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Padre Raniero Cantalamessa (Riflessioni sull'Avvento 2007)

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 20:06
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25/11/2008 20:01

Beati gli operatori di pace perchè saranno chiamati figli di Dio
2006-12-22- II Predica di Avvento alla Casa Pontificia


1. Il messaggio per la giornata mondiale della pace

Le beatitudini non sono disposte secondo una successione logica. Eccetto la prima che da il tono a tutte le altre, esse si possono considerare ognuna separatamente, senza che il loro senso sia minimamente compromesso. Il messaggio del papa per la giornata mondiale della pace mi ha spinto a rimandare ad altra occasione la riflessione sulla terza beatitudine, quella dei miti, per dedicare questo incontro alla beatitudine degli operatori di pace. È bene infatti che il messaggio della pace, destinato a tutto il mondo, sia anzitutto accolto, meditato e porti frutti qui tra noi, al centro della Chiesa.

Quello di quest’anno è un messaggio per la pace a tutto campo; spazia dall’ambito personale a quelli più vasti della politica, dell’economia, dell’ecologia, degli organismi internazionali. Ambiti diversi, ma unificati dal fatto di avere tutti come oggetto primario la persona umana, da cui il titolo del messaggio “La persona umana, cuore della pace”.

C’è nel messaggio un’affermazione fondamentale che è come la chiave di lettura di tutto; dice:

“La pace è insieme un dono e un compito. Se è vero che la pace tra gli individui ed i popoli — la capacità di vivere gli uni accanto agli altri tessendo rapporti di giustizia e di solidarietà — rappresenta un impegno che non conosce sosta, è anche vero, lo è anzi di più, che la pace è dono di Dio. La pace è, infatti, una caratteristica dell'agire divino, che si manifesta sia nella creazione di un universo ordinato e armonioso come anche nella redenzione dell'umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del peccato. Creazione e redenzione offrono dunque la chiave di lettura che introduce alla comprensione del senso della nostra esistenza sulla terra” [1].
Queste parole aiutano a capire la beatitudine degli operatori di pace, e questa, a sua volta, getta una luce singolare su queste parole. L’imminenza del Natale da un tono particolare, liturgico, alla nostra meditazione. Nella notte di Natale ascolteremo le parole dell’inno angelico: “Pace in terra agli uomini amati dal Signore”, il cui senso non è: sia pace, ma è pace; non un augurio, ma una notizia. “Il Natale del Signore, diceva san Leone Magno- è il natale della pace”: Natalis Domini natalis est pacis [2]. Mediteremo sulla pace come dono e compito.

2. Chi sono gli operatori di pace

La settima beatitudine suona: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”. Insieme con quella dei misericordiosi, questa è l’unica beatitudine che non dice tanto come bisogna ”essere” (poveri, afflitti, miti, puri di cuore), quanto cosa si deve “fare”. Il termine eirenopoioi significa coloro che lavorano per la pace, che “fanno pace”. Non tanto, però, nel senso che si riconciliano con i propri nemici, quanto nel senso che aiutano i nemici a riconciliarsi. “Si tratta di persone che amano molto la pace, tanto da non temere di compromettere la propria pace personale intervenendo nei conflitti al fine di procurare la pace tra quanti sono divisi” [3].

Operatori di pace non è dunque sinonimo di pacifici, cioè di persone tranquille e calme che evitano il più possibile i contrasti (questi sono proclamati beati da un’altra beatitudine, quella dei miti); non è sinonimo neppure di pacifisti, se per pacifisti si intendono quelli che si schierano contro la guerra (più spesso, contro uno dei contendenti in guerra!), senza fare nulla per riconciliare tra loro i contendenti. Il termine più giusto è pacificatori.

Al tempo del Nuovo Testamento pacificatori erano detti i sovrani, soprattutto l’imperatore romano. Augusto metteva in cima alle proprie imprese quella di aver stabilito nel mondo la pace, mediante le sue vittorie militari (parta victoriis pax) e a Roma fece erigere la famosa Ara pacis, l’altare della pace.

