrezione e la comunità nata da lui che realizza l’universalità della salvezza annunziata dai profeti.

3. “Esortatevi a vicenda”

Bisognerebbe, a questo punto, notare una cosa: il problema del rapporto tra Gesú e i profeti non si pone solo nel contesto del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo, ma anche all’interno della stessa teologia cristiana, dove non sono mancati tentativi di spiegare la personalità di Cristo con il ricorso alla categoria di profeta. Io sono convinto della radicale insufficienza di una cristologia che pretenda isolare il titolo di profeta e rifondare su di esso l’intero edificio della cristologia. Il risultato è che di Cristo, come di ogni altro profeta, non si può dire che “è” Dio, ma solo che “in lui è presente” e “agisce” Dio.

Oltre tutto, questo tentativo non è affatto nuovo. Fu proposto nell’antichità da Paolo di Samosata, Fotino ed altri in termini a volte quasi identici. Allora, in una cultura di orientamento metafisico, si parlava di massimo profeta; oggi, in una cultura di orientamento storico, si parla di profeta escatologico. Ma è così diverso escatologico da supremo? Può uno essere il massimo profeta, senza essere anche profeta definitivo, e può il profeta definitivo non essere anche il massimo dei profeti?

Una cristologia che non va oltre la categoria di Gesú come “profeta escatologico” costituisce, sì, come è nelle intenzioni di chi la propone, la traduzione in linguaggio moderno di un dato antico, non però del dato definito dai concili, ma del dato condannato dai concili.

Ma non insisto su questo problema che ho trattato in anni passati in questa stessa sede[5]. Piuttosto vorrei passare subito a qualche applicazione pratica delle riflessioni fin qui svolte che ci aiuti a fare dell’Avvento un tempo di conversione e di risveglio spirituale.

La conclusione che la lettera agli Ebrei trae dalla superiorità di Cristo sui profeti e su Mosè non è una conclusione trionfalistica, ma parenetica; non insiste sulla superiorità del cristianesimo, ma sulla maggiore responsabilità dei cristiani di fronte a Dio. Dice:

“Proprio per questo, bisogna che ci applichiamo con maggiore impegno a quelle cose che abbiamo udito, per non andare fuori strada. Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda, e ogni trasgressione e disobbedienza ha ricevuto giusta punizione, come potremo scampare noi se trascuriamo una salvezza così grande? (Eb 2, 1-3). “Esortatevi dunque a vicenda ogni giorno, finché dura questo ‘oggi’, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato” (Eb 3, 13).

E al capitolo 10 aggiunge: “Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto maggior castigo allora pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell'alleanza dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia?” (Eb 10, 28-29).

La parola con cui, raccogliendo l’invito dell’autore, vogliamo esortarci a vicenda è quella che la liturgia ci ha fatto ascoltare domenica scorsa e che da il tono a tutta la prima settimana di Avvento: “Vegliate!” È interessante notare una cosa. Quando viene ripresa nella catechesi apostolica dopo la Pasqua, questa parola di Gesú si trova quasi sempre drammatizzata: non vegliate, ma svegliatevi, destatevi dal sonno! Dallo stato del vegliare si passa all’atto dello svegliarsi.

C’è alla base la costatazione che in questa vita siamo cronicamente esposti a ripiombare nel sonno, cioè in uno stato di sospensione delle facoltà, di assopimento e di inerzia spirituale. Le cose materiali hanno un effetto narcotizzante sull’anima. Per questo Gesú raccomanda: “State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita” (Lc 21, 34).

Può servirci da utile esame di coscienza riascoltare la descrizione che sant’Agostino fa di questo stato di dormiveglia nelle Confessioni: "Come chi è oppresso dal sonno, così ero io oppresso dal peso soave del mondo; e i pensieri che rivolgevo a Te erano simili ai conati di coloro che vogliono destarsi e tuttavia, vinti, ricadono nel sonno profondo […]. Ero ben sicuro essere meglio consacrarsi al tuo amore, che cedere alla mia passione: il primo partito mi piaceva e vinceva; il secondo mi allettava e avvinceva. Nulla sapevo io rispondere alle tue parole: 'Svégliati, tu che dormi, sorgi dai morti e Cristo ti illuminerà' (Ef 5,14). Convinto della verità, nulla sapevo io rispondere a te, che da ogni parte mi dimostravi essere vero quello che tu dici; nulla, all'infuori di queste parole infingarde e sonnolenti: Ora, ecco, ora, attendi ancora un poco. Ma questo ora e ora non trovava mai un'ora, e l'attendi ancora un poco andava per le lunghe" [6].

Sappiamo come il santo uscì alla fine da questo stato. Era in un giardino a Milano, lacerato da questa lotta tra la carne e lo spirito; udì le parole di un canto: “Tolle, lege, tolle, lege”. Le prese come un invito divino; aveva con sé il libro delle lettere di Paolo, lo aprì deciso a prendere come parola di Dio per lui il primo passo su cui sarebbe caduto. Cadde sul testo che abbiamo ascoltato domenica scorsa come seconda lettura della Messa:

“È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13, 11-14). Una luce di serenità attraversò il corpo e l’anima di Agostino ed egli capì che, con l’aiuto di Dio, poteva vivere casto.

4. “Dammi castità e continenza”

La vicenda di Agostino mi spinge a introdurre nel mio discorso una nota di attualità. La settimana scorsa è andato in onda su Rai Uno uno spettacolo del comico Roberto Benigni che ha registrato ascolti altissimi. Si è trattato, a momenti, di una lezione di altissima comunicazione religiosa (oltre che artistica e, in parte, patriottica), da cui ci sarebbe tanto da imparare da parte di noi predicatori: capacità di dar voce al senso dell’eterno nell’uomo, la meraviglia di fronte al mistero, all’arte, alla bellezza e al semplice fatto di esistere, parole bellissime sul “sì” di Maria e l’influsso benefico della devozione alla Vergine sulla visione medievale della donna.

Purtroppo, su un punto, forse non premeditato, Benighi ha lanciato un messaggio che potrebbe risultare micidiale per i giovani e che va rettificato. In appoggio al suo invito a non aver paura delle passioni, a provare la vertigine dell’amore anche nel suo aspetto carnale, egli ha citato la frase di Agostino che dice a Dio: “Dammi la castità e la continenza, ma non ora”[7]. Come se prima bisognasse provare tutto e poi, chissà da vecchi quando non costa più fatica, praticare la castità.

L’attore ha attibuito la frase a “sant’Agostino”, ma essa non è di “santo” Agostino; è di Agostino ancora peccatore, di prima della conversione. Non ha detto quante lacrime era costato al santo strapparsi alla schiavitù della passione a cui si era dato in braccio e non ha ricordato la preghiera che egli sostituirà più tardi a quella incauta giovanile: “Tu mi comandi di essere casto; ebbene, concedimi quello che mi chiedi e poi chiedimi quello che vuoi!” [8].

