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Padre Raniero Cantalamessa (Riflessioni sull'Avvento 2007)

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 20:06
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25/11/2008 19:56

“Beati voi che ora piangete!”

2006-12-15- I Predica di Avvento alla Casa Pontificia

Iniziamo, con questa meditazione, un ciclo di riflessione sulle beatitudini che, a Dio piacendo, proseguiremo nella prossima Quaresima. Le beatitudini hanno conosciuto, all’interno stesso del Nuovo Testamento, uno sviluppo e delle applicazioni diverse, a seconda della teologia del singolo evangelista o dei bisogni nuovi della comunità. Ad esse si applica quello che san Gregorio Magno dice di tutta la Scrittura, che cioè essa “cum legentibus crescit” [1] , cresce con coloro che la leggono, rivela sempre nuove implicazioni e più ricchi contenuti, a seconda delle istanze e delle domande nuove con cui la si legge.

Mantener fede a questo principio significa che anche oggi noi dobbiamo leggere le beatitudini alla luce delle situazioni nuove in cui ci troviamo a vivere, con la differenza, s’intende, che le interpretazioni degli evangelisti sono ispirate, e perciò normative per tutti e per sempre, mentre quelle di oggi non condividono tale prerogativa.

1. Un nuovo rapporto tra piacere e dolore

Tralasciando la beatitudine dei poveri che abbiamo meditato in un precedente Avvento, ci concentriamo sulla seconda beatitudine: “Beati gli afflitti perché saranno consolati” (Mt 5, 4). Nel vangelo di Luca, dove le beatitudini, in numero di quattro, sono sotto forma di discorso diretto e sono rafforzate da un guai, la stessa beatitudine suona così: “Beati voi che ora piangete, perché riderete”. “Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete” (Lc 6, 21.25).

Il messaggio più formidabile è racchiuso proprio nella struttura di questa beatitudine. Essa ci permette di cogliere la rivoluzione che il vangelo ha operato nei riguardi del problema di piacere e dolore. Il punto di partenza - comune sia al pensiero religioso che a quello profano -, è la constatazione che in questa vita piacere e dolore sono inseparabili; si susseguono l’un l’altro con la stessa regolarità con cui al sollevarsi di un’onda nel mare segue un avvallamento e un vuoto che risucchia il naufrago in mare.

L’uomo cerca disperatamente di staccare questi due fratelli siamesi, di isolare il piacere dal dolore. Ma invano. È lo stesso piacere disordinato che si ritorce contro di lui e si trasforma in sofferenza, o improvvisamente e tragicamente, o un po’ alla volta, in quanto è per sua natura transitorio e genera stanchezza e nausea. È una lezione che ci viene dalla cronaca quotidiana e che l’uomo ha espresso in mille modi nella sua arte e nella sua letteratura. “Un non so che d’amaro - ha scritto il poeta pagano Lucrezio - sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia già nel mezzo delle nostre delizie”[2].

La Bibbia ha una risposta da dare a questo che è il vero dramma dell’esistenza umana. C’è stata, fin dall’inizio, una scelta dell’uomo, resa possibile dalla sua libertà, che lo ha portato a orientare esclusivamente verso le cose visibili la capacità di gioia, di cui era stato dotato perché aspirasse a godere del Bene infinito che è Dio.

Al piacere, scelto contro la legge di Dio e simboleggiato da Adamo ed Eva che gustano del frutto proibito, Dio ha permesso che seguissero il dolore e la morte, più come rimedio che come punizione. Perché non avvenisse, cioè, che, seguendo a briglie sciolte il suo egoismo e il suo istinto, l’uomo si distruggesse del tutto e distruggesse ognuno il suo prossimo. Così al piacere vediamo ormai aderire, come la sua ombra, la sofferenza.

Cristo ha finalmente spezzato questa catena. Egli, “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce” (Ebrei 12, 2). Fece, insomma, il contrario di ciò che fece Adamo e che fa ogni uomo. “La morte del Signore – ha scritto san Massimo il Confessore –, a differenza di quella degli altri uomini, non era un debito pagato per il piacere, ma piuttosto qualcosa che era gettato contro il piacere stesso. E così, attraverso questa morte, cambiò il destino meritato dall’uomo”[3]. Risorgendo da morte, egli ha inaugurato un nuovo genere di piacere: quello che non precede il dolore, come sua causa, ma lo segue come suo frutto.

