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Storie di conversioni

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2010 19:43
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Storie di conversione:  Clemente Rebora

Il poeta che non trovò più le parole


di Marco Testi

Nel 1928 Clemente Rebora teneva una conferenza sul cristianesimo, la prima di una serie sulle religioni, al Lyceum di Milano. Stava leggendo alcuni passi degli Atti dei martiri scillitani:  arrivato al punto in cui i testimoni della fede, non accettando la clemenza del proconsole romano, scelgono di andare incontro alla morte, secondo il ricordo diretto di Margherita Marchione, "non poteva più andare avanti. (...). La vista gli si annebbiava. Qualche cosa gli stringeva la gola. Si prese la testa fra le mani. Si sentì smarrito. Non fu capace di proseguire". È l'apice della crisi, il momento del non ritorno, l'analogon della lettura dell'epistola ai Romani nelle Confessioni di Agostino. Il ricordo della scelta di morte-vita da parte di antichi testimoni della fede, diviene improcrastinabile e improvvisamente chiarissima percezione che quella scelta è necessaria anche per chi la sta ricordando. Il moderno lettore di memorie cristiane diviene, davanti a un pubblico esterrefatto, a sua volta testimone, scegliendo la morte (e il silenzio) alla vecchia vita, unica strada possibile per poter rinascere.
Il resto è storia nota:  la comunione - e in un secondo momento la cresima - ricevuta nel 1929 dall'arcivescovo di Milano, il cardinale Schuster, cui Rebora scriverà più volte per manifestargli la sua gratitudine e il suo commosso ricordo, l'ingresso nel collegio Rosmini di Stresa nel 1930, l'inizio del noviziato a Domodossola l'anno dopo e poi l'ordinazione sacerdotale nel 1936.
Si farebbe torto, però, alla complessità del travaglio interiore del poeta milanese se si parlasse di conversione improvvisa, perché Clemente, appartenente a una famiglia imbevuta di ideali laici e risorgimentali e di frequentazione massonica, aveva già manifestato un'ansia latu sensu religiosa:  "Nessuno di noi due era mai stato ateo, anzi vorrei dire che tutti e due eravamo sempre stati profondamente religiosi", scrive un suo antico sodale, Goffredo Pistoni. Il giovane autore dei Frammenti lirici, capo d'opera nel 1913 del moralismo vociano, ma allora incompresa e ignorata raccolta poetica, alle radici della scarnificazione ermetica di qualche anno più tardi, aveva iniziato da tempo un cammino spirituale, partendo dal deismo mazziniano di cui era  imbevuta la severa moralità del padre. Però questa dirittura etica, condivisa certamente dal giovane poeta, lasciava aperti interrogativi laceranti in un'anima che recava già in sé le stigmate di una inquieta ricerca di senso. Non gli  bastava,  come ha scritto Renata Lollo, "una  verità  puramente  speculativa".  La  stessa serietà nei rapporti familiari, lo stesso auto-controllo  e  la capacità di nascondere e dominare  i  sentimenti,  cominciavano  a stargli stretti.
"Io sto con Buddha Cristo Dante Bruno (veggansi gli heroici furori) Vico Alfieri e Leopardi; modestamente, secondo la mia statura. Non faccio professioni di fede che sarebbe inutile; io rispetto il tuo pensiero che ti ha potuto reggere sì maravigliosamente e come figlio non posso far altro. (...) Scusami se forse io abbia assunto un tono irrispettoso di polemica:  guardami qui entro e mi potrai vedere tutto e forse anche come mi vorresti. Forse è sorte di chi tende al bene e a ideali oltre il comune, di apparir o pazzo o stravagante o giù di lì". È il brano di una lettera scritta da Clemente al padre, che gli rimproverava lo scarso controllo dei propri nervi, il 22 ottobre 1908:  il giovane manifesta la volontà di cercare strade nuove e diverse dalla visione del mondo illuministica di cui era portatore il padre.  Ma, come si vede, erano strade costellate di eclettismo e sincretismo, che avevano la funzione  essenziale  di  portarlo fuori da quella sorta di immobilismo in cui si trovava in quel periodo.
In effetti, nella raccolta che seguì i Frammenti, Canti anonimi, uscita nel 1922, si nota la presenza  di una nuova ricerca, perché quella situazione di scacco rischiava di portare all'aridità e alla morte:  un po' come la disperazione e il nulla  della  Terra  desolata  di Eliot che preparano il Mercoledì delle ceneri della rinascita alla fede.
Dobbiamo però andare ancora più indietro, per capire fino in fondo quanto lunga e complessa sia stata la strada della conversione per Rebora, e più precisamente al momento in cui il poeta viene mandato al fronte. Clemente, che si era legato dal 1914 a Lydia Rivolta Natus, colta e sensibile donna di origine russa - l'amore per la donna e la guerra diverranno quasi un tutt'uno nei ricordi del Rebora sacerdote, come segno di morte dell'anima e del corpo - nel dicembre 1915 rimane sepolto sotto una frana causata dallo scoppio un obice da 305, esploso a due passi da lui. L'incidente gli causerà danni fisici e un trauma psichico che rimarrà per sempre impresso nella sua anima.