Non credo che i giovani d’oggi abbiano bisogno di essere incoraggiati a “buttarsi”, a “provare”, a rompere le barriere (tutto li spinge a capofitto in questa direzione con i risultati tragici che conosciamo). Hanno bisogno di chi dia loro delle motivazioni convincenti, non certo ad aver paura del loro corpo e dell’amore, ma semmai ad aver paura di sciupare l’uno e l’altro.

Nel canto dell’Inferno che Benigni ha mirabilmente commentato, Dante fornisce una di questa motivazioni profonde, sulla quale però egli ha sorvolato. Il male della lussuria consiste nel sottomettere la ragione all’istinto, anziché l’istinto alla ragione. “Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento”. L’istinto (il talento) ha la sua funzione se regolato dalla ragione; in caso contrario, diventa il nemico, non l’alleato, dell’amore, portando ai delitti più efferati, di cui le cronache recenti ci hanno fornito esempi.

Ma veniamo più direttamente a noi. La vita spirituale non si riduce certo alla sola castità e purezza, ma è certo che senza di essa ogni progresso in altri campi risulta impossibile e la propria vita diviene una minaccia per la Chiesa. Essa è davvero, come la chiama Paolo nel testo citato, una “arma della luce”: una condizione perché la luce di Cristo si diffonda intorno a noi e attraverso di noi.

Oggigiorno, si tende a contrapporre tra di loro i peccati contro la purezza e i peccati contro il prossimo e si tende a considerare vero peccato solo quello contro il prossimo; si ironizza, talvolta, sul culto eccessivo accordato, in passato, alla “bella virtù”. Questo atteggiamento, in parte, è spiegabile; la morale aveva accentuato troppo unilateralmente, in passato, i peccati della carne, fino a creare, talvolta, delle vere e proprie nevrosi, a scapito dell’attenzione ai doveri verso il prossimo e a scapito della stessa virtù della purezza che veniva, in tal modo, immiserita e ridotta a virtù quasi solo negativa, la virtù di saper dire di no.

Ora però si è passati all’eccesso opposto e si tende a minimizzare i peccati contro la purezza, a vantaggio (spesso soltanto verbale) di un’attenzione al prossimo. È una illusione quella di credere di poter mettere insieme un autentico servizio ai fratelli e alla Chiesa e una vita personale disordinata, tesa tutta a compiacere se stessi e le proprie passioni. Si finisce, inevitabilmente, per strumentalizzare i fratelli, come si strumentalizza il proprio corpo e l’altro sesso. Non sa dire dei “sì” ai fratelli chi non sa dire dei “no” a se stesso.

Una delle “scuse” che più contribuiscono a favorire il peccato di impurità, nella mentalità della gente, e a scaricarlo di ogni responsabilità è che, tanto, esso non fa del male ad alcuno, non viola i diritti e la libertà degli altri, a meno – si dice – che si tratti di violenza carnale. Ma a parte il fatto che esso viola il diritto fondamentale di Dio di dare una legge alle sue creature, questa “scusa” è falsa anche nei confronti del prossimo. Non è vero che il peccato di impurità finisce con chi lo commette.
Nel Talmud ebraico si legge un apologo che illustra bene la solidarietà che c’è nel peccato e il danno che ogni peccato, anche personale, reca agli altri: “Alcune persone si trovavano a bordo di una barca. Una di esse prese un trapano e cominciò a fare un buco sotto di sé. Gli altri passeggeri, vedendo, gli dissero: – Che fai? – Egli rispose: Che cosa importa a voi? Non sto forse facendo il buco sotto il mio sedile? – Ma essi replicarono: – Sì, ma l’acqua entrerà e ci annegherà tutti!” È quello che sta avvenendo nella nostra società. Anche la Chiesa ne sa qualcosa del male che si può fare all’intero corpo con gli sbagli personali commessi in questo campo.

Uno degli eventi spirituali di maggior rilievo di questi ultimi mesi è stata la pubblicazione, nel decennale della sua morte, degli “scritti personali” di Madre Teresa di Calcutta che hanno rivelato la straordinaria dimensione mistica della sua vita. Il titolo scelto per il libro che li raccoglie è la parola che Cristo le rivolse al momento di chiamarla alla sua nuova missione: “Come, be my light”, Vieni, sii la mia luce. È una parola che Gesú rivolge a ognuno di noi: Vieni, sii la mia luce nel mondo. Con l’aiuto della Vergine Santissima e l’intercessione della Beata di Calcutta, vogliamo raccogliere con amore questo invito, cercando di metterlo in pratica in questo Avvento.




[1] E.P. Sanders, Jesus and Judaism, London 1985, trad. italiana Gesù e il giudaismo, Marietti 1992.
[2] J. Neusner, A Rabbi Talks with Jesus, McGill-Queen’s University Press, 2000.
[3] S. Ireneo, Adv. Haer. IV,34,1
[4] J. Neusner, op. cit. 84.
[5] Vedi meditazioni dell’Avvento 1989 raccolte nel libro Gesú Cristo, il Santo di Dio, cap. VII, Edizioni San Paolo 19994.
[6] S. Agostino, Confessioni, VIII, 5,12.
[7] S. Agostino, Confessioni, VIII, 6,17.
[8] Ib. X, 29:
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25/11/2008 20:05

Giovanni Battista, "più che un profeta"

2007-12-14- Avvento 2007 alla Casa Pontificia






Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, la volta scorsa, partendo dal testo di Ebrei 1,1-3, ho cercato di delineare l’immagine di Gesú quale risulta dal confronto con i profeti. Ma tra il tempo dei profeti e quello di Gesú c’è una figura speciale che fa da cerniera tra i primi e il secondo: Giovanni Battista. Nulla, nel Nuovo Testamento, serve meglio a mettere in luce la novità di Cristo quanto il confronto con il Battista.

Il tema del compimento, della svolta epocale, emerge nitido dai testi in cui Gesú stesso si esprime sul suo rapporto con il Precursore. Oggi gli studiosi riconoscono che i detti che si leggono al riguardo nei vangeli non sono invenzioni o adattamenti apologetici della comunità posteriori alla Pasqua, ma risalgono nella sostanza al Gesú storico. Alcuni di essi diventano, anzi, inspiegabili se attribuiti alla comunità cristiana posteriore[1].

Una riflessione su Gesù e il Battista è anche il modo migliore per metterci in sintonia con liturgia dell’Avvento. Il vangelo della seconda e della terza Domenica di Avvento hanno infatti al centro proprio la figura e il messaggio del Precursore. C’è una progressione nell’Avvento: nella prima settimana la voce di spicco è quella del profeta Isaia che annuncia il Messia da lontano; nella seconda e terza settimana è quella del Battista che annuncia il Cristo presente; nell’ultima settimana il profeta e il Precursore lasciano il posto alla Madre che lo porta in grembo.