Tutto questo è meravigliosamente proclamato dalla nostra beatitudine che alla sequenza riso – pianto, oppone la sequenza pianto - riso. Non si tratta di una semplice inversione dei tempi. La differenza, infinita, sta nel fatto che nell’ordine proposto da Gesú è il piacere, non la sofferenza, ad avere l’ultima parola e, quel che più conta, un’ultima parola che dura in eterno.

2. “Dov’è il tuo Dio?”

Ma adesso cerchiamo di capire chi sono esattamente gli afflitti e i piangenti proclamati beati da Cristo. Gli esegeti escludono oggi, quasi unanimemente, che si tratti di afflitti solo in senso oggettivo o sociologico, gente che Gesú proclamerebbe beata per il solo fatto di soffrire e di piangere. L’elemento soggettivo, cioè il motivo del pianto, è determinante.

E qual è questo motivo? La via più sicura per scoprire quale pianto e quale afflizione sono proclamati beati da Cristo è di vedere perché si piange nella Bibbia e perché ha pianto Gesú. Scopriamo così che c’è un pianto di pentimento come quello di Pietro dopo il tradimento, un “piangere con chi piange” (Rom 12, 15) cioè di compassione per il dolore altrui, come pianse Gesú con la vedova di Nain e con le sorelle di Lazzaro; il pianto di esiliati che anelano alla patria, come quello degli ebrei sui fiumi di Babilonia…E tanti altri.

Io vorrei mettere in luce due dei motivi per cui si piange nella Bibbia e per cui ha pianto Gesú che mi sembrano particolarmente da meditare nel momento storico che stiamo vivendo.
Nel salmo 41 leggiamo:

“Le lacrime sono mio pane giorno e notte,
mentre mi dicono sempre: ‘Dov'è il tuo Dio?’...
Per l'insulto dei miei avversari
sono infrante le mie ossa;
essi dicono a me tutto il giorno: ‘Dov'è il tuo Dio?’”.
Mai questa tristezza del credente per il rifiuto spavaldo di Dio intorno a lui ha avuto tanta ragion d’essere come oggi. Dopo il periodo di relativo silenzio seguito alla fine dell’ateismo marxista, stiamo assistendo a un ritorno di fiamma di un ateismo militante e aggressivo, di marca in genere scientifica o scientistica. I titoli di alcuni libri recenti sono eloquenti: “Trattato di ateologia”, “L’illusione di Dio”, “La fine della fede”, “Creazione senza Dio”, “Un’etica senza Dio” [4]…

In uno di questi trattati si legge la seguente dichiarazione: “Le società umane hanno elaborato vari mezzi ordinari di conoscenza, generalmente condivisi, attraverso cui si può accertare qualcosa. Chi afferma l’esistenza di un essere non conoscibile con quegli strumenti, deve accollarsi l’onere della prova. Per questo mi pare legittimo sostenere che, fino a prova contraria, Dio non c’è” [5].

Con gli stessi argomenti si potrebbe dimostrare che neppure l’amore esiste, dal momento che non è accertabile con gli strumenti della scienza. Il fatto è che la prova dell’esistenza di Dio non si trova nei libri e nei laboratori di biologia, ma nella vita. Nella vita di Cristo prima di tutto, dei santi, e degli innumerevoli testimoni della fede. Si trova anche nella tanto disprezzata prova dei segni e dei miracoli che Gesú stesso dava come prova della sua verità e che Dio continua a dare ma che gli atei rigettano a priori, senza neppure darsi pena di esaminarla.

Motivo di tristezza del credente, come per il salmista, è l’impotenza che sperimenta di fronte alla sfida: “Dov’è il tuo Dio?” Con il suo misterioso tacere Dio chiama il credente a condividere la sua debolezza e sconfitta, promettendo solo a queste condizioni la vittoria. “La debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1, 25).

