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Storie di conversioni

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2010 19:43
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Storie di conversione:  il duplice ritorno di Julien Green

Nell'oscurità che avvolge
il mondo resta comunque la verità


di Claudio Toscani

"Vi scrivo poche parole prima di partire, per dirvi che questa mattina ho fatto la comunione, in seguito ad una conversazione che ho avuto con padre Rzewuski". Così Julien Green scrive a Jacques e Raissa Maritain il 25 aprile del 1939.
Narratore, diarista, saggista e commediografo, Green nasce, ultimo di otto figli, nella Parigi "rustica, desolata e magica" del 1900 da genitori americani di sangue scozzese e irlandese, puritani e protestanti. La madre viene dalla Georgia e il padre dalla Virginia. Dall'indole d'Irlanda eredita quanto essa offre di "impulsivo, sognante, carnale e instabile"; da quella di Scozia "le crisi religiose, l'amore profondo per le Scritture, la lunga ostinazione che ha quasi sempre ragione d'una connaturata pigrizia"; dal profondo Sud americano, infine, il tratto solitario, la vivace immaginazione ricca fino all'eccesso di cupi sogni notturni e languide fantasie.
I Maritain - Jacques, filosofo, ambasciatore, animatore della resistenza spirituale francese, e Raissa, sua moglie, poetessa e collaboratrice, insieme passati al cattolicesimo nel giugno del 1906 - sono amici di Green, suoi estimatori, e ne esaltano gli esiti narrativi, oltre che critici. Ne apprezzano l'amalgama tra realtà e invenzione, cioè la visionarietà del vero, e sono affascinati dall'insondabile profondità dei suoi personaggi e delle loro anime, sospese tra i tempi miserabili e sacri della vita:  tenebre e stelle tra natura umana e trascendente destino.
A trentanove anni, dunque, Julien Green "riapproda" alla Chiesa di Roma, "complici" gli amici, quasi suoi direttori spirituali, fratelli maggiori con cui discutere, confidarsi e corrispondere a distanza, elaborare e commentare idee, sottoporre progetti. "Ho avuto l'impressione di incontrare un uomo - dice Green di Maritain - venuto da un altro mondo. Mi è sembrato che l'invisibile prendesse corpo, parlasse con una voce umana, mi osservasse con i suoi occhi azzurri dove si rifletteva il colore delle regioni che abitava".
S'è detto sopra:  "Green riapproda alla Chiesa di Roma". Non è una svista, perché lui veniva da un sorprendente retroterra religioso - per altro, la sua stessa famiglia conoscerà una irresistibile sequenza di conversioni:  per prima Mary, la sorella; poi il padre e la madre, a tempi lunghi, quando l'educazione del figlio futuro scrittore si sarà consolidata.
Nato protestante, in seguito al trauma della scomparsa della madre nel 1916 Julien si era già convertito al cattolicesimo, facendo addirittura presagire una sua entrata nell'ordine dei frati benedettini, proposito poi lasciato cadere.
Il sopraggiungere della prima guerra mondiale lo vede infermiere della Croce rossa americana sul fronte italiano non lontano da Treviso dove pure Ernest Hemingway stava militando, pur senza mai incontrarlo.
A guerra finita si iscrive, in Virginia, all' università di Charlottesville, già frequentata da Edgar Allan Poe, ma tre anni dopo rientra a Parigi.
"Cupo e studioso, vivevo all'Università della Virginia le ore più tristi della mia giovinezza".
È il 1924 quando abbandona la fede romana e pubblica uno sferzante pamphlet contro i cattolici francesi, che in ogni caso rimane un segnale della sua attenzione per quelle problematiche religiose che vivrà, fino alla riconversione, nel segno di un desiderante tormento. Ma anche a Credo ritrovato e ribadito, non tutto in lui sarà esente da dubbi, ripensamenti, intermezzi agnostici e lotte contro le tentazioni di sempre:  incarnerà la testimonianza di un uomo, un romanziere e un intellettuale, che sperimentano assieme, in un'unica treccia esistenziale, moderni scrupoli e angosce di un mondo che non li sente più come presenti.
Il lettore non si aspetti di trovare trame cosiddette "edificanti" nella bibliografia creativa di Julien Green, ma un tipo di romanzo che non mostra di volersi sposare con l'aggettivo "cattolico", e anche situazioni cariche di una forza esplosiva che scardinano la coscienza, a cominciare da quelle che ospitano l'avventura di Adrienne Mesurat (1927), giovane donna assetata di libertà che per questo non rinuncia al delitto ma che paradossalmente è destinata a soccombere davanti alle tante barriere del mondo e della società. O come in Leviatan (1929), rappresentazione a tinte fosche, allucinate, del carcere che sono i nostri propri vizi, garanzie di distruzione morale oltre fisica. Anche Veruna (1940), sotto il cielo notturno d'una mitologia sanscrita che vigila sul compimento di tutti i destini, contempla personaggi smarriti, preda di forze oscure e vittime di inesorabili fatalità, ignote a tutti meno che a Dio; e così pure Moïra (1950), che s'incentra sulla figura di un universitario ossessionato dal fascino di una ragazza e così ineluttabilmente trascinato dalla sua passione da farsene travolgere fino all'orlo della perdizione. Mentre solo nel maturo Relitti (1985), nell'ambito di una stringente critica alla borghesia, Green anima un pavido e inetto protagonista che tuttavia trova un emblema di rivalsa salvifica proprio nel figlio a suo tempo concepito nell'odio.