In questa cappella “Redemptoris Mater” abbiamo davanti agli occhi il Precursore in due momenti. Nella parete laterale lo vediamo nell’atto di battezzare Gesú, curvo ad arco verso di lui in segno di riconoscimento della sua superiorità; nella parete di fondo, nell’atteggiamento della Deesis tipico della iconografia bizantina.

1. La grande svolta

Il testo più completo in cui Gesú si esprime sul suo rapporto con Giovanni Battista è il brano evangelico che la liturgia ci farà leggere domenica prossima nella Messa. Giovanni, dalla prigione, manda i suoi discepoli a chiedere a Gesú: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2-6; Lc 7, 19-23).

La predicazione del Rabbi di Nazareth che lui stesso aveva battezzato e presentato a Israele sembra a Giovanni andare in una direzione ben diversa da quella fiammeggiante che egli si aspettava. Più che il giudizio imminente di Dio, egli predica la misericordia presente, offerta a tutti, giusti e peccatori. Gesú dissipa i dubbi del Precursore, rimandando ai segni messianici che si compiono in lui.

Ma la cosa più significativa di tutto il testo è l’elogio che Gesù fa del Battista, dopo che i messi di Giovanni si sono allontanati: “Cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta […]. In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui. Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono. La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, egli è quell'Elia che deve venire. Chi ha orecchi intenda” (Mt 11, 11-15).

Una cosa appare inequivocabile da queste parole: tra la missione di Giovanni Batista e quella di Gesú è avvenuto qualcosa di così decisivo da costituire uno spartiacque tra due epoche. Il baricentro della storia si è spostato: la cosa più importante non è più in un futuro più o meno imminente, ma è “ora e qui”, nel regno che è già operante nella persona di Cristo. Tra le due predicazioni è avvenuto un salto di qualità: il più piccolo del nuovo ordine è superiore al più grande dell’ordine precedente.

Questo tema del compimento e della svolta epocale trova conferma in molti altri contesti del vangelo. Basta ricordare alcune parole di Gesù come: “Ecco, ora qui c'è più di Giona! […]. Ecco, ora qui c'è più di Salomone!” (Mt 12 41-42). “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!” (Mt 13, 16-17). Tutte le cosiddette “parabole del regno”, -si pensi a quelle del tesoro nascosto e della perla preziosa - esprimono la stessa idea di fondo: con Gesú è scoccata l’ora decisiva della storia, davanti a lui si impone la decisione dalla quale dipende la salvezza.

Fu questa constatazione che spinse i discepoli di Bultmann a separarsi dal maestro. Bultmann collocava Gesú nel giudaismo, facendo di lui una premessa del cristianesimo, non ancora un cristiano; attribuiva invece la grande svolta alla fede della comunità post-pasquale. Bornkamm e Conzelmann si resero conto dell’impossibilità di questa tesi: la “svolta epocale” avviene già nella predicazione di Gesú. Giovanni appartiene alle “premesse” e alla preparazione, ma con Gesú siamo già al tempo del compimento.

Nel suo libro Gesú di Nazaret, il Santo Padre conferma questa conquista dell’esegesi più seria e aggiornata. Scrive: “Perché si giungesse a quel contrasto radicale, perché si ricorresse a quel gesto estremo –la consegna ai romani – doveva essere accaduto o essere stato detto qualcosa di drammatico. L’elemento importante e sconvolgente si colloca proprio all’inizio; la Chiesa nascente dovette riconoscerlo solo lentamente in tutta la sua grandezza, afferrarlo poco per volta, accompagnando e penetrando il ricordo con la riflessione […]. L’elemento grande, nuovo ed eccitante proviene proprio da Gesú; nella fede e nella vita della comunità esso viene dispiegato, ma non creato. Anzi, la comunità non si sarebbe neppure formata e non sarebbe sopravvissuta se non fosse stata preceduta da una realtà straordinaria” [2].

Nella teologia di Luca è evidente che Gesú occupa “il centro del tempo”. Con la sua venuta egli ha diviso la storia in due parti, creando un “prima” e un “dopo” assoluti. Oggi sta diventando prassi comune, specie nella stampa laica, quella di abbandonare il modo tradizionale di datare gli eventi “avanti Cristo” o “dopo Cristo” (ante Christum natum e post Christum natum), in favore della formula più neutrale “prima dell’era volgare” e “dell’era volgare”. È una scelta motivata dal desiderio di non urtare la sensibilità di popoli di altre religioni che usano la cronologia cristiana; in tal senso va rispettata, ma per i cristiani resta indiscusso il ruolo “discriminante” della venuta di Cristo per la storia religiosa dell’umanità.

2. Egli vi battezzerà in Spirito Santo

Ora, come sempre, partiamo dalla certezza esegetica e teologica messa in luce per venire all’oggi della nostra vita.

Il confronto tra il Battista e Gesú si cristallizza nel Nuovo Testamento nel confronto tra il battesimo di acqua e il battesimo di Spirito. “Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (Mc 1,8; Mt 3,11; Lc 3,16). “Io non lo conoscevo –dice il Battista nel vangelo di Giovanni - , ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo” (Gv 1,33). E Pietro, nella casa di Cornelio: “Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo” (At 11,16).

Che significa dire che Gesú è colui che battezza in Spirito Santo? L’espressione non serve solo a distinguere il battesimo di Gesú da quello di Giovanni; serve a distinguere l’intera persona e opera di Cristo da quelle del Precursore. In altre parole, in tutta la sua opera Gesú è colui che battezza in Spirito Santo. Battezzare ha qui un significato metaforico; vuol dire inondare, avvolgere da tutte le parti, come fa l’acqua con i corpi immersi in essa.

Gesú “battezza in Spirito Santo” nel senso che riceve e da lo Spirito “senza misura” (cf. Gv 3, 34), che “effonde” il suo Spirito (At 2, 33) su tutta l’umanità redenta. L’espressione si riferisce più all’avvenimento di Pentecoste che al sacramento del battesimo. “Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni” (At 1,5), dice Gesú agli apostoli riferendosi evidentemente alla Pentecoste che sarebbe avvenuta di lì a pochi giorni.

L’espressione “battezzare nello Spirito” definisce dunque l’opera essenziale del Messia che già nei profeti dell’Antico Testamento appare orientata a rigenerare l’umanità mediante una grande e universale effusione dello Spirito di Dio (cf. Gl 3, 1 ss.). Applicando tutto ciò alla vita e al tempo della Chiesa, dobbiamo concludere che Gesú risuscitato non battezza in Spirito Santo unicamente nel sacramento del battesimo, ma, in modo diverso, anche in altri momenti: nell’Eucaristia, nell’ascolto della Parola e, in genere, in tutti i mezzi di grazia. Se lo vogliamo, questa cappella può essere ora il cenacolo in cui il Risorto entra a porte chiuse, alita su di noi e dice, quasi implorandoci: “Ricevete lo Spirito Santo”.