3. “Hanno portato via il mio Signore!”

Non meno doloroso è oggi, per il credente cristiano, il rifiuto sistematico del Cristo della fede, in nome di una ricerca storica obbiettiva che, in certe forme, si riduce alla cosa più soggettiva che si possa immaginare: “fotografie degli autori e dei loro ideali”, come nota il Santo Padre nelle pagine introduttive del suo prossimo libro su Gesú. Assistiamo a una gara a chi riesce a presentare un Cristo più a misura dell’uomo d’oggi, spogliandolo di ogni prerogativa trascendente. Alla domanda degli angeli: “Donna, perché piangi?”, Maria di Magdala il mattino di Pasqua rispose: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (Gv 20, 13). Un motivo di pianto che potremmo fare nostro.

È sempre esistita la tendenza a rivestire Cristo dei panni della propria epoca o della propria ideologia. In passato però, per quanto discutibili, erano cause serie e di grande respiro: il Cristo idealista, romantico, liberale, socialista, rivoluzionario…La nostra epoca, ossessionata dal sesso, non riesce a pensarlo che alle prese con problemi sentimentali. “Ancora una volta Gesú è stato modernizzato o, meglio, postmodernizzato” [6].

È bene conoscere da dove viene questa corrente recente che fa di Gesú di Nazareth il terreno di prova degli ideali postmoderni di relativismo e individualismo assoluti (il cosiddetto decostruzionismo) e che, direttamente o indirettamente, sta ispirando romanzi, film e spettacoli e influenza anche delle inchieste storiche su di lui. Si tratta di un movimento nato negli Stati Uniti negli ultimi decenni del secolo scorso, che ha nel “Jesus Seminar”, Seminario su Gesú, il suo punto di aggregazione più attivo.

Lo si è definito “neoliberalismo”, per il suo ritorno al Gesú della teologia liberale ottocentesca: un Gesú propagatore di idee morali, non più però di grande respiro, come nel liberalismo classico (paternità di Dio, valore infinito dell’anima umana), ma di una sapienza spicciola, di portata sociologica, più che teologica. Lo scopo di questi studiosi non è più semplicemente correggere, ma distruggere, come dicono loro, “quello sbaglio chiamato cristianesimo”.

Molto significativo il discorso programmatico fatto dal fondatore del movimento nel 1985:

“Stiamo per avventurarci in un’impresa di grande portata. Vogliamo semplicemente e vigorosamente metterci alla ricerca della voce di Gesú, di quello che egli disse veramente. In questo processo, porremo delle domande al limite della dissacrazione e perfino della bestemmia agli orecchi di molti nella nostra società. Di conseguenza il cammino che seguiremo potrebbe rivelarsi rischioso. Potrebbe nascere dell’ostilità, ma noi procederemo a dispetto dei pericoli perché il problema di Gesú è lì che ci sfida, come il Monte Everest sfida la cordata degli scalatori [7].
Gesú è liberato non più solo dai dogmi della Chiesa, ma anche dalle Scritture e dai vangeli. Quali fonti restano, a questo punto, per parlare di lui, che non sia la pura e semplice fantasia? Naturalmente, gli apocrifi e, in primo luogo, il Vangelo di Tommaso, datato addirittura, secondo essi, negli anni 30-60 dopo Cristo, prima di tutti i vangeli canonici e dello stesso Paolo; poi l’analisi sociologica delle condizioni di vita in Galilea al tempo di Cristo.

Quale immagine di Gesú se ne ricava? Cito alcune delle definizioni che sono state date, non tutte, naturalmente, condivise da tutti: “un eccentrico galileo”, “il proverbiale festaiolo”, un “saggio vagabondo o sovversivo”, il “maestro di una sapienza aforistica”, “un contadino giudeo imbevuto di filosofia cinica” [8].

Resta da spiegare il mistero come mai un essere così innocuo sia finito sulla croce e abbia potuto diventare “l’uomo che ha cambiato il mondo”. La cosa per cui c’è veramente più da piangere non è che si scrivano queste cose (bisogna pure inventare qualcosa di nuovo se si vuole continuare a scrivere libri); è che, una volta pubblicati, questi libri si vendano a centinaia di migliaia, se non milioni, di copie.

