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La professione medica come ministero

Ultimo Aggiornamento: 10/12/2008 09:54
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La professione medica come ministero (parte I)


ROMA, martedì, 2 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione della dott.ssa Maria Antonietta Sansone, medico della A.S.L.



 

* * *

Ho letto, da qualche parte, che quando con il nostro lavoro, qualunque esso sia, ci prendiamo cura del prossimo, realizziamo un po’ di più il nostro essere a immagine di Dio, poiché Dio si prende cura dell’uomo (cf Salmo 143 v. 3: Signore, che cos’è l’uomo perché te ne curi? un figlio d’uomo perché te ne dia pensiero? E anche il Salmo 8 v. 5: Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?).

Ogni lavoro può allora essere "ministero", veicolo di grazia.

Gaudium et Spes, n. 34: Gli uomini e le donne che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia.

Lumen Gentium, n. 36: … i fedeli anche con opere propriamente secolari (contribuiscono a che) il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine…

Cf Evangeli nuntiandi, n 70; Laborem Exercens cap.V; Christifideles laici, n.23.

Il titolo di questo intervento chiede però in particolare, una riflessione sulla professione del medico come ministero. In altre parole, esercitare questa professione può diventare un riflesso dell’amore di Dio per l’uomo?

E’ bene fare due premesse.

La prima è che fin dai primi secoli, i cristiani hanno sentito come loro dovere primario la cura dei malati e quando, dopo la svolta di Costantino (dall’editto del 313 d.C. la religione cristiana non è più perseguitata), nel secolo IV sorgono i primi ospedali, questi sono espressione di assistenza secondo gli insegnamenti di Gesù. I cristiani, cioè, non si dedicano alla ricerca, non fanno scoperte scientifiche, apprendono dalla medicina dei greci e da quella antica tutto quello che allora si sapeva per curare le malattie, ma non considerano più il malato qualcuno da emarginare ed evitare perché immondo e punito da Dio, ma un fratello da assistere.

Successivamente la medicina cristiana viene coltivata e praticata nei monasteri, soprattutto benedettini.

E’ nel medioevo che la cura dei malati viene annoverata tra le "artes", cioè si sgancia dalla religione e diventa un mestiere, un’attività che da allora in poi sarà sempre più tecnica, come la conosciamo oggi.

Tuttavia, almeno per la nostra sensibilità, non è accettabile che la medicina sia un mestiere. Siamo tutti concordi nell’affermare che "fare il medico deve essere una missione". Così ci scandalizziamo se poi, di fatto, resta un mestiere ed esercitandolo magari si guadagna molto; oppure si deve correre troppo e ogni tanto per questo si può sbagliare; oppure se a livelli super-specialistici comporta una certa dose di freddezza e di grande distanza nel rapporto tra medico e paziente (ci lamentiamo di quel professore perché, ad esempio, "mi ha guardato solo il fegato!"). Succedono queste cose perché è un mestiere, ma per la nostra sensibilità non è accettabile.

C’è un altro dato. La medicina attira fortemente il nostro interesse. Avrete notato che, in certe settimane, il 90% dei film a puntate che trasmette la televisione di tutti i canali, racconta storie di medici? Se la televisione lo sfrutta, deve essere davvero un argomento che attira tutto il nostro interesse. Io non li guardo molto, anche se qualche serie è fatta bene, ma sapete cos’è quello che mi incanta di queste storie? Non il fatto che questi medici corrono tutto il giorno, azzeccano in pochi minuti diagnosi di malattie stranissime e rarissime o salvano continuamente vite umane. Anche a me è capitato di salvare qualcuno, ma ogni tanto, una vita ogni tanti mesi; loro invece come minimo salvano tre o quattro vite a puntata. Però quello che mi incanta di più non è questo, ma che le dottoresse, pur correndo tanto, riescono ad essere sempre ben pettinate, hanno sempre i capelli a posto. Come faranno? A me non riesce.

Era la prima premessa: la medicina cristiana nasce come opera di misericordia per motivi legati alla religione e poi diventa un mestiere. Ma per la nostra sensibilità non è accettabile che sia solo un mestiere.

La seconda premessa che vorrei fare prima di rispondere alla domanda "Esercitare la professione medica, può diventare un riflesso dell’amore di Dio per l’uomo?", è che Gesù stesso ha svolto l’attività di medico.

Nei Vangeli Sinottici, Egli inizia la predicazione insieme all’attività di terapeuta:

Cf Marco 1,31-34: Dopo la chiamata dei primi discepoli, Gesù entra nella Sinagoga di Cafarnao, si mette ad insegnare, un uomo indemoniato grida: "Che c’entri con noi…" e Gesù lo guarisce. Poi si reca a casa di Simone che ha la suocera con la febbre. "Egli accostatosi la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò…Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati…Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni". Vedo in questa scena una specie di ambulatorio serale, mi viene in mente il mio ambulatorio del lunedì sera che sembra non dover finire mai.