San Tommaso d’Aquino scrive: “C’è una missione invisibile dello Spirito ogni volta che si realizza un progresso nella virtù o un aumento di grazia...; quando qualcuno passa a una nuova attività o a un nuovo stato di grazia”[3]. La liturgia stessa della Chiesa inculca ciò. Tutte le sue preghiere e i suoi inni allo Spirito Santo cominciano con il grido: “Vieni!”: “Vieni o Spirito Creatore”, “Vieni, Santo Spirito“. Eppure chi prega così ha gia ricevuto una volta lo Spirito. Vuol dire che lo Spirito è qualcosa che abbiamo ricevuto e che dobbiamo ricevere sempre di nuovo.

3. Il battesimo nello Spirito

In questo contesto, bisogna accennare al cosiddetto “battesimo dello Spirito” che da un secolo è divenuto esperienza vissuta da milioni di credenti in quasi tutte le denominazioni cristiane. Si tratta di un rito fatto di gesti di grande semplicità, accompagnati da disposizioni di pentimento e di fede nella promessa di Cristo: “Il Padre darà lo Spirito Santo a chi glielo chiede”.

È un rinnovamento e una attivazione, non solo del battesimo e della cresima, ma di tutti gli eventi di grazia del proprio stato: ordinazione sacerdotale, professione religiosa, matrimonio. L’interessato vi si prepara, oltre che attraverso una buona confessione, partecipando a incontri di catechesi, nei quali è rimesso in un contatto vivo e gioioso con le principali verità e realtà della fede.

A volte invece tutto avviene spontaneamente, fuori di ogni schema e si è come “sorpresi” dallo Spirito. Un uomo ha reso questa testimonianza: “Ero sull’aereo e stavo leggendo l’ultimo capitolo di un libro sullo Spirito Santo. A un certo punto, fu come se lo Spirito Santo uscisse dalle pagine del libro ed entrasse nel mio corpo. Lacrime presero a scendere dai miei occhi a ruscelli. Cominciai a pregare. Ero sopraffatto da una forza molto al di sopra di me” [4].

L’effetto più comune di questa grazia è che lo Spirito Santo, da oggetto di fede intellettuale, più o meno astratto, diventa un fatto di esperienza. Karl Rahner ha scritto: “Non possiamo contestare che l’uomo possa fare quaggiù delle esperienze di grazia, le quali gli dànno un senso di liberazione, gli aprono orizzonti del tutto nuovi, si imprimono profondamente in lui, lo trasformano, plasmando, anche per lungo tempo, il suo atteggiamento cristiano più intimo. Nulla vieta di chiamare tali esperienze battesimo dello Spirito”[5].

Attraverso quello che viene chiamato, appunto, “battesimo dello Spirito”, si fa esperienza dell’unzione dello Spirito Santo nella preghiera, del suo potere nel ministero pastorale, della sua consolazione nella prova, della sua guida nelle scelte. Prima ancora che nella manifestazione dei carismi, è così che lo si percepisce: come Spirito che trasforma interiormente, dona il gusto della lode di Dio, apre la mente alla comprensione delle Scritture, insegna a proclamare Gesù “Signore” e dà il coraggio di assumersi compiti nuovi e difficili, nel servizio di Dio e del prossimo.

Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario del ritiro da cui ebbe inizio, nel 1967, il Rinnovamento carismatico nella Chiesa cattolica che si stima abbia raggiunto in pochi anni non meno di ottanta milioni di cattolici. Ecco come descriveva gli effetti del battesimo dello Spirito su si sé e sul gruppo, una delle persone che erano presenti a quel primo ritiro:

“La nostra fede è diventata viva; il nostro credere è diventato una sorta di conoscere. Improvvisamente, il soprannaturale è diventato più reale del naturale. In breve, Gesù è una persona viva per noi… La preghiera e i sacramenti sono diventati veramente il nostro pane quotidiano, e non delle generiche ‘pie pratiche’. Un amore per le Scritture che io non avrei mai creduto possibile, una trasformazione delle nostre relazioni con gli altri, un bisogno e una forza di testimoniare al di là di ogni aspettativa: tutto ciò è diventato parte della nostra vita. L’esperienza iniziale del battesimo dello Spirito non ci ha dato particolare emozione esteriore, ma la vita è diventata soffusa di calma, di fiducia, gioia e pace...Abbiamo cantato il Veni creator Spiritus prima di ogni incontro, prendendo sul serio quello che dicevamo e non siamo stati delusi...Siamo anche stati inondati di carismi e tutto ciò ci mette in una perfetta atmosfera ecumenica”[6].

Tutti vediamo con chiarezza che queste sono precisamente le cose di cui ha più bisogno oggi la Chiesa per annunciare il vangelo a un mondo divenuto refrattario alla fede e al soprannaturale. Non è detto che tutti siano chiamati a sperimentare la grazia di una nuova Pentecoste in questa modalità. Tutti però siamo chiamati a non rimanere al di fuori di questa “corrente di grazia” che attraversa la Chiesa del dopo Concilio. Giovanni XXIII parlò, a suo tempo, di “una novella Pentecoste”; Paolo VI è andato oltre e ha parlato di “una perenne Pentecoste”, di una Pentecoste continua. Vale la pena riascoltare le parole da lui pronunciate durante una udienza generale:

“Ci siamo chiesti più volte ...quale bisogno avvertiamo, primo ed ultimo, per questa nostra Chiesa benedetta e diletta. Lo dobbiamo dire quasi trepidanti e preganti, perché è il suo mistero e la sua vita, voi lo sapete: lo Spirito, lo Spirito Santo, animatore e santificatore della Chiesa, suo respiro divino, il vento delle sue vele, suo principio unificatore, sua sorgente interiore di luce e di forza, suo sostegno e suo consolatore, sua sorgente di carismi e di canti, sua pace e suo gaudio, suo pegno e preludio di vita beata ed eterna. La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo...Ha bisogno, la Chiesa, di riacquistare l’ansia, il gusto e la certezza della sua verità...” [7].

Il filosofo Heidegger concludeva la sua analisi della società con il grido allarmato: “Solo un dio ci può salvare”. Questo Dio che ci può salvare, e che ci salverà, noi cristiani lo conosciamo: è lo Spirito Santo! Oggi dilaga la moda della cosiddetta aromaterapia. Si tratta dell’utilizzo degli oli essenziali, che emettono profumo, per il mantenimento della salute o per la terapia di alcuni disturbi. Internet è piena di reclami di aromaterapia. Non ci si accontenta di promettere con essi benessere fisico come la cura dello stress; ci sono anche i ”profumi dell’anima”, per esempio il profumo per ottenere “la pace interiore”.