Qualcuno ha pensato che la beatitudine evangelica intenda opporsi a questa pretesa, dicendo chi sono i veri operatori della pace e in che modo essa viene promossa: mediante vittorie, sì, ma vittorie su se stessi, non sui nemici, non distruggendo il nemico, ma distruggendo l’inimicizia, come fece Gesù sulla croce (Ef 2, 16).

Oggi prevale però l’opinione che la beatitudine vada letta tenendo conto della Bibbia e delle fonti giudaiche, in cui aiutare persone in discordia a riconciliarsi e a vivere in pace è visto come una delle principali opere di misericordia. Sulla bocca di Cristo la beatitudine degli operatori di pace discende dal comandamento nuovo dell’amore fraterno, è una modalità in cui si esprime l’amore del prossimo.

In tal senso si direbbe che questa è per eccellenza la beatitudine della Chiesa di Roma e del suo vescovo. Uno dei servizi più preziosi resi alla cristianità dal papato è stato sempre quello di promuovere la pace tra le diverse chiese e, in certe epoche, anche tra i principi cristiani. La prima lettera apostolica di un papa, quella di san Clemente I, scritta intorno al 96 (prima ancora, forse, del Quarto Vangelo), fu scritta per riportare la pace nella Chiesa di Corinto dilaniata da discordie. È un servizio che non si può rendere senza un qualche potere reale di giurisdizione. Per rendersi conto della sua preziosità basta guardare le difficoltà che sorgono là dove esso è assente.

La storia della Chiesa è ricca di episodi in cui chiese locali, vescovi o abati, in lite tra di loro o con il proprio gregge, sono ricorsi al papa come arbitro di pace. Anche oggi, sono sicuro, questo è uno dei servizi più frequenti, anche se dei meno conosciuti, resi alla Chiesa universale. Anche la diplomazia vaticana e i nunzi apostolici trovano la loro giustificazione nell’essere strumenti a servizio della pace.

3. La pace come dono

Ma Dio stesso, non un uomo, è il vero e supremo “operatore di pace”. Proprio per questo quelli che si adoperano per la pace sono chiamati “figli di Dio”: perché somigliano a lui, imitano lui, fanno quello che fa lui. Il messaggio pontificio dice che la pace è caratteristica dell’agire divino nella creazione e nella redenzione, cioè sia nell’agire di Dio che in quello di Cristo.
La Scrittura parla della ”pace di Dio” (Fil 4,7) e più spesso ancora del “Dio della pace” (Rom 15,32). Pace non indica solo ciò che Dio fa o dà, ma anche ciò che Dio è. Pace è ciò che regna in Dio. Quasi tutte le religioni fiorite intorno alla Bibbia conoscono mondi divini in guerra al loro interno. I miti cosmogonici babilonesi e greci parlano di divinità che si fanno guerra tra loro. Nella stessa gnosi eretica cristiana, non c’è unità e pace tra gli Eoni celesti, e l’esistenza del mondo materiale sarebbe proprio il frutto di un incidente e di una disarmonia occorsi nel mondo superiore.

Su questo sfondo religioso si può meglio cogliere la novità e l’alterità assoluta della dottrina della Trinità come perfetta unità d’amore nella pluralità delle persone. In un suo inno, la Chiesa chiama la Trinità “oceano di pace”, e non è solo una frase poetica. Ciò che più colpisce contemplando l’icona della Trinità di Rublev (riprodotta in questa cappella nella parete di fronte, sopra la Vergine in trono) è il senso di sovrumana pace che emana da essa. Il pittore è riuscito a tradurre in un immagine il motto di san Sergio di Radonez, per il cui monastero fu dipinta l’icona: “Contemplando la Santissima Trinità, vincere l’odiosa discordia di questo mondo”.