Luca 4, 35-41 (Stesso episodio: guarigione dell’indemoniato e della suocera di Pietro etc.)

In Matteo 8 e 9 abbiamo la descrizione di dieci miracoli: il lebbroso, il servo del centurione, la suocera di Pietro, varie guarigioni che Matteo descrive al v. 16 in questo modo "Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati", gli indemoniati gadareni, il paralitico, l’emorroissa, la figlia di Giairo, i due ciechi, il muto indemoniato.

Nel Vangelo le guarigioni di Gesù sono segno dell’opera di Dio che salva. La stessa missione di evangelizzazione affidata ai dodici "per le pecore perdute della casa di Israele" descritta al capitolo 10 di Matteo comprende, come parte essenziale, il comando "guarite gli infermi" che intitola questa presentazione. E nel suo Vangelo Luca, riportando lo stesso episodio, al capitolo 10 v. 9 aggiunge: "Curate i malati che vi si trovano e dite loro: si è avvicinato a voi il regno di Dio", come a dire: la cura dei malati è prova dell’avvento del Regno di Dio.

A questo punto è possibile rispondere: l’attività medica esercitata dal medico Gesù era sicuramente riflesso, segno, dell’amore di Dio per l’uomo.

Non mi resta quindi che analizzare gli atteggiamenti di Gesù per imparare in quale modo Egli, attraverso la sua azione di terapeuta, rifletteva l’amore di Dio.

Ho scelto solo alcune riflessioni, quelle che sento più significative per me e che certamente non esauriscono l’argomento.


a. Gesù prova compassione
. Pensavo in particolare all’episodio della resurrezione del figlio della vedova di Nain. Gesù si avvicina alla città e vede un corteo funebre. Il morto è un ragazzo figlio di una vedova e, scrive Luca al cap.7, v.13-15: Vedendola il Signore ne ebbe compassione e le disse: "Non piangere!". E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse "Giovinetto, dico a te, alzati!". Il morto si levò a sedere…"

Questo verbo "esplanchnìsthe" che noi traduciamo con "provò compassione", è uno dei verbi più pregnanti di tutto il Nuovo Testamento e indica la commozione che prova una madre quando sente piangere il suo bambino perché è malato, quindi non è un semplice sentimento di compassione ma qualcosa che sconvolge dall’interno le viscere di una madre. Gesù prova tutto questo, viene profondamente sconvolto dal vedere il dolore dei suoi figli.

La seconda considerazione che vorrei fare è a proposito del fatto che in questo episodio Gesù prende l’iniziativa, e non aspetta che sia la donna a supplicarlo. Questo ci consola particolarmente perché quando soffriamo, noi abbiamo la pretesa di voler essere "indovinati", non sempre vogliamo spiegare quello che sentiamo. Certamente perché le parole non riuscirebbero a tradurne l’intensità e la peculiarità, la sofferenza è in qualche modo "incomunicabile" e allora vorremmo essere letti dal di dentro, "indovinati" appunto.

Però è una pretesa che solo il Signore può soddisfare. Quando il nostro interlocutore è un essere umano come noi, non possiamo pretenderlo. Invece, qualche volta la pretesa rimane.

Chi di noi quando è malato non si accorge di diventare un po’ brontolone, esigente, lamentoso, scontroso, in una parola più egoista? Quando il dolore ci rende più egoisti, è piuttosto difficile che susciti in un altro, per esempio in un medico, sentimenti di compassione; sono decisamente più spontanei sentimenti di repulsione o almeno di fastidio, di sopportazione.

Verso il Signore noi siamo sempre così: petulanti come dei malati egoisti, e Lui prova ugualmente compassione perché ci ama come una madre, e viene profondamente sconvolto dal nostro dolore, anche se è un dolore "egoista".


b.
Gesù dimentica il proprio dolore e si occupa del dolore degli altri. Un episodio fra i tanti è l’episodio del cieco di Gerico (cf Lc 18, 35-43). Gesù attraversa Gerico diretto a Gerusalemme, dove sarà crocifisso. Egli è pienamente cosciente di questo perché al cap. 17, v. 25 ha appena predetto la sua passione dicendo che è necessario che Egli soffra molto e venga ripudiato da questa generazione. Mentre si avvicina a Gerico, un cieco sente il trambusto della folla e viene a sapere di Gesù, comincia a gridare, gli viene intimato di tacere, ma lui grida più forte. Gesù allora si fermò e ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, gli domandò: "Che vuoi che io faccia per te?". Egli rispose: "Signore che io riabbia la vista". E Gesù gli disse: "Abbi di nuovo la vista!".