I medici invitano a diffidare di questa pratica che non è scientificamente accertata e che comporta anzi, in alcuni casi, delle controindicazioni. Ma quello che voglio dire è che esiste una aromaterapia sicura, infallibile, che non comporta alcuna controindicazione: quella fatta con l’aroma speciale, il “sacro crisma dell’anima” che è lo Spirito Santo! Sant’Ignazio di Antiochia ha scritto: “Il Signore ha ricevuto sul suo capo un’unzione profumata (myron) per spirare sulla Chiesa l’incorruttibilità”[8]. Solo se riceviamo questo “aroma” potremo essere, a nostra volta, “il buon odore di Cristo” nel mondo (2 Cor 2, 15).

Lo Spirito Santo è specialista soprattutto delle malattie del matrimonio e della famiglia che sono i grandi malati di oggi. Il matrimonio consiste nel donarsi l’uno all’altro, è il sacramento del farsi dono. Ora lo Spirito Santo è il dono fatto persona; è il donarsi del Padre al Figlio e del Figlio al Padre. Dove arriva lui rinasce la capacità di farsi dono e con essa la gioia e la bellezza di vivere insieme per gli sposi. L’amore di Dio che egli “effonde nei nostri cuori” ravviva ogni altra espressione di amore e in primo luogo quello coniugale. Lo Spirito Santo può fare davvero della famiglia, “la principale agenzia di pace”, come la definisce il Santo Padre nel messaggio per la prossima giornata mondiale della pace.

Ci sono esempi numerosi di matrimoni morti, risuscitati a nuova vita dall’azione dello Spirito. Ho raccolto proprio in questi giorni la commovente testimonianza di una coppia che penso di far ascoltare nella puntata del mio programma televisivo sul vangelo per la festa del battesimo di Gesú…
Lo Spirito ravviva, naturalmente, anche la vita dei consacrati che consiste nel fare della propria vita un dono e un’oblazione “di soave odore” a Dio per i fratelli (cf. Ef 5,2).

4. La nuova profezia di Giovanni Battista.

Tornando a Giovanni Battista, egli ci può illuminare su come assolvere il nostro compito profetico nel mondo d’oggi. Gesú definisce Giovanni Battista “più che un profeta”, ma dov'è la profezia nel suo caso? I profeti annunciavano una salvezza futura; ma il Precursore non è uno che annuncia una salvezza futura; egli indica uno che è presente. In che senso allora si può chiamare profeta? Isaia, Geremia, Ezechiele aiutavano il popolo a oltrepassare la barriera del tempo; Giovanni Battista aiuta il popolo ad oltrepassare la barriera, ancora più spessa, delle apparenze contrarie, dello scandalo, della banalità e povertà con cui l'ora fatidica si manifesta.

E' facile credere a qualcosa di grandioso, di divino, quando si prospetta in un futuro indefinito: "in quei giorni", "negli ultimi giorni", in una cornice cosmica, con i cieli che stillano dolcezza e la terra che si apre per fare germogliare il Salvatore. È più difficile quando si deve dire: "Eccolo! E' lui!" e questo di un uomo di cui si sa tutto: di dove viene, che mestiere ha fatto, chi ha avuto per madre.

Con le parole: "In mezzo a voi c'è uno che voi non conoscete!" (Gv 1,26), Giovanni Battista ha inaugurato la nuova profezia, quella del tempo della Chiesa, che non consiste nell'annunciare una salvezza futura e lontana, ma nel rivelare la presenza nascosta di Cristo nel mondo. Nello strappare il velo dagli occhi della gente, scuoterne l’indifferenza, ripetendo con Isaia: "C’è una cosa nuova: proprio ora germoglia: non ve ne accorgete?" (cf Is 43,19).

E' vero che ora sono passati venti secoli e noi sappiamo, su Gesú, molte più cose di Giovanni. Ma lo scandalo non è rimosso. Al tempo di Giovanni lo scandalo derivava dal corpo fisico di Gesú, dalla sua carne così simile alla nostra, eccetto il peccato. Anche oggi è il suo corpo, la sua carne a fare difficoltà e a scandalizzare: il suo corpo mistico, così simile al resto dell'umanità, non escluso, ahimè, neppure il peccato.

"La testimonianza di Gesù - si legge nell'Apocalisse - è lo spirito di profezia" (Ap 19,10), cioè, per rendere testimonianza a Gesù si richiede spirito di profezia. C'è questo spirito di profezia nella Chiesa? Lo si coltiva? Lo si incoraggia? O si crede, tacitamente, di poter fare a meno di esso, puntando di più sui mezzi e gli accorgimenti umani?

Giovanni Battista ci insegna che per essere profeti non occorre una grande dottrina ed eloquenza. Egli non è un grande teologo; ha una cristologia povera e rudimentale. Non conosce ancora i titoli più alti di Gesù: Figlio di Dio, Verbo e neppure quello di Figlio dell'uomo. Ma come riesce a fare sentire la grandezza e unicità di Cristo! Usa immagini semplicissime, da contadino. “Non sono degno di sciogliere i legacci dei suoi sandali”. Il mondo e l'umanità appaiono, dalle sue parole, contenuti dentro un vaglio che egli, il Messia, regge e scuote nelle sue mani. Davanti a lui si decide chi sta e chi cade, chi è grano buono e chi è pula che il vento disperde.
Nel 1992 si tenne un ritiro sacerdotale a Monterrey in Messico, in occasione dei 500 anni dalla prima evangelizzazione dell’America Latina. Erano presenti 1700 sacerdoti e una settantina di vescovi. Durante l’omelia della Messa conclusiva avevo parlato del bisogno urgente che la Chiesa ha di profezia. Dopo la comunione ci fu la preghiera per una nuova Pentecoste in piccoli gruppi sparsi nella grande basilica. Io ero rimasto sul presbiterio. A un certo punto un giovane sacerdote mi si avvicinò in silenzio, mi si inginocchiò davanti e con uno sguardo che non dimenticherò mai mi disse: “Bendígame, Padre, quiero ser profeta de Dios!”. Benedicimi, Padre, voglio essere un profeta di Dio. Mi commossi perché vedevo che era mosso evidentemente dalla grazia.

Potremmo con umiltà fare nostro il desiderio di quel sacerdote: “Voglio essere un profeta per Dio”. Piccolo, sconosciuto da tutti, non importa, ma uno che, come diceva Paolo VI, ha “fuoco nel cuore, parola sulle labbra, profezia nello sguardo”.



[1] Cf. J. D.G. Dunn, Christianity in the Making, I. Jesus remembered, Grand Rapids. Mich. 2003, parte III, cap. 12, trad. ital. Gli albori del Cristianesimo, I, 2, Paideia, Brescia 2006, pp. 485-496.

[2] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli 2007, p. 372.

[3] S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I,q.43, a. 6, ad 2.; cf. F. Sullivan, in Dict.Spir. 12, 1045.

[4] In “New Covenant”(Ann Arbor, Michigan), Giugno 1984, p.12.

[5] K. Rahner, Erfahrung des Geistes. Meditation auf Pfingsten, Herder, Friburgo i. Br. 1977.