Chi ha meglio celebrato questa Pace divina che viene da oltre la storia, è stato lo Pseudo-Dionigi Areopagita. Pace è per lui uno dei “nomi di Dio”, allo stesso titolo che “amore” [4]. Anche di Cristo è detto che “è” lui stesso la nostra pace (Ef 2, 14-17). Quando dice: “Vi do la mia pace”, egli ci trasmette quello che è.

C’è un nesso inscindibile tra la pace dono dall’alto e lo Spirito Santo; non per nulla essi sono rappresentati dallo stesso simbolo della colomba. La sera di Pasqua Gesú diede ai discepoli, quasi d’un sol fiato, la pace e lo Spirito Santo: “Pace a voi!...Detto questo alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 21-22). La pace, dice Paolo, è un “frutto dello Spirito” (Gal 5,22).

Si capisce allora cosa significa essere operatore di pace. Non si tratta di inventare o creare la pace, ma di trasmetterla, di lasciar passare la pace di Dio e la pace di Cristo “che supera ogni intelligenza”. “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesú Cristo” (Rom 1, 7): questa la pace che l’Apostolo trasmette ai cristiani di Roma.

Noi non dobbiamo né possiamo essere sorgenti, ma solo canali della pace. Lo esprime alla perfezione la preghiera attribuita a Francesco d’Assisi: “Signore, fa di me uno strumento della tua pace”. In inglese traducono giustamente: Fa’ di me un canale della tua pace, “make me a channel of your peace”.

Ma cos’è la pace di cui parliamo? È divenuta classica la definizione datane da sant’Agostino: “La pace è la tranquillità dell’ordine” [5]. Basandosi su di essa san Tommaso dice che nell’uomo esistono tre tipi di ordine: con se stesso, con Dio, e con il prossimo, ed esistono, di conseguenza, tre forme di pace: la pace interiore, con la quale l’uomo è in pace con se stesso; la pace per cui l’uomo sta in pace con Dio, assoggettandosi pienamente alle sue disposizioni, e la pace relativa al prossimo, per cui si vive in pace con tutti” [6].

Nella Bibbia, però, shalom, pace, dice più che la semplice tranquillità dell’ordine. Indica anche benessere, riposo, sicurezza, successo, gloria. A volte designa, addirittura, la totalità dei beni messianici ed è sinonimo di salvezza e di bene: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunci che annuncia la pace, messaggero di bene che annuncia la salvezza” (Is 52,7). La nuova alleanza è chiamata una “alleanza di pace” (Ez 37, 26), il vangelo “vangelo della pace” (Ef 6, 15), come se nella parola pace si riassumesse tutto il contenuto dell’alleanza e del vangelo.

Nell’Antico Testamento, pace viene spesso accostata a giustizia (Sal 85,11: “Giustizia e pace si baceranno”) e nel Nuovo Testamento a grazia. Quando san Paolo scrive: “Giustificati per mezzo della fede, noi siamo in pace con Dio” (Rom 5,1), è chiaro che “in pace con Dio” ha lo stesso significato pregnante che “in grazia di Dio”.

4. La pace come compito

Il messaggio del papa dice, però, che la pace, oltre che dono, è anche compito. Ed è della pace come compito che ci parla in primo luogo la beatitudine degli operatori di pace.

La condizione per poter essere canali di pace è rimanere uniti alla sua sorgente che è la volontà di Dio: “En la sua voluntade è nostra pace”, fa dire Dante a un’anima del Purgatorio. Il segreto della pace interiore, è l’abbandono totale e sempre rinnovato alla volontà di Dio. Aiuta a conservare o ritrovare questa pace del cuore ripetere spesso a se stessi con santa Teresa d’Avila: “Niente ti turbi, niente ti spaventi. Tutto passa, Dio solo resta. La pazienza tutto vince. Nulla manca a chi ha Dio. Dio solo basta”.

La parenesi apostolica è ricca di indicazioni pratiche su ciò che favorisce o che ostacola la pace. Uno dei passi più noti è quello della Lettera di Giacomo: “Dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall'alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace” (Gc 3, 16-18).