L’incapacità della ricerca storico-filologica di raccordare il Gesú della realtà con il Gesú delle fonti evangeliche e della Chiesa dipende, a mio parere, dal fatto che essa ignora la dinamica dei fenomeni spirituali e soprannaturali. Sarebbe come voler ascoltare un suono con gli occhi o vedere un colore con gli orecchi.

Lo studio e l’esperienza dei fenomeni spirituali e mistici mostra come tutto uno sviluppo posteriore, nella vita della persona stessa o del movimento nato da essa, può essere contenuto in un evento, a volte in un attimo (quando si tratta di un incontro con il divino), di cui solo in seguito, dai frutti, si rivelano le potenzialità nascoste. I sociologi vanno vicino a questa verità con il concetto dello statu nascenti [9].

Il bambino o l’uomo adulto si presenta in modo molto diverso dall’embrione che gli ha dato origine, eppure tutto era contenuto e programmato in esso. Allo stesso modo il regno è all’inizio “il più piccolo di tutti i semi”, ma è destinato a crescere e diventare un albero grande (Mt 13,32).

La nascita del movimento francescano si presta per un confronto, naturalmente su un piano qualitativamente diverso. Le fonti francescane presentano divergenze e contraddizioni quasi su ogni punto della vita del Poverello: sulla visione e la parola del crocifisso di S. Damiano, sull’episodio delle Stimmate…. Di nessuna parola del santo, eccetto le poche scritte di suo pugno, si è sicuri che siano uscite dalla sua bocca. I Fioretti sembrano tutta una idealizzazione della storia.

Eppure tutto quello che è sbocciato intorno e dopo Francesco - il movimento francescano con i suoi riflessi nella spiritualità, nell’arte, nella letteratura - dipende da lui; non è che una manifestazione – e anche impoverita – delle energie spirituali messe in moto dalla sua persona e dalla sua vita; meglio, da quello che Dio aveva fatto nella sua vita.

Molti, perfino tra gli studiosi credenti, danno per scontato che il Gesú reale sia stato, e abbia preteso di essere, molto meno di quello che è scritto di lui nei vangeli, che non si sia attribuito questo e quest’altro titolo. La verità è che egli è immensamente più, non meno, di quello che è scritto di lui! Chi è il Figlio, lo sa solo il Padre e lo sanno, in piccola parte, anche coloro ai quali il Padre lo voglia rivelare, in genere non i dotti e gli scienziati, a meno che anch’essi si facciano piccoli…

Paolo diceva di provare nel cuore “un grande dolore e una sofferenza continua” per il rifiuto di Cristo da parte dei suoi connazionali (Rom 9, 1s.); come non provare lo stesso dolore per il rifiuto di lui da parte di tanti nostri contemporanei, nei paesi di antica fede cristiana? Per un motivo simile - per non aver riconosciuto in lui il proprio amico e salvatore - Gesú pianse su Gerusalemme…

Per fortuna sembra proprio che si stia chiudendo ormai un ciclo e si stia voltando pagina nelle ricerche su Gesù. In un’opera, in tre volumi di un migliaio di pagine ciascuno, intitolata “Gli albori del cristianesimo” (“Christianity in the Making”) destinata a fare epoca come altri suoi studi precedenti, uno dei massimi studiosi viventi del Nuovo Testamento, James Dunn, dopo una serrata analisi dei risultati degli ultimi tre secoli di ricerche, giunge alla conclusione che non c’è stata mai alcuna cesura tra il Gesú predicante e il Gesú predicato e, quindi, tra il Gesú della storia e quello della fede. La fede non è nata dopo la Pasqua, ma con i primi incontri dei discepoli con il Nazareno. Essi sono divenuti discepoli proprio perché hanno creduto in lui, per quanto all’inizio si trattasse di una fede fragile e ancora ignara delle sue implicazioni.