[6] Testimonianza riportata in P. Gallagher Mansfield, As by a New Pentecost, Steubenville 1992, pp. 25 s.

[7] Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).

[8] S. Ignazio d’Antiochia, Agli Efesini 17.
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"SPE GAUDENTES" : lieti nella speranza
2007-12-21- Terza Predica di Avvento alla Casa Pontificia






1. Gesú, il Figlio

“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1, 1-2). Questo testo richiama da vicino la parabola dei vignaioli infedeli. Anche lì, Dio dapprima invia dei servi, poi “da ultimo” manda il Figlio, dicendo: “Avranno rispetto per mio Figlio” (Mt 21, 33-41).

In questa terza ed ultima meditazione, lasciando ormai da parte i profeti e Giovanni Battista, ci concentriamo esclusivamente sul punto di arrivo di tutto: il “Figlio”. In un capitolo del libro su Gesú di Nazaret, il papa illustra la fondamentale differenza tra il titolo “Figlio di Dio” e quello di “Figlio”, senza altre aggiunte. Il semplice titolo di “Figlio”, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è molto più pregnante che non “Figlio di Dio”. Quest’ultimo arriva a Gesú dopo una lunga trafila di attribuzioni: così era stato definito il popolo d’Israele e, singolarmente, il suo re; così si facevano chiamare i faraoni e i sovrani orientali e così si proclamerà l’imperatore romano. Da solo, esso non sarebbe stato sufficiente perciò a distinguere la persona di Cristo da ogni altro “figlio di Dio”.

Diverso è il caso del titolo di “Figlio”, senza altre aggiunte. Questo appare nei vangeli come esclusivo di Cristo ed è con esso che Gesú esprimerà la sua identità profonda. Dopo i vangeli è proprio la Lettera agli Ebrei a testimoniare con più forza questo uso assoluto del titolo “il Figlio”; esso vi ricorre per ben cinque volte.

Il testo più significativo in cui Gesú si definisce lui stesso “il Figlio” è Matteo 11, 27: “ Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Il detto, spiegano gli esegeti, ha una chiara origine aramaica e dimostra che gli sviluppi posteriori che si leggono, a questo proposito, nel vangelo di Giovanni hanno la loro remota origine nella coscienza stessa di Cristo.

Una comunione di conoscenza così totale e assoluta tra Padre e Figlio, nota il papa nel suo libro, non si spiega senza una comunione ontologica, o dell’essere. Le formulazioni posteriori, culminanti nella definizione di Nicea, del Figlio come “generato, non fatto, della stessa sostanza del Padre”, sono dunque sviluppi arditi, ma coerenti con il dato evangelico.

La prova più forte della coscienza che Gesú aveva della sua identità di Figlio è la sua preghiera. In essa la figliolanza non è solo dichiarata, ma vissuta. Per il modo e la frequenza con cui ricorre nella preghiera di Cristo, l’esclamazione Abbà attesta una intimità e familiarità con Dio che non ha l’eguale nella tradizione d’Israele. Se l’espressione è stata conservata nella lingua originaria e diventa il marchio della preghiera cristiana (cf. Gal 4,6; Rom 8, 15) è proprio perché si era convinti che era stata la forma tipica della preghiera di Gesú[1].

2. Un Gesú degli atei?

Questo dato evangelico getta una luce singolare sul dibattito attuale intorno alla persona di Gesú. Nell’introduzione del suo libro, il papa cita l’affermazione di R. Schnackenburg secondo cui “senza il radicamento in Dio la persona di Gesú rimane fuggevole, irreale e inspiegabile”. “Questo, dichiara il papa, è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesú a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità” [2].

Ciò mette in luce, a mio parere, la problematicità di una ricerca storica su Gesú che non solo prescinda, ma escluda in partenza la fede; in altre parole, la plausibilità storica di quello che è stato definito a volte “il Gesú degli atei”. Non parlo, in questo momento, della fede in Cristo e nella sua divinità, ma di fede nell’accezione più comune del termine, di fede nell’esistenza di Dio.

Lungi da me l’idea che i non credenti non abbiano diritto di occuparsi di Gesú. Quello che vorrei mettere in evidenza, partendo dalle affermazioni citate del papa, sono le conseguenze che derivano da un tale punto di partenza, come cioè la “precomprensione” di chi non crede incida sulla ricerca storica enormemente di più di quella del credente. Il contrario di ciò che gli studiosi non credenti pensano.
Se si nega o si prescinde dalla fede in Dio, non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede nel Dio che “nutre gli uccelli del cielo e veste i fiori del campo”. Se si elimina questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente.

Se dunque si parte dal presupposto, tacito o dichiarato, che Dio non esiste, Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra, o con la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. Gesú sarebbe la vittima più illustre di quella che l’ateo militante Dawkins definisce “l’illusione di Dio” [3]. Ma come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo” e, a distanza di duemila anni, continua a interpellare gli spiriti come nessun altro? Se l’illusione è capace di operare quello che ha operato Gesú nella storia, allora Dawkins e gli altri devono forse rivedere il loro concetto di illusione.

C’è una sola via d’uscita da questa difficoltà, quella che si è fatta strada nell’ambito del “Jesus Seminar” di Berkeley negli Stati Uniti. Gesú non era un credente ebreo; era nel fondo un filosofo itinerante, nello stile dei cinici[4]; non ha predicato un regno di Dio, né una prossima fine del mondo; ha solo pronunciato massime sapienziali nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza di sé, convincerli che non avevano bisogno né di lui né di altro dio, perché loro stessi portavano in sé una scintilla divina[5]. Sono però – guarda caso - le cose che va predicando da decenni New Age! Un’ennesima immagine di Gesú, prodotto della moda del momento. È vero: senza il radicamento in Dio, la figura di Gesú rimane “fuggevole, irreale e inspiegabile”.

3. Preesistenza di Cristo e Trinità

Anche su questo punto, come sulla riduzione di Gesú a un profeta, il problema non si pone soltanto nella discussione con la critica non credente; si pone, in maniera e con spirito diversi, anche nella discussione teologica all’interno della Chiesa. Cerco di spiegare in che senso.

Circa il titolo di Figlio di Dio si assiste a una specie di risalita a monte nel Nuovo Testamento: All’inizio esso è messo in rapporto con la risurrezione di Cristo (Rom 1, 4; At ); Marco fa un passo indietro e lo pone in rapporto con il suo battesimo nel Giordano (Mc 1, 11); Matteo e Luca lo fanno risalire alla sua nascita da Maria (Lc 1, 35). La Lettera agli Ebrei opera il salto decisivo, affermando che il Figlio non ha cominciato ad esistere al momento della sua venuta tra noi, ma che esiste da sempre. “Per mezzo di lui, dice, [Dio] ha fatto il mondo”, egli è “l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”. Una trentina di anni più tardi, il vangelo di Giovanni consacrerà questa conquista iniziando il suo vangelo con le parole: “In principio era il Verbo…”

Ora, sulla preesistenza di Cristo come Figlio eterno del Padre sono state avanzate, nell’ambito di alcune delle cosiddette “nuove cristologie”, delle tesi assai problematiche. In esse si afferma che la preesistenza di Cristo come Figlio eterno del Padre è un concetto mitico derivato dall'ellenismo. In termini moderni, esso significherebbe semplicemente che “il rapporto fra Dio e Gesù non si è sviluppato solo in un secondo tempo e per così dire casualmente, ma esiste a priori ed è fondato in Dio stesso”.