Da questo ambito personalissimo deve partire ogni sforzo di costruire la pace. La pace è come la scia di un bel vascello che va allargandosi all’infinito, ma comincia con una punta, e la punta è, in questo caso, il cuore dell’uomo. Uno dei messaggi di Giovanni Paolo II per la giornata della pace, quello del 1984, portava come titolo: “La pace nasce da un cuore nuovo”.

Ma non è su questo ambito personale che vorrei dilungarmi. Oggi si apre davanti agli operatori di pace un campo di lavoro nuovo, difficile e urgente: promuovere la pace tra le religioni e con la religione, cioè sia delle religioni tra di loro, sia dei credenti delle varie religioni con il mondo laico non credente. Il messaggio del papa dedica un paragrafo alle difficoltà che si incontrano in questo campo. Dice:

“Per quanto riguarda poi la libera espressione della propria fede, un altro preoccupante sintomo di mancanza di pace nel mondo è rappresentato dalle difficoltà che tanto i cristiani quanto i seguaci di altre religioni incontrano spesso nel professare pubblicamente e liberamente le proprie convinzioni religiose... Vi sono regimi che impongono a tutti un'unica religione, mentre regimi indifferenti alimentano non una persecuzione violenta, ma un sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose. In ogni caso, non viene rispettato un diritto umano fondamentale, con gravi ripercussioni sulla convivenza pacifica. Ciò non può che promuovere una mentalità e una cultura negative per la pace” (n. 3).

Di questo dileggio culturale, o almeno tentativo di emarginazione, delle credenze religiose stiamo avendo un esempio proprio in questi giorni, con la campagna messa in atto in vari paesi e città d’Europa contro i simboli religiosi del Natale. Si adduce spesso come motivo la volontà di non offendere le persone di altre religioni che sono tra noi, specie i musulmani. Ma è un pretesto, una scusa. In realtà è un certo mondo laicista che non vuole questi simboli, non i musulmani. Essi non hanno nulla contro il Natale cristiano che anzi onorano.

Siamo giunti all’assurdo che molti musulmani celebrano la nascita di Gesú e arrivano a dire che “non è musulmano chi non crede nella nascita miracolosa di Gesú” [7], mentre altri che si dicono cristiani vogliono fare del Natale una festa invernale, popolata solo di renne e di orsacchiotti.

Nel Corano c’è una Sura dedicata alla nascita di Gesú che vale la pena di conoscere, anche per favorire il dialogo e l’amicizia tra le religioni. Dice:

“Gli angeli dissero: O Maria, Iddio ti dà la lieta novella di un Verbo da Lui. Il suo nome sarà Gesú (‘Isà) figlio di Maria. Sarà illustre in questo mondo e nell’altro…Parlerà agli uomini dalla culla e da uomo maturo, e sarà dei Santi. Disse Maria: ‘Signore mio, come potrò avere un figlio, quando nessun uomo mi ha toccata?’ Rispose: ‘Proprio così: Iddio crea ciò che Egli vuole, e quando ha deciso una cosa, le dice soltanto “sii”, ed essa è’” [8].
Nella puntata del programma sul vangelo domenicale “A sua immagine” che va in onda su Rai Uno domani sera, ho chiesto a un fratello musulmano di leggere questo passo e lo ha fatto con grande gioia, lieto di contribuire a chiarire un equivoco che danneggia, diceva, gli stessi credenti islamici, con il pretesto di favorire la loro causa.

Il motivo che permette un dialogo serio tra le religioni- fondato non solo sulle ragioni di opportunità che conosciamo bene, ma su un solido fondamento teologico - è che “abbiamo tutti un unico Dio”, come ricordava il Santo Padre in occasione della sua visita alla moschea Blu di Istanbul. È la verità da cui anche san Paolo partì nel suo discorso all’areopago di Atene (cf. At 17, 28).