Il contrasto tra Cristo della fede e Gesú della storia è il risultato di una “fuga dalla storia”, prima ancora che di una “fuga dalla fede”, dovute, l’una e l’altra, al fatto di aver proiettato su Gesú interessi e ideali del momento. Sì liberava, sì, Gesú dei panni della dommatica ecclesiastica, ma per mettergli addosso vestiti di moda che cambiavano a ogni stagione. L’immenso sforzo di ricerca profuso intorno alla persona di Cristo non è stato tuttavia vano perché è proprio grazie ad esso che ora, esplorate tutte le soluzioni alternative, siamo in grado di giungere criticamente a questa conclusione [10].

4. “Piangano i sacerdoti, ministri del Signore”

C’è anche un secondo pianto nella Bibbia sul quale dobbiamo riflettere. Ce ne parlano i profeti. Ezechiele riferisce la visione che ebbe un giorno. La voce potente di Dio grida a un misterioso personaggio “vestito di lino e con una borsa da scriba in mano”: “Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono” (Ez 9, 4).

Questa visione ha avuto risonanze profonde nel seguito della rivelazione e della Chiesa. Quel segno, il tau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico, per la sua forma di croce, diviene nell’Apocalisse il “sigillo del Dio vivente” impresso sulla fronte dei salvati (Ap 7, 2 s.).

La Chiesa ha “pianto e sospirato” in tempi recenti per gli abomini commessi nel suo seno da alcuni dei suoi stessi ministri e pastori. Ha pagato un prezzo altissimo per questo. È corsa ai ripari, si è data regole ferree per impedire che gli abusi si ripetano. È venuto il momento, dopo l’emergenza, di fare la cosa più importante di tutte: piangere davanti a Dio, affliggersi come si affligge Dio; per l’offesa fatta al corpo di Cristo e lo scandalo recato “ai più piccoli dei suoi fratelli”, più che per il danno e il disonore arrecato a noi.

È la condizione perché da tutto questo male possa davvero venire del bene e si operi una riconciliazione del popolo con Dio e con i propri sacerdoti.

“Suonate la tromba in Sion,
proclamate un digiuno,
convocate un'adunanza solenne...
Tra il vestibolo e l'altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al vituperio
e alla derisione delle genti” (Gl 2, 15-17).

Queste parole del profeta Gioele contengono un appello per noi. Non si potrebbe fare lo stesso anche oggi: indire un giorno di digiuno e di penitenza, a livello locale e nazionale, dove il problema è stato più forte, per esprimere pubblicamente pentimento davanti a Dio e solidarietà con le vittime, operare insomma una riconciliazione degli animi e riprendere un cammino di Chiesa, rinnovati nel cuore e nella memoria?

Mi danno il coraggio di dire questo le parole pronunciate dal Santo Padre all’episcopato di una nazione cattolica in una recente visita ad limina: ”Le ferite causate da simili atti sono profonde, ed è urgente il compito di ristabilire la confidenza e la fiducia quando queste sono state lese…In tal modo la Chiesa si rafforzerà e sarà sempre più capace di dare testimonianza della forza redentrice della Croce di Cristo” [11].

Ma non dobbiamo lasciare senza una parola di speranza anche gli sventurati fratelli che sono stati la causa del male. Sul caso di incesto avvenuto nella comunità di Corinto l’Apostolo sentenziò: “Questo individuo sia dato in balìa di satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore” (1 Cor 5,5). (Oggi diremmo: sia consegnato alla giustizia umana, perché la sua anima ottenga la salvezza). La salvezza del peccatore, non il suo castigo, stava a cuore all’Apostolo.

Un giorno che predicavo al clero di una diocesi che aveva molto sofferto per questa ragione, mi colpì un pensiero. Questi nostri fratelli sono stati spogliati di tutto, ministero, onore, libertà, e Dio solo sa con quanta effettiva responsabilità morale, nei singoli casi; sono diventati gli ultimi, i reietti…Se in questa situazione, toccati dalla grazia, si affliggono per il male causato, uniscono il loro pianto a quello della Chiesa, la beatitudine degli afflitti e di coloro che piangono diventa di colpo la loro beatitudine. Potrebbero essere vicini a Cristo che è l’amico degli ultimi, più di tanti altri, me compreso, ricchi della propria rispettabilità e forse portati, come i farisei, a giudicare chi sbaglia.