In altre parole, Gesù preesisteva in senso intenzionale, non reale; nel senso, cioè, che il Padre, da sempre, aveva previsto, scelto e amato come figlio il Gesù che un giorno sarebbe nato da Maria. Preesisteva, dunque, non diversamente da ognuno di noi, dal momento che ogni uomo, dice la Scrittura, è stato “ prescelto e predestinato” da Dio come suo figlio, prima della creazione del mondo! (cfr. Ef 1,4).

Insieme con la preesistenza di Cristo, cade, in questa prospettiva, anche la fede nella Trinità. Questa è ridotta a qualcosa di eterogeneo (una persona eterna, il Padre, più una persona storica, Gesú, più una energia divina, lo Spirito Santo); qualcosa, inoltre, che non esiste ab aeterno ma diviene nel tempo.

Mi limito a far notare come anche questa tesi non è nuova. L’idea di una preesistenza solo intenzionale e non reale del Figlio fu avanzata, discussa e rigettata dal pensiero cristiano antico. Non è vero, perciò, che essa è imposta dalle concezioni nuove, non più mitiche, che abbiamo di Dio, come non è vero che l’idea contraria, di una preesistenza eterna, era l’unica soluzione pensabile nel contesto culturale antico e che i Padri non avevano, dunque, possibilità di scelta.

Fotino, nel IV secolo, conosceva già l'idea di una preesistenza di Gesù “a modo di previsione” (kata pr^gnosin) o “a modo di anticipazione” (prochrestik^s). Contro di lui un sinodo decretò: “Se qualcuno dice che il Figlio, prima di Maria, esisteva solo secondo previsione e non che è generato dal Padre prima dei secoli per essere Dio e per mezzo suo far venire all'essere tutte le cose, sia anatema” [6]. L’intenzione di questi teologi era lodevole: tradurre in un linguaggio comprensibile all’uomo d’oggi il dato antico. Purtroppo però, ancora una volta, quello che viene tradotto in linguaggio moderno non è il dato definito dai concili, ma quello condannato dai concili.

Già sant’Atanasio faceva notare che l’idea di una Trinità composta di realtà eterogenee compromette proprio quell’unità divina che con essa si vuole mettere al sicuro. Se poi si ammette che Dio “diviene” nel tempo, nessuno ci assicura che la sua crescita e il suo divenire siano finiti. Chi è divenuto diverrà ancora[7]. Quanto tempo e fatica farebbe risparmiare a noi moderni una conoscenza meno superficiale del pensiero dei Padri!

Vorrei terminare questa parte dottrinale della nostra meditazione con una nota positiva, a mio parere di straordinaria importanza. Per quasi un secolo, da quando Wilhelm Bousset, nel 1913, scrisse il suo famoso libro sul Cristo Kyrios[8], nell’ambito degli studi critici ha dominato l’idea che l’origine del culto di Cristo come essere divino fosse da ricercare nel contesto ellenistico, quindi molto dopo la morte di Cristo.

Nell’ambito della cosiddetta “terza ricerca” sul Gesú storico, recentemente la questione è stata ripresa dalle fondamenta da Larry Hurtado, professore di lingua, letteratura e teologia del Nuovo Testamento a Edimburgo. Ecco la conclusione a cui egli giunge, al termine di una ricerca di oltre 700 pagine:

“La venerazione di Gesú come figura divina, esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico continua ad attribuire la venerazione per Gesú come figura divina all’influenza decisiva della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente e graduale. La venerazione di Gesú come ‘Signore’, che trovava espressione adeguata nella venerazione cultuale e nell’obbedienza totale, era inoltre generale, non era confinata e attribuibile a cerchie particolari, ad esempio gli ‘ellenisti’ o i cristiani gentili di un ipotetico ‘culto di Cristo siriaco’. Con tutta la diversità del primo cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesú era incredibilmente comune”[9].

Questa rigorosa conclusione storica dovrebbe porre fine all’opinione, tuttora dominante in una certa divulgazione, secondo cui il culto divino di Cristo sarebbe un frutto posteriore della fede (imposto per legge da Costantino a Nicea nel 325, secondo Dan Brown, nel suo Codice da Vinci!).

4. La “bambina Speranza”

Oltre al libro su Gesú di Nazaret, il Santo Padre, nell’anno in corso, ci ha fatto dono anche dell’enciclica sulla speranza. L’utilità di un documento pontificio, oltre il suo contenuto altissimo, sta anche nel fatto che concentra su un punto l’attenzione di tutti i credenti, stimolando su di esso la riflessione. In questa linea, vorrei fare qui una piccola applicazione spirituale e pratica del contenuto teologico dell’enciclica, mostrando come il testo della Lettera agli Ebrei che abbiamo meditato può contribuire ad alimentare la nostra speranza.
Nella speranza - scrive l’autore della Lettera con una bellissima immagine destinata a divenire classica nell’iconografia cristiana - ”noi abbiamo come un'àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell'interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore” (Ebr 6, 17-20). Il fondamento di questa speranza è proprio il fatto che “negli ultimi tempi Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Se ci dato il Figlio, dice san Paolo, “come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rom 8,32). Ecco perché “la speranza non delude” (Rom 5,5): il dono del Figlio è pegno e garanzia di tutto il resto e, in primo luogo, della vita eterna. Se il Figlio è “l’erede di tutto” (heredem universorum) ( Ebr 1,2), noi siamo i suoi “coeredi” (Rom 8, 17).

I vignaioli iniqui della parabola, vedendo arrivare il figlio, dicono tra sé: “Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità” (Mt 21, 38). Nella sua onnipotenza misericordiosa, Dio Padre ha volto in bene questo disegno criminoso. Gli uomini hanno ucciso il Figlio e hanno avuto davvero l’eredità! Grazie a quella morte, sono diventati “eredi di Dio e coeredi di Cristo”.

Noi creature umane abbiamo bisogno di speranza per vivere, come del l'ossigeno per respirare. Si dice che finché c'è vita c'è speranza; ma e vero anche il rovescio: che finché c'è speranza c'è vita. La speranza è stata per molto tempo, ed è tutt'ora, tra le virtù teologali, la sorella minore, la parente povera. Si parla spesso della fede, più spesso ancora della carità, ma assai poco della speranza.