Siamo insomma, a differenza degli scrittori di immediata e scoperta pedagogia morale e religiosa, immersi in un mondo che ha scelto l'abbandono della grazia divina. Ma cosa rimedia all'evidente squallore di queste vite se non la constatazione dell'inferno che esse stesse si procurano con la loro condotta?
Ma torniamo agli anni verdi del giovane Green:  sedicenne, aveva letto l'Apologia pro vita sua del cardinal John Henry Newman - che, da parroco anglicano, si era poi convertito al cattolicesimo, ottobre 1845, salendo sino alla porpora. Chiudendo l'Apologia, che insieme al citato trauma per la morte della madre, lo stava trascinando all'ortodossia cristiana, s'era messo a fantasticare su cosa avrebbe potuto essere un libro in cui si sarebbe detto tutto, il bene come il male, per una fervida esigenza di descrivere la verità nella sua interezza, senza attenuanti né ritocchi né alcun altro tipo di accomodamento o frode. Questo sogno doloroso lo accompagnerà lungo tutta la sua vita di scrittore, nella convinzione che la verità, perfino quella più umiliante o vergognosa, ha una sua nobiltà, una sua grandezza muta che impone rispetto, dato che verità è e verità rimane.
Scriverà in un trattatello di parecchi anni dopo:  "La verità è la libertà dell'anima" e, "se hai la pretesa di non deviare dalla verità, sei per forza costretto a presentare onestamente quello che chiami il male".
Una dichiarazione di poetica e la chiave stessa a quella totale e scottante, e perciò stesso seducente disinvoltura narrativa in dote ai suoi romanzi, indelebile marchio del suo essere cattolico e scrittore, estremo ma non ultimo rappresentante di una pattuglia di narratori che da Francis Jammes a Charles Péguy, da Paul Claudel a François Mauriac a Georges Bernanos, ha dimostrato la grande vitalità della cultura cattolica francese. Lui, Julien Green, che rimarrà comunque vicino ai "laici" come Proust e Gide, Baudelaire e Dostoevskij, per il comune attacco al naturalismo, padrone del proprio mondo, luce mai priva di ombre, gioia e supplizio delle proprie pagine.
"Com'è piacevole lavorare con un uomo intelligente! - scrive Green dando voce al diavolo che lo sta blandendo - Faremo qualcosa di superbo, insieme, e la morale sarà salva". "La morale?" - ribatte Green. "Certo, la morale. Faremo passare le scene scabrose sotto la bandiera della fede. Penso a tutto io". Riprende Green:  "Ma quello che mi proponi è una vergogna! Io lo denuncio, il male, gli sono contro!". "Sicuro - chiude il diavolo - ma il lettore di oggi è convinto che il male non esista e che io, il diavolo, sia solo una finzione".
Green non vuol ridere di cose serie, è nel solco del suo particolare, intimo problema:  e ora che ha riscoperto l' incontaminata purezza della dottrina di Cristo gli si ripresentano il mondo e la trappola del peccato, la volgarità e la violenza che abitano la storia, e persino il suo scrittoio come rischio di oggetto orrendo. Ma non volendo dire o pensare nulla lontano dalla verità - "Non si può che credere senza comprendere tutto" - accetterà l'azzardo di raccontare il degrado fisico e morale, il crimine e la morte interiore, la sconcertante e impervia vita della gente e i più terrificanti rovelli di coscienza, con l'inchiostro della fiducia, anzi, della speranza. Con l'augurio, qualcosa più che uno scialbo bagliore, magari il raggio di un'utopia, che dalla realtà del tutto emerga anche quella del diavolo, e non la sua sleale finzione.
Secondo Green, "Dio entra più facilmente in un'anima devastata dai sensi che in una barricata dietro le proprie virtù". E sebbene "i popoli camminino verso l'inferno", lui spera che non ci arrivino, perché "se Dio smettesse per un secondo di perdonare, la nostra terra se ne andrebbe in frantumi".
Chiunque avesse letto la trentina di volumi in capo a Julien Green, senza accompagnarla con la visione, almeno, di un qualche capitolo del suo ingente, incessante Journal (un diario di un'altra ventina di tomi, iniziato nel '28 e durato fino alla sua morte, settant'anni dopo), che grado a grado, passo dopo passo, fiancheggia intellettualmente e spiritualmente l'opera creativa, resterebbe privo di molte della ragioni che hanno chiarito la sua fede a se stessa.
Per esempio la fendente, spesso mistica esplorazione delle tenebre e del vuoto esistenziale che lui percepiva nel mondo come dolorosa ansia di Assoluto. O l'adesione a quella cristiana dualità di spirito e carne, male e bene, peccato e grazia che era in lui, a un tempo, coscienza del Maligno e ansia metafisica, senso del peccato e nostalgia di Dio, redenzione nell'umiltà piuttosto che disperazione nell'orgoglio.
Senza tensione, senza conflitto, non c'è per lui nemmeno pentimento, remissione, abbandono. Conservare Dio senza perdere il mondo non è possibile. Ma non è agevole. Lui è tornato alla Chiesa, e per ben due volte, perché solo in quel Grembo avrebbero avuto senso le sue sofferenze e i suoi limiti.
"Dio è violento. Spezza il cuore", gli disse un giorno un amico. "Nel '16 e nel '39 ha spezzato il mio - rispose Green - per entrarci".
Destino alto e totale, il suo:  che gli prese la vita in scontri, coinvolgimenti, assestamenti, tregue, cadute e ricadute. Senza mai placargli "la fame da lupo di Dio".
Destino di uomo che vede l'immensa oscurità che ci avvolge, cose e creature tutte, nelle tenebra incandescente del male. Ma che all'atto della scrittura imponeva:  "Sopprimete il peccato e sopprimerete l'opera. L'importante è che non vi sia complicità.
Tra il visibile e il mistero, ma oltre il muro del mondo.



(©L'Osservatore Romano - 28 agosto 2008)
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