Abbiamo, soggettivamente, idee diverse su di Lui. Per noi cristiani Dio è “il Padre del Signore nostro Gesú Cristo” che non si conosce pienamente se non “per mezzo suo”, ma oggettivamente sappiamo bene che di Dio non ce ne può essere che uno. C’è “un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4, 6).

Fondamento teologico del dialogo è anche la nostra fede nello Spirito Santo. Come Spirito della redenzione e Spirito della grazia, egli è il vincolo della pace tra i battezzati delle diverse confessioni cristiane; come Spirito della creazione, Spiritus creator, egli è un vincolo di pace tra i credenti di tutte le religioni e anzi tra tutti gli uomini di buona volontà. “Ogni verità, da chiunque venga detta -ha scritto san Tommaso d’Aquino-, viene dallo Spirito Santo” [9].

Come però questo Spirito creatore tendeva a Cristo nei profeti dell’Antico Testamento (1 Pt 1,11), così crediamo che, in modo noto solo a Dio, tende ora a Cristo e al suo mistero pasquale nella sua azione fuori della Chiesa. Come il Figlio non fa nulla senza il Padre, così lo Spirito Santo non fa nulla senza il Figlio.

Tutto il recente viaggio del Santo Padre in Turchia è stato un operare per la pace religiosa, ricco di frutti come tutte le cose nate nel segno della croce: pace tra la Chiesa cristiana d’oriente e quella d’occidente, pace tra cristianesimo e Islam. “Questa visita ci aiuterà a trovare insieme i modi e le strade della pace per il bene dell’umanità”, è stato il commento del Santo Padre in occasione della preghiera silenziosa nella moschea Blu.

5. Una pace senza religioni?

L’occidente secolarizzato auspica, a dir vero, un diverso tipo di pace religiosa, quello che risulta dalla scomparsa di ogni religione.

Immagina che non esiste paradiso, / è facile se provi./ Nessun inferno sotto di noi, / nient’altro che il cielo su di noi.
Immagina tutta la gente / vivere per l’oggi, / immagina non ci sono patrie. /Non è difficile, vedrai. / Nulla per cui uccidere o morire / e nessuna religione più.
Immagina tutta la gente / vivere la vita in pace. / Ti sembro un sognatore? /Non sono il solo. / Spero che un giorno ti unirai a noi / e il mondo sarà una cosa sola [10].
Questa canzone, scritta da uno dei grandi idoli della musica leggera moderna, su una melodia suadente, è diventata una specie di manifesto secolare del pacifismo. Se esso si dovesse realizzare, quello qui auspicato sarebbe il mondo più povero e più squallido che si possa immaginare; un mondo piatto, in cui sono abolite tutte le differenze, dove la gente è destinata a sbranarsi, non a vivere in pace, perché come ha messo in luce René Girard, là dove tutti vogliono le stesse cose, il “desiderio mimetico” si scatena e con esso la rivalità e la guerra.

Noi credenti non possiamo però lasciarci andare a risentimenti e polemiche neanche contro il mondo secolarizzato. Accanto al dialogo e la pace tra le religioni, si pone già un altro traguardo agli operatori di pace: quello della pace tra i credenti e i non credenti, tra le persone religiose e il mondo secolare, indifferente o ostile alla religione.

Sarà questo un altro banco di prova: dare ragione, anche con fermezza, della speranza che è in noi, ma farlo - come esorta la Lettera di Pietro e come ce ne da l’esempio il suo attuale successore - “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 2, 15-16). Rispetto non significa in questo caso “rispetto umano”, un tener nascosto Gesú per non suscitare reazioni. È rispetto di una interiorità che è nota solo a Dio e che nessuno può violare o costringere a cambiare. Non è un mettere tra parentesi Gesú, ma un mostrare Gesú e il vangelo con la vita. Ci auguriamo soltanto che un uguale rispetto sia mostrato dagli altri nei confronti dei cristiani, ciò che finora, purtroppo, è spesso mancato.