Il poeta Charles Péguy ha ragione quando paragona le tre virtù teologali a tre sorelle: due adulte e una bambina piccina. Vanno per strada tenendosi per mano (le tre virtù teologali sono inseparabili tra di loro!), le due grandi ai lati, la bambina al centro. Tutti, vedendole, sono convinti che sono le due grandi –la fede e la carità – a trascinare la bambina speranza al centro. Si sbagliano: è la bambina speranza che trascina le altre due; se si ferma essa, si ferma tutto [10].

Lo vediamo anche sul piano umano e sociale. In Italia si è fermata la speranza e con essa la fiducia, lo slancio, la crescita, anche economica. Il “declino” di cui si parla nasce da qui. La paura del futuro ha preso il posto della speranza. La scarsità delle nascite ne è il rivelatore più chiaro. Nessun paese ha bisogno di meditare l’enciclica del papa quanto l’Italia.

La speranza teologale è il “filo dall’alto” che sostiene dal centro tutte le speranze umane. “Il filo dall’alto” è il titolo di una parabola dello scrittore danese Johannes Jrrgensen. Parla del ragno che si cala dal ramo di un albero lungo un filo che lui stesso produce. Posandosi sulla siepe, tesse la sua rete, capolavoro di simmetria e di funzionalità. Essa è tesa ai lati da altrettanti fili, ma tutto è retto al centro da quel filo da cui è sceso. Se si tronca uno dei fili laterali, il ragno interviene, lo ripara e tutto è a posto, ma se si tronca il filo dall’alto (io una volta ho voluto verificare e ho visto che è vero) tutto si affloscia e il ragno scompare, sapendo che non c’è più nulla da fare. È un’immagine di quello che avviene quando si tronca il filo dall’alto che è la speranza teologale. Solo essa può “ancorare” le speranze umane alla speranza “che non delude”.

Nella Bibbia assistiamo a dei veri e propri sussulti o soprassalti di speranza. Uno di essi si trova nella terza Lamentazione: “ Io - dice il profeta - sono la persona che ha provato la miseria e la pena… Ho detto: È sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”.

Ma ecco il sussulto di speranza che capovolge tutto. A un certo punto, l'o rante dice a se stesso: “Ma le misericordie del Signore non so no finite; dunque in lui voglio sperare! Il Signore non rigetta mai, ma se affligge avrà anche pietà. Forse c'è ancora speranza “ (cf Lam 3, 1-29). Dall’istante che il profeta decide di tornare a sperare, il tono del discorso cambia completamente: la lamentazione si trasforma in supplica fiduciosa: “Il Signore non rigetta mai. Ma, se affligge, avrà anche pietà secondo la sua grande misericordia” (Lam 3, 32).

Noi abbiamo un motivo molto più forte per avere questo sussulto di speranza: Dio ci ha dato suo Figlio: come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? A volte giova gridare a se stessi: “Ma Dio c’è e tanto basta!”. Il servizio più prezioso che la Chiesa italiana può fare, in questo momento al paese, è quello di aiutarlo ad avere un sussulto di speranza. Contribuisce a questo scopo chi (come ha fatto Benigni nel suo recente spettacolo in Tv) non ha paura di contrastare il disfattismo, ricordando agli italiani i tanti e straordinari motivi, spirituali e culturali, che essi hanno di avere fiducia nelle proprie risorse. Ma non è solo la chiesa italiana che ha bisogno di un sussulto di speranza; basta pensare alla situazione dei cattolici negli Stati Uniti.

La volta scorsa parlavo di una aromaterapia basata sull’olio di letizia che è lo Spirito Santo. Di questa terapia abbiamo bisogno per guarire dalla malattia più perniciosa di tutte: la disperazione, lo scoraggiamento, la perdita di fiducia in sé, nella vita e perfino nella Chiesa.” “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rom 15,13): così scriveva l’Apostolo ai Romani del suo tempo e ripete a quelli di oggi.

Non si abbonda nella speranza senza la virtù dello Spirito Santo. C'è un canto spiritual afro-americano, dove non si fa che ripetere continuamente queste poche parole: “C’è un balsamo in Gilead che guarisce le anime ferite” (There is a balm in Gilead / to make the wounded whole...). Gilead, o Galaad, è una località famosa nell’Antico Testamento per i suoi profumi e unguenti (cf Ger 8,22). Il canto prosegue dicendo: “A volte mi sento scoraggiato e penso che tutto sia inutile, ma viene lo Spirito Santo e ridà vita alla mia anima”. Gilead è per noi la Chiesa e il balsamo che guarisce è lo Spirito Santo. Egli è la scia di profumo che Gesú si è lasciato dietro, passando su questa terra.

La speranza è miracolosa: quando rinasce in un cuore, tutto è diverso anche se nulla è cambiato. “Anche i giovani faticano e si stancano, si legge in Isaia, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 30-31).

Dove rinasce la speranza rinasce anzitutto la gioia. L’Apostolo dice che i credenti sono spe salvi, “salvati nella speranza” (Rom 8, 24) e che perciò devono essere spe gaudentes “lieti nella speranza” (Rom 12, 12). Non gente che spera di essere felice, ma gente che è felice di sperare; felice già ora, per il semplice fatto di sperare.

Che in questo Natale il Dio della speranza, per virtù dello Spirito Santo e per intercessione di Maria “Madre della speranza”, ci conceda di essere lieti nella speranza e di abbondare in essa.


[1] Cf. J. Dunn, op. cit., p. 746 ss.

[2] Benedetto XVI, Gesú di Nazaret, Rizzoli 2007, p.10.

[3] R. Dawkins, God Delusion, Bantam Books, 2006.

[4] Sulla teoria di Gesú cinico, cf. B. Griffin, Was Jesus a Philosophical Cynic? [http://www-oxford.op.org/allen/html/acts.htm].

[5] Cf. il saggio di Harold Bloom, “Whoever discovers the interpretation of these sayings…”, pubblicato in appendice all’edizione del Vangelo copto di Tommaso curata da Marvin Meyer: The Gospel of Thomas. The Hidden Sayings of Jesus, Harper Collins Publishers, San Francisco 1992.

[6] Formula del sinodo di Sirmio del 351, in A. Hahn, Bibliotek der Symbole und Glaubensregeln in der alten Kirche, Hildesheim 1962, p.197.

[7] Cf. S. Atanasio, Contro gli ariani, I, 17-18 (PG 26, 48).

[8] Wilhelm Bousset, Kyrios Christos, 1913.

[9] L. Hurtado, Lord Jesus Christ. Devotion to Jesus in Earliest Christianity, Grand Rapids, Mich. 2003, p. 650 ; trad. italiana Signore Gesù Cristo, 2 voll. Paideia, Brescia 2007, p. 643.

[10] Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in
Oeuvres poétiques complètes, Gallimard, Parigi 1975, pp. 531 ss.
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