c. Gesù non si arrende di fronte all’ingratitudine.
Il fatto che Gesù continui ad occuparsi del dolore degli altri, senza pensare al proprio dolore, è ancora più sorprendente se pensiamo che da poco, nel suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ha appena incontrato dieci lebbrosi i quali vedendolo gridano "abbi pietà di noi!". E Gesù ha pietà di loro e comanda di andare a presentarsi ai sacerdoti. Questa era una norma legale, i lebbrosi dovevano restare esclusi, separati dalla comunità perché immondi e soprattutto contagiosi. Se fossero guariti, per essere riammessi, dovevano avere la "convalida" del sacerdote. Questi dieci lebbrosi dimostrano tutti una grande fede, perché al comando di Gesù obbediscono, anche se ancora non sono guariti. Dice il testo: E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un samaritano. Ma Gesù osservò: "Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?". I dieci avevano tutti una grande fede, ma solo uno aveva anche sensibilità e torna indietro a ringraziare. Gesù lo nota e manifesta il suo disappunto: non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? E’ legittimo, è pedagogico farcelo notare. Ma è purtroppo realistico che la gratitudine umana abbia una proporzione, per così dire, di uno su dieci. Gesù, però, non si arrende e continua a fare del bene e a soccorrere il dolore degli altri senza pensare al proprio e, poche pagine dopo, attraversando Gerico, guarirà il cieco, come abbiamo visto. A proposito della gratitudine volevo aggiungere che a me va un po’ meglio che a Gesù, perché mi succede spesso che, dopo qualche anno, rivedo uno dei miei pazienti che mi dice "potrebbe darmi la stessa medicina che mi ha dato quella volta? (anni prima). Perché quella volta mi ha fatto bene subito e sono guarito, ma adesso ho gli stessi disturbi di allora." Così, a differenza di Gesù, che forse non ha più rivisto i lebbrosi, io dopo qualche anno vengo a sapere con gioia che quella persona era guarita, però. Il problema è che non ricordo più quale era la medicina, e mi prende la preoccupazione di non riuscire a ripetere il miracolo!


d.
Gesù pensa a tutto l’uomo, cioè vuole la salvezza di tutto l’uomo. Nell’episodio della guarigione del paralitico (Mc 2,1-12; Mt 9,2-8; Lc 5,17-26) Gesù afferma con chiarezza che la guarigione del corpo dalla paralisi è segno di una guarigione dell’anima alla quale vengono rimessi i peccati. Secondo la rivelazione, la malattia è conseguenza del peccato originale. Ma la mentalità giudaica del tempo di Gesù, riteneva la malattia come la diretta punizione per il peccato commesso. Gesù rifiuta questa mentalità; ricordiamo a tale proposito quello che dice Gesù a proposito del cieco nato (Gv 9,1-3): Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: "Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?". Rispose Gesù: "Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio". Nell’episodio del paralitico, accostando alla guarigione del corpo la salvezza dell’anima, Gesù sembra voler ricordare al medico cristiano che c’è un modo nuovo di avvicinarsi al malato, un’altra salvezza da comunicargli. Non basta la salute del corpo, c’è un’altra dimensione che fa parte dei bisogni dell’uomo anche se lo stesso malato può non saperlo ancora.


e. Gesù, per operare guarigioni, esorta alla fede
. La fede è condizione per il miracolo, e nello stesso tempo, quando Gesù dice: "la tua fede ti ha salvato", sembra sottolineare la fede come forza per vivere, cioè la fede che dà coraggio per vivere. Un’applicazione pratica per il medico è, quindi, quella di dare contenuti e valori oltre che medicine, di aprire alla speranza. Chi soffre ha bisogno di dare senso alla propria sofferenza. Quello che ci rende incapaci di soffrire è il "non senso" o l’apparente non senso della sofferenza. Dico "apparente non senso" perché la sofferenza rimane un mistero, uno scandalo se vogliamo, ma da quando Cristo ha voluto sperimentare su di Sé la sofferenza, "essa - scrive il Papa Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Salvifici doloris - è stata legata all’amore, a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male…e colui che soffre in unione con Cristo non solo attinge da Lui la forza… ma a suo modo completa quella sofferenza mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo. Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza". Non siamo più soli nel nostro dolore e, nello stesso tempo, la sofferenza umana è stata elevata a livello di redenzione. Ecco, quindi, il suo senso, un senso redentivo.


[La seconda parte verrà pubblicata il 9 dicembre]


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