Terminiamo, tornando con il pensiero al Natale. Un antico responsorio del mattutino di Natale diceva: Hodie nobis de caelo pax vera descendit. Hodie per totum mundum melliflui facti sunt caeli: “Oggi è scesa per noi dal cielo la pace vera. Oggi i cieli stillano miele sul mondo”.

Come ricambiare il dono infinito che il Padre fa al mondo, dando per esso il suo Figlio Unigenito? Se c’è una gaffe da non fare a Natale è quella di riciclare un regalo offrendolo, per errore, alla persona stessa da cui si è ricevuto. Ebbene, con Dio non possiamo che fare tutto il tempo questa gaffe! L’unico ringraziamento possibile è l’Eucaristia: rioffrirgli Gesú suo Figlio, divenuto nostro fratello.

E a Gesú che dono faremo? Un testo della liturgia orientale di Natale dice: "Cosa possiamo offrirti, o Cristo, per esserti fatto uomo sulla terra? Ogni creatura ti reca il segno della sua riconoscenza: gli angeli i loro canti, i cieli la loro stella, la terra una grotta, il deserto un presepio. Ma noi ti offriamo una Madre vergine!" [11]

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle: grazie per il benevolo ascolto e Buon Natale!

1. Benedetto XVI, La persona umana, cuore della pace”. Messaggio per la giornata mondiale della pace 2007.
2. S. Leone Magno, Trattati 26 (CC 138, linea130)
3. J. Dupont, Le beatitudini, III, p.1001.
4. Pseudo Dionigi Areopagita, Nomi divini, XI, 1 s (PG 3, 948 s).
5. S. Agostino, La città di Dio, XIX, 13 (CC 48, p. 679).
6. Cf. S. Tommaso d’Aquino, Commento al vangelo di Giovanni, XIV, lez.VII, n.1962.
7. Magdi Allan, “Noi musulmani diciamo sì al presepe”, “Il Corriere della sera” 18 Dicembre 2006, p. 18.
8. Corano, Sura III, trad. di M.M. Moreno, Torino, UTET, 1971, p. 65.
9. S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I-IIae q. 109, a. 1 ad 1; Ambrosiaster, Sulla prima lettera ai Corinti, 12, 3 (CSEL 81, p.132).
10. John Lennon, "Imagine there’s no heaven / it’s easy if you try. / No hell below us / above us only sky.Imagine all the people / living for today./ Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do. / Nothing to kill or die for / and no religion too. /Imagine all the people / living for today./ Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do./ Nothing to kill or die for /and no religion too...Imagine all the people / living life in peace. / You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one./ I hope someday you’ll join us / and the world will live as one”.
11. Idiomelon ai Grandi Vespri di Natale.


Tempo fa, nel reparto di oncologia pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma morirono a distanza di pochi giorni due bambini, Vincenzino e Mohamed, un italiano di religione cattolica e un iracheno di religione islamica. Una scrittrice di favole per bambini, Lauretta, che da anni fa volontariato in quel reparto, scrisse in quell’occasione una favola. La riporto in appendice alla mia predica per l’attinenza con uno dei temi trattati e per la sua incantevole bellezza.

