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Lettera ai COLOSSESI

Ultimo Aggiornamento: 26/11/2008 11:36
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26/11/2008 11:35

Il codice domestico
(3,18-4,1)

18Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. 19Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse. 20Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. 21Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino. 22Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. 23Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, 24sapendo che come ricompensa riceverete dal Signore l’eredità. Servite a Cristo Signore. 25Chi commette ingiustizia infatti subirà le conseguenze del torto commesso, e non v’è parzialità per nessuno.

1Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo.

Dapprima ci si rivolge alle mogli e ai mariti, poi ai figli e ai padri e infine agli schiavi e ai padroni. Si insegna l’obbedienza a coloro che devono sottostare e si ricorda ai superiori come devono comportarsi con le persone che sono affidate alle loro cure. La direttiva, per cui i subordinati devono sottomettersi, non deve essere fraintesa o distorta. Se alcuni sono tenuti all’obbedienza, gli altri sono tenuti a mettersi nei panni dei dipendenti e a lasciarsi guidare dal precetto dell’amore.

v. 18. Le mogli devono sottostare ai loro mariti. Ciò è fissato dalla tradizione. Ma la motivazione vincolante dell’ammonimento è data dalle parole "nel Signore".

Se la sostanza dell’ammonimento si collega alle regole di comportamento comunemente vigenti, qui si indica che il mantenimento dell’ordine retto deve essere osservato dai cristiani come espressione della loro fede in Cristo Signore; perché non esiste alcun settore della vita umana in cui possano vivere senza il loro Signore.

v. 19. Le mogli devono obbedire ai loro mariti; costoro però sono invitati ad amare le loro mogli. Viene loro proibito di comportarsi arrogantemente e di credersi superiori. Essi sono responsabili delle loro mogli e devono convivere con esse nell’agàpe, considerata il giusto modo di comportarsi.

Il comandamento di non trattare con arroganza o collera la moglie è l’espressione del comandamento dell’amore, che determina la condotta dei cristiani.

v. 20. Ai figli è comandato di essere in tutto obbedienti ai genitori, perché ciò è gradito al Signore. L’obbedienza dei figli viene motivata, come la sottomissione delle mogli, con l’espressione "en Kyrìo", nel Signore. Essa deve essere motivata e vissuta nella fede come obbedienza a Cristo Signore che manifesta i suoi comandi tramite l’autorità dei genitori.

v. 21. I padri devono stare attenti a non irritare o a non provocare i figli, affinché questi non si deprimano e non diventino timidi. Non è detto per quale motivo essi possano scoraggiarsi. Ai padri viene ordinato di non comandare ai figli secondo il loro insindacabile arbitrio, ma di avere un comportamento riflessivo e controllato.

v. 22. Le prime quattro proposizioni del codice domestico sono formulate con la massima stringatezza; ora, invece, rivolgendosi agli schiavi, ci si dilunga. Come potesse convivere la libertà donata nel Cristo con la servitù nella quale gli schiavi erano ancora sottomessi ai loro padroni era un problema che richiedeva una risposta (1Cor 7,21-24).

L’esortazione riguardante gli schiavi non può perciò rifarsi alla dottrina morale tradizionale, ma deve essere formulata quale insegnamento specificatamente cristiano. Agli schiavi divenuti cristiani viene detto che devono riconoscere la loro schiavitù terrena come un ordinamento loro stabilito e obbedire ai loro padroni terreni in ogni cosa. I padroni poi sono distinti dall’unico Signore al quale gli schiavi, come membri della comunità cristiana, appartengono.

L’obbedienza che gli schiavi devono prestare ai loro padroni terreni dev’essere genuina e non servendo solo perché visti. Devono obbedire con semplicità di cuore.

Il cuore, quale parte più intima dell’uomo, che determina il suo essere e il suo agire, deve essere semplice e schietto. Tutto quello che lo schiavo fa, deve avvenire nel timore di Dio. "Temere Dio" è la parola d’ordine del comportamento cristiano a cui tutti sono tenuti a conformarsi.

v. 23. La regola generale secondo cui tutto ciò che si fa in parole e in opere deve avvenire nel nome del Signore Gesù (3,17), viene ora applicata al comportamento degli schiavi. Le incombenze loro affidate devono essere eseguite con tutto il cuore, nella consapevolezza che il loro servizio è prestato al Signore, non agli uomini.

v. 24. Infatti il Signore sarà giudice di tutte le opere, anche di quelle degli schiavi. La loro ricompensa è l’eredità eterna (1,5.27; 3,1-4). Nessuno deve sciupare questo prezioso patrimonio con la disobbedienza. Perciò "Servite a Cristo Signore!" è un comandamento. Cristo è il Signore; quando lo schiavo serve fedelmente al suo padrone terreno, ubbidisce nello stesso tempo all’unico Signore di tutto e di tutti.

v. 25. Se gli schiavi mancano nei riguardi dei loro padroni, dovranno renderne conto a Dio. Davanti a Dio non c’è differenza di persona. Né i padroni saranno privilegiati, né agli schiavi sarà lecito trasgredire impunemente il comandamento di Dio.

Dio ricompensa equamente, secondo le loro azioni, gli schiavi e i padroni, che dovranno comparire davanti al suo tribunale.

4,1. Ai padroni è diretta una breve allocuzione. A quei tempi probabilmente erano pochi i cristiani che avessero degli schiavi. Perciò non era necessaria una lunga dissertazione sul comportamento dei padroni.

Non è chiesto loro di liberare gli schiavi, ma di compiere coscienziosamente i loro doveri verso di essi. Viene stigmatizzato qualsiasi abuso dei loro diritti ed è loro ingiunto di dare agli schiavi ciò che è retto e giusto. Per i cristiani il principio del diritto e dell’equità acquista un significato completamente nuovo, perché essi devono rendere conto del loro agire al Signore. Perciò i padroni sono responsabili davanti a lui di come trattano gli schiavi, perché anche sopra di essi sta il Signore in cielo. In questo modo il rapporto tra padroni e schiavi subisce un cambiamento fondamentale. Essendo gli uni e gli altri coscienti che devono obbedienza all’unico Signore, è fornito ad essi un parametro adatto per le reciproche relazioni.

Con la serie dei pacati ammonimenti compendiati in questo codice domestico, viene indicato alla comunità come ciascun cristiano, nel posto che gli è stato assegnato al momento della sua chiamata alla fede (1Cor 7,20-24), deva prestare obbedienza al Signore a cui appartiene. Come tutti sono uno in Cristo (3,11) e quindi in lui non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna (Gal 3,28; 1Cor 12,13), così tutti sono uniti e cointeressati dall’amore, che è il vertice della perfezione. Ma questa unità, fondata in Cristo, non deve essere fraintesa, come se fosse la legittimazione della situazione esistente e impedisse qualunque progresso nel cambiamento sociale.

La forza trasformatrice dell’agàpe deve annullare tutte le strutture ingiuste della società e modellare su degli schemi sempre migliori i rapporti tra gli uomini.

È antistorico fare un motivo di critica a Paolo e al cristianesimo primitivo per il fatto che non hanno predicato o imposto la liberazione degli schiavi.

Le strutture economico-sociali e gli ordinamenti giuridici esistenti non vengono annullati, ma non vengono nemmeno sanzionati come istituzioni immobili, ma sono vagliati criticamente alla luce dell’agàpe, mutati, rettificati e persino rifiutati là dove essi non servono alla realizzazione e alla pratica dell’agàpe. In questo modo ancora una volta l’agàpe risulta la norma che sta al di sopra di tutte le norme, la norma suprema della condotta cristiana.

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