C’è una cosa però che questi fratelli dovrebbero assolutamente evitare di fare e che qualcuno, purtroppo, sta cercando invece di fare: approfittare del clamore per trarre vantaggi anche dalla propria colpa, rilasciando interviste, scrivendo memoriali, nel tentativo di far ricadere la colpa sui superiori e sulla comunità ecclesiale. Questo rivelerebbe una durezza di cuore davvero pericolosa.

5. Le lacrime più belle

Termino accennando a un diverso tipo di lacrime. Si può piangere di dolore, ma anche di commozione e di gioia. Le lacrime più belle sono quelle che ci riempiono gli occhi quando, illuminati dallo Spirito Santo, “gustiamo e vediamo quanto è buono il Signore” (Sal 34, 9).

Quando si è in questo stato di grazia ci si stupisce che il mondo e noi stessi non cadiamo in ginocchio e non piangiamo tutto il tempo di stupore e di commozione. Lacrime di questo tipo dovevano scendere dagli occhi di Agostino quando scriveva nelle Confessioni: “Quanto ci hai amato, o Padre buono, che non hai risparmiato il tuo unico Figlio, ma lo hai dato per tutti noi. Quanto ci hai amato!” [12].

Lacrime come queste versò Pascal la notte che ebbe la rivelazione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe che si rivela per le vie del vangelo e su un foglietto di carta (trovato cucito all’interno della giacca dopo la sua morte) scrisse: “Gioia, gioia, lacrime di gioia!”. Io penso che anche le lacrime con cui la peccatrice bagnò i piedi di Gesú non erano lacrime solo di pentimento, ma anche di gratitudine e di gioia.

Se in cielo si può piangere, è di questo pianto che è pieno il paradiso. A Istambul, l’antica Costantinopoli, dove il Santo Padre si è recato giorni fa, visse intorno all’anno mille san Simeone il Nuovo Teologo, il santo delle lacrime. Egli è l’esempio più fulgido nella storia della spiritualità cristiana delle lacrime di pentimento che si trasformano in lacrime di stupore e di silenzio. “Piangevo –racconta in una sua opera – ed ero in una gioia inesprimibile” [13]. Parafrasando la beatitudine degli afflitti, egli dice: “Beati coloro che sempre piangono amaramente i loro peccati, perché li afferrerà la luce e trasformerà le lacrime amare in dolci” [14]

Che Dio ci conceda di gustare, una volta lmeno nella vita, queste lacrime di commozione e di gioia.




1. Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, 20,1 (CC 143 A, p. 1003).
2. Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
Massimo il Confessore, Capitoli vari, IV cent. 39; in Filocalia, II, Torino 1983, p. 249.
3. Rispettivamente di Michel Onfray, di Richard Dawkins, Sam Harris, Telmo Pievani, Eugenio Lecaldano.
4. Carlo Augusto Viano, Laici in ginocchio, Laterza, Bari.
5. J. D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I,1, Brescia, Paideia 2006, p. 81.
6. Robert Funk, Discorso inaugurale del Marzo 1985, a Berkeley in California.
7. Cfr. J. D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I, 1, Brescia 2006, pp. 75-82.
8. Cf. F. Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti, Milano 1981.
9. Cfr. Dunn, Christianity in the Making, Grand Rapids, Michigan 2003.
10. Sono usciti in italiano i primi due volumi del primo tomo con il titolo Gli albori del cristianesimo, I, La memoria di Gesú, vol. 1: Fede e Gesú storico; I, 2: La missione di Gesú, Paideia, Brescia 2006.
11. Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della conferenza episcopale di Irlanda, sabato 28 ottobre 2006.
12. Agostino, Confessioni, X, 43.
13. Simeone, il Nuovo Teologo, Ringraziamenti, 2 (SCh 113, p. 350).
14. Simeone, il Nuovo Teologo, Trattati etici, 10 (SCh 129, p. 318).
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