IL NOME DI DIO

— Sei pronto, Vincenzino?— chiese con voce dolcissima l’Angelo che era entrato in quel momento nella stanza del bimbo, all’ospedale
— Sì! — rispose il bambino e aggiunse: Andiamo da Dio, vero?
L’angelo assentì col capo. Vincenzino mise fiducioso la sua manina in quella dell’angelo. Insieme lasciarono l’ospedale, la città addormentata sotto una coltre di stelle, la terra verdazzurra e si inoltrarono lungo le vie del cielo, scintillanti di luce. Il bimbo saltellava al fianco dell’angelo, quando, all’improvviso, si sentì chiamare:
— Vincenzino, dove vai? Aspettami!
Si voltò indietro e vide venire verso di lui il suo amichetto Mohamed, compagno di tanti giochi, là in ospedale. Anche Mohamed era affiancato da un angelo che indossava una veste candida, stretta in vita da una fascia d’oro.
Sapendo che Mohamed era venuto da lontano per curarsi e che era in ospedale solo con il papà, Vincenzino domandò:
— L’hai detto al tuo papà?
— No, l’ho lasciato inginocchiato sul tappeto della preghiera. M’è sembrato il momento migliore, per partire. Sono sicuro che Allah saprà consolarlo, dettargli le risposte giuste in fondo al cuore.
— Allah? — domandò Vincenzino con stupore — E chi è Allah?
Mohamed scoppiò in una risata. Quella risata argentina che lo contraddistingueva e che gli faceva brillare i grandi occhi scuri.
— Allah è Dio!
— No, Dio si chiama Trinità — ribatté Vincenzino — Ne sono sicuro perché me l’ha detto mio padre.
— Anch’io sono sicuro che si chiama Allah, me l’ha detto mio padre — disse Mohamed.
Poiché l’autorità di un papà non si mette in discussione, i due bambini dovettero concludere:
— Ma allora il tuo Dio non è uguale al mio!
— Questo vuol dire che gli angeli non ci stanno portando dalla stessa parte! — realizzò in un istante Vincenzino e aggiunse: Io non voglio vedere la Trinità, senza di te!
— Neppure io voglio vedere Allah, senza di te!
Per fortuna, gli angeli stavano conversando amichevolmente tra di loro. Un’occhiata d’intesa passò tra i due bambini che fecero dietrofront e si nascosero in mezzo a un banco di nuvole.
— Adesso dobbiamo cercare un posto dove stare insieme — disse Mohamed.
Mano nella mano, il piccolo musulmano e il piccolo cattolico si incamminarono su una strada lastricata di turchesi.
Cammina cammina arrivarono in vista di una città le cui porte erano di zaffiro e di smeraldo, le mura di pietre preziose e le torri di oro purissimo.
— Quella è la casa di Dio! — esclamò Vincenzino. Del mio Dio — precisò poi.
— No, quella è la casa del mio Dio — disse convinto Mohamed.
— Ma se è come quella del racconto della Bibbia che mi leggeva la nonna a casa, la sera! — disse Vincenzino, quasi piagnucolando.
— Non è possibile, guarda: ci sono due giardini con frutta, palme e melegrane. E anche due fonti zampillanti: è tutto proprio com’è decritto nel libro del Corano.
— Scommetti che è la casa del mio Dio? — disse Vincenzino.
— Scommetti che è la casa del mio Dio? — disse Mohamed.
Così dicendo, i due bambini corsero verso l’ ingresso principale davanti al quale stavano due Angeli, in candide vesti.
— Abita qui la Trinità? — domandò Vincenzino.
— Sì — rispose uno dei due angeli, sorridendo.
Per nulla convinto, Mohamed domandò:
— Abita qui Allah?
— Sì — rispose l’altro angelo, con un identico sorriso.
— Andiamo a vedere di persona — disse Mohamed, che era un tipo pratico. Forse il tuo Dio e il mio Dio abitano nella stessa casa.
Con grandissimo stupore, Vincenzino e Mohamed dovettero constatare che c’era un solo Dio, seduto sul suo trono sfavillante di luce.
— Tu sei Trinità? — domandò il piccolo cattolico.
— Sì, lo sono.
— Tu sei Allah? — domandò il piccolo musulmano.
— Sì, lo sono.
— Ma allora hai due nomi! — constatarono i bambini, stupefatti.
— Non solo due, ne ho molti di più! — disse Dio, divertito — Mi chiamano persino Caso, Natura, ma sono sempre io!
— Senti — disse Mohamed, il tipo pratico — non si potrebbe chiamarti con un nome solo, visto che tu sei solo Uno? Così, tanto per non fare confusione.
— Chiamatemi Amore — disse Dio, stringendosi al petto il piccolo cattolico e il piccolo musulmano.
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