Non è un semplice evento di guerra, come migliaia in quei durissimi anni, ma per Rebora diviene segno e viatico di un destino:  nel nosocomio di Bologna, uno psichiatra, colpito da alcune parole del poeta, diagnosticò una "manìa dell'eterno". Un segno dei tempi:  da una parte la medicina ufficiale e il positivismo di metodo dell'Italia di primo Novecento, dall'altra un bisogno  di nuovo respiro che veniva da molto lontano e che nell'incidente di guerra aveva avuto  modo,  tragicamente, di uscire allo scoperto.
Con la conversione, l'entrata in convento e il successivo silenzio, sembrano perdersi, secondo Contini, le tracce del Rebora poeta "espressionista". Da questo silenzio, che il poeta lombardo (ma di ascendenti liguri) si era coscientemente e rigorosamente auto-imposto, riemergono di quando in quando tracce poetiche:  tra il 1946 e il '47 escono due nuove edizioni dei suoi versi e nel 1956 gli inediti Canti dell'infermità. Qualcosa non è andata persa di quella antica stagione, proprio quando il frate rosminiano scriveva per i confratelli poesie dedicate all'amore di Gesù per le feste comandate, per le occasioni d'incontro o per matrimoni, ma non di gente importante:  una volta compose una poesia come dono di nozze per un cieco di guerra, su invito di una bambina. Inoltre, nell'approssimarsi del tramonto terreno del poeta è possibile rilevare profonde tracce dell'inizio, come in una lirica datata 13 gennaio 1956, nella quale si notano molti punti di contatto con la precedente produzione:  "Tutto è al limite, imminente:  / per lo schianto, basta un niente; / da un gran vuoto / tutto esorbita nel moto, / anime, famiglie, consorzi; / tutto è un farsi avanti a spinte e a sforzi:  / sono contati gli istanti". Si penserebbe quasi al Rebora dei Frammenti lirici, se non fosse che più avanti si parla direttamente di Dio, e che c'è un richiamo alla propria vicenda:  "Un che sa, ed è dei capi / (Nicodemo forse?) / scorta luce ove è Gesù, / all'oscuro s'inoltra, / e in segreto, a tu per tu, / chiede qualcosa di sicuro". Eccolo, il "vecchio" Rebora, poeta di talento, ma involto in una crisi senza apparente speranza:  è il Nicodemo che si accosta nel segreto - quasi ancora dubitasse - a Gesù, e chiede una parola che lo traghetti al sicuro, dall'altra parte del guado.
Quello che è venuto dopo la conversione, non sembra più interessare i critici letterari, perché riguardava un  uomo  che rinunciava talvolta al  canto,  per  comporre poesiuole di comunione e di Natale  facili,  rime  che  tutti,  e  non  solo pochi  intimi,  potessero  cantare  nelle feste religiose.
Solo pochi hanno colto l'abissalità della scelta:  il sacrificio del vecchio sé fino a farsi umile catechista, per diventare unicamente voce del Verbo. In occidente vi sono stati pochi esempi come questo. Aveva ragione Claudel:  la spasmodica tensione che spinse l'ancor giovane Rimbaud verso il silenzio aveva anche dell'angelo, non solo del demone.
Eppure questa rinuncia sarebbe divenuta, in altri tempi o in altri luoghi, materia di costruzione di un mito. Ma sarebbe stato un mito troppo "sfacciatamente" religioso, in contrasto con la mitologia "laica" di quei tempi.
Che se ne fa la storia della letteratura di un poeta che apparentemente rinuncia al canto, quel canto che pure - ma molti anni dopo - lo avrebbe reso un mito del primo Novecento, indicato a dito dagli storici della letteratura come l'iniziatore della nuova "melica" insieme a Dino Campana? Che se ne fanno gli addetti ai lavori di un poeta che cita costantemente le Scritture nei suoi versi?
Eppure, se fossero stati più attenti, avrebbero trovato impressionanti episodi in cui il dolore dell'agnello sacrificale nella Bibbia, del Cristo nei vangeli e di Clemente nelle poesie del convento divenivano poeticamente una cosa sola, come in "Solo calcai il torchio", in cui il sacerdote sofferente fa accenno all' "incomprensibile amore del Padre", riprendendo fedelmente Isaia, 63, 3. In Rebora il racconto del re-vendemmiatore, che sconfigge i nemici di Israele senza l'aiuto del suo popolo caduto nel peccato è  figura del Cristo patiens, ricoperto del suo sangue  versato  per gli uomini, e anche della sofferenza  del  poeta, che la offre come espiazione.
È evidente qui l'identificazione assoluta di Rebora nel Cristo sofferente, per cui ambedue possono affermare di aver sparso in libagione il loro sangue, Cristo per libera scelta, il poeta-sacerdote per l'infermità che lo sta sempre più avvicinando al Vivente. Una identificazione con l'agnello sacrificale che lo avvicina all'altra grande epopea incompresa del nostro Novecento, gli Orfici di Campana.
Resta il fatto di una poesia che continua anche dopo la conversione, spesso con soluzioni che ricordano i Frammenti. Nonostante l'aspirazione al silenzio, la voce ritorna. Nonostante il tentativo di mutarla, di disciplinarla nell'ubbidienza, nella regola, essa riprende il suo antico ruolo, solo che stavolta aveva trovato la sua strada:  Dio e gli altri.
La grande crisi di identità dell'antico poeta era divenuta dono di sé in modi che l'uomo contemporaneo (con le dovute eccezioni:  Giovanni Boine, Benjamin Crémieux, Jean Chuzeville e più tardi Carlo Betocchi) non poteva comprendere. Il poeta perduto aveva affrontato la solitaria strada dell'ineffabile, che lo avrebbe portato a distanze irreparabili dal suo vecchio uomo e, in taluni casi, anche dagli altri.



(©L'Osservatore Romano - 12 luglio